“..sul filo di un ragionamento pacato e dialogico – ma incalzante – basato essenzialmente sull’esperienza (dunque inevitabilmente molto femminile) che il libro svolge i propri argomenti “contro” la maternità surrogata (e non contro le donne che la invocano, la praticano, la difendono).”

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L Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, La Scuola, Brescia, 2016, pp. 86.

[Claudio Sartea]

Luisa Muraro è nota come pensatrice femminista, e rivendica questa sua identità culturale e
sociale con forza ed insistenza. Nonostante il titolo – anzi, il sottotitolo di questo libretto – ella non
è contro nessuno: come avvertenza introduttiva, leggiamo a p. 5 che “l’autrice non si contrappone a
persone che la pensano diversamente, specie se donne. Con donne mi confronto di preferenza, tanto
più su questi temi in cui ne va dei loro (nostri) desideri, corpi e libertà. Alle contrapposizioni e agli
schieramenti, preferisco la lettura dell’esperienza, la ricerca di argomenti e, se necessario, il
conflitto”.
Ed è in effetti sul filo di un ragionamento pacato e dialogico – ma incalzante – basato
essenzialmente sull’esperienza (dunque inevitabilmente molto femminile) che il libro svolge i
propri argomenti “contro” la maternità surrogata (e non contro le donne che la invocano, la
praticano, la difendono). Muraro usa un linguaggio piano e persino semplice, ma quello che scrive è
straordinariamente preciso, profondo ed efficace: il libro è composto da due parti (Dentro le parole
e La relazione materna), ciascuna delle quali è costituita da brevissimi capitoli (mai più di otto
pagine), la bibliografia è intenzionalmente scarna (per assicurare carattere divulgativo al testo), ma
le idee proposte sono penetranti, denotando la personalità dell’autrice ma anche tracciando un solco
che, sul tema in parola e, come vedremo, anche su qualcosa di più, chiede di prendere posizione.
La prima parte è metodologica: Muraro spiega perché il problema dell’utero in affitto è così
rilevante da esigere un posizionamento, a maggior ragione da parte di coloro che, come le
femministe, hanno anzitutto a cuore la difesa e promozione della donna. Nella discussione sulla
surrogazione della gestazione, infatti, hanno finito per intrecciarsi problematiche culturali (come
l’idea di libertà, continuamente richiamata nel libro, e quella di differenza sessuale, pure spesso
evocata), sociali (la regolazione mercantile degli affetti), politiche (l’intervento del legislatore, del
governo, del diritto, nelle questioni familiari e generative), psicologiche (il desiderio ed il bisogno,
le relazioni fondanti l’identità), producendo quello che l’autrice non esita a definire “un ingorgo di
problemi” (p. 11). Muraro è capace di prendere molto sul serio la spinta iniziale, la molla da cui
tutta la questione scaturisce: “la potenza del desiderio”, come lei la chiama, perché “il punto di vista
di chi ha un vivo desiderio, non può essere ignorato”. Il punto è che “con la surrogata la
realizzazione del desiderio genitoriale fa un salto di qualità. Non potendo generare una propria
creatura, gli aspiranti genitori lo realizzano facendo propria una creatura che viene al mondo per
soddisfarlo, unicamente. Soddisfarlo è la sua ragion d’essere” (p. 24): e qui è definitivamente
marcata la distanza, concettualmente e simbolicamente incolmabile, che separa queste situazioni da
quelle adottive. Ma proprio qui si slatentizza il profilo cruciale di tutta la discussione, ben descritto
da Muraro con queste parole: “Traspare l’aspetto meno accettabile di questa pratica, quello di
oltrepassare la necessità medica e diventare così un attacco demolitore alla relazione materna” (p.
25).
La seconda parte, più ampia – nei limiti di un libro che, se non fosse per la densità e
l’intelligenza degli argomenti, parrebbe per la sua estensione più un pamphlet che un saggio vero e
proprio – sviluppa proprio questa idea della relazione materna, cui la surrogazione gestazionale
porta l’attacco più formidabile ed umiliante. E, come aveva scritto nelle prime pagine l’autrice, “il
punto non è d’impedire agli esseri umani di fare cose meschine o crudeli, stupide o sbagliate. Il
punto è di non accettarlo, di pensare a quello che facciamo, pensarci anche prima e non giustificare
il malfatto né farci l’abitudine” (p. 19). E questa prospettiva, occorre riconoscerlo, rende tutta la
giustizia possibile al compito specifico della critica giuridica e giusfilosofica, anche (e persino)
quand’essa si volge contro le norme vigenti, e non solo contro i comportamenti più o meno devianti
da esse.
Nella seconda parte del volume il lettore troverà dunque importanti considerazioni sulla
relazione materna, librate tra l’antropologia filosofica e la psicologia: che possono essere lette nel

controluce dell’aggressione portata dalla maternità surrogata, ma che possono anche costituire
autonomo oggetto di riflessione al femminile su un’istanza tipicamente ed esclusivamente
femminile che sta all’origine, all’inizio, alla fondazione dell’esistenza di ciascuno di noi. Non come
una “creazione” nell’arrogante senso maschile, come finemente osserva Muraro citando addirittura
il Nietzsche dell’Aurora (a p. 35), ma nel senso cooperativo, sinergico, di mirabile armonia tra
l’elemento passivo e quello attivo, tra il lasciar(si) fare e fare, che solo una donna che ha concepito
e portato avanti i nove mesi gestazionali e poi partorito ed allevato un figlio, insegnandogli a parlare
(elemento che per Muraro è essenziale nella funzione materna e dunque nella parte esclusiva del
femminile nell’educazione di ogni umano), è davvero capace di cogliere – non necessariamente di
capire, perché non tutto può essere razionalizzato, e qui siamo proprio nel dominio di ciò che
sfugge al potere ed alla tecnica umane. “Il mio argomento principale è questo: se diamo altro posto
ancora alla tecnica e al mercato in ciò che riguarda la riproduzione degli esseri umani, mettiamo a
rischio la relazione materna, da una parte, e dall’altra la ricerca di un nuovo e più ricco senso della
paternità, che è iniziata con la fine del patriarcato. Questa ricerca e quella relazione sono presenti e
attive, sono fattori vivi di umanità in un mondo in cui non credo che possiamo sprecare fattori vivi
di umanità” (p. 31). Difficile esprimersi più chiaramente per indicare non solo l’argomento
cardinale “contro l’utero in affitto”, ma anche la grandezza e la gravità della posta in gioco.
Questione di libertà, come molti affermano per difendere la legalizzazione delle pratiche
surrogatorie, almeno di quelle a titolo gratuito, nel contesto generale di una iperliberale esaltazione
dell’autonomia individuale come (unico sopravvissuto) valore supremo? Non proprio, suggerisce
Muraro: anzi, forse è esattamente il contrario, se riusciamo a cogliere la profonda, ma spesso non
percepita, differenza tra libertà e possibilità di scelta. “Una delle mie autrici di riferimento, Iris
Murdoch, ha scritto che scegliere è quello che resta ‘quando tutto è già perduto’. Sottinteso, che
resta a ‘noi’ che viviamo nei paesi sedicenti liberi. Vuol dire che, quando abbiamo perduto la forza
del desiderio, l’energia di cambiare, l’orientamento e tutto quello che ci fa decidere e agire con quel
godimento di essere che è esperienza della libertà, allora ci resta la scelta di fare così o colà,
secondo i mezzi che abbiamo e le offerte che ci fanno: nei nostri supermarket abbondano” (p. 38).
Ecco tra l’altro perché il mercato non è la simulazione delle relazioni, o dell’esperienza sociale, ma
tutt’al più né è una scimmiottatura.
Riduzionismi, dunque: come quello che fa parlare di “diritti riproduttivi” anche in relazione
alle nuove possibilità generative dipendenti dalle biotecnologie. Tuttavia, come puntualmente rileva
Muraro, “che la maternità sia un’esperienza di libertà per la donna, è più che un diritto individuale:
è una misura alta di qualità cui mirare nei rapporti eterosessuali ed è un dono impareggiabile da fare
alle creature che mettiamo al mondo” (p. 39). Per questo motivo “lo scambio di vita tra i due esseri
umani, quello che arriva al mondo e quello che ve lo accompagna, domanda di andare avanti senza
interrompersi” (p. 46): siamo dunque al cuore dell’obiezione antropologica (prima che etica e
giuridica) alla maternità surrogata. Nelle pratiche di locazione uterina, al di là delle possibili
sfaccettature e sfumature nelle modalità esecutive, almeno una cosa è certa e caratteristica: la
frattura brusca del legame, la rottura improvvisa della relazione tra il bambino e sua madre, la
negazione artificiale (artificio biotecnologico quando si realizza, artificio legale quando viene
riconosciuto con gli strumenti formali del diritto) di quello che Muraro chiama “il continuum
materno” (p. 65).
Da notare che l’autrice non indulge nemmeno per un istante a sentimentalismi, e non
propone una lettura patetica delle vicende di surrogazione. È molto asciutta, e tanto più incisiva: per
lei lo scandalo non riguarda il bambino, riguarda i genitori sociali, i soggetti desideranti, il cui
desiderio abbiamo sin dall’inizio voluto prendere così sul serio. “La creatura, infatti, separata dalla
madre, ha la capacità, acquisita nella fase di vita intrauterina, di fare il lavoro, biologico e
simbolico, di ricostituirla nelle persone che le subentrano. Pensando a lei, bambina o bambino,
diciamo: brava! bravo! Ma alle persone adulte, vorrei dire: se le parole hanno un senso, voi siete i
surrogati!” (p. 70). E questo attentato alla relazione ed al continuum materni, ci sarà modo di

sventarlo? “Il neonato separato dalla madre è capace di fare la mediazione che gli è necessaria. Ma
ne sarà capace la donna (o l’uomo) che si è messa arbitrariamente al posto di madre? […] L’essere
figlia di una madre che era anche lei una donna, figlia di una madre che era anche lei… fino alle
origini, questo sentimento o pensiero aiuta a non identificarsi totalmente con la funzione materna,
aiuta cioè la libertà femminile e il valore simbolico della maternità. In altre parole, aiuta la donna ad
assumere l’autorità personale che ci vuole per assumere il suo compito” (p. 74). Conclusivamente,
Muraro propone una sintesi lapidaria dell’insulto della maternità surrogata a questi beni
fondamentali di umanità dell’umanità: “La madre è sostituibile ma non lo è la relazione materna,
questa è dunque la mia tesi” (p. 75).
Anche se solo accennata, è molto interessante e promette sviluppi fecondi la prospettiva
aperta nel penultimo capitolo, ove l’autrice suggerisce – come applicazione pratica della sua idea di
“pensare col corpo”, e non solo con la mente – di meditare sull’endogeno, su tutto quel che ha un
inizio naturale ma poi per crescere e progredire richiede la collaborazione, implicita ed esplicita,
degli esseri viventi. “L’idea di endogeno dà sull’umano una veduta che attraversa i confini posti
artificialmente dalle scienze e, ancor prima, dalla filosofia, tra naturale e culturale” (p. 79).
Misteriosamente, a queste dinamiche non pienamente controllabili, a quest’universo del non
fabbrile e dell’atecnico o del non compiutamente tecnico ed artificiale, si collegano le risorse più
profonde della nostra individuale e collettiva umanità. Né la maternità surrogata, dunque, né alcun
altro strumento di mercantilizzazione o tecnicizzazione dell’umano radicale, possono avere diritto
di cittadinanza nei costumi e negli ordinamenti giuridici, se ci sta a cuore ciò che siamo. “È
indisponibile quello che va tenuto a disposizione del di più che è la gioia del vivente. Fa parte di
una nuova coscienza evolutiva imparare a rinnovare le barriere simboliche che proteggono l’essere
umano in quanto destinato alla felicità” (p. 86).