[Spunti di riflessione sulla transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile tra programmi politici e vincoli giuridici]
[Maurizia Pierri]
1.Premessa. La crisi dell’Antropocene nell’agenda politica internazionale: gli obiettivi di sviluppo sostenibile
Il 25 settembre 2015, i 193 Paesi membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite hanno adottato all’unanimità la risoluzione 70/1, “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”,[1] che è entrata in vigore il 1°gennaio 2016, ed ha sostituito i precedenti Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals – MDGs, che avevano orientato l’azione internazionale di supporto allo sviluppo nel periodo 2000-2015), con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs). L’Agenda globale comprende infatti 17 obiettivi interconnessi e indivisibili e 169 traguardi, che estendono l’azione internazionale, limitata dalla precedente Agenda al pilastro della inclusione sociale, anche alle dimensioni economica (crescita) ed ambientale dello sviluppo. Gli SGDs sono coerentemente imperniati su “cinque P”, lettera iniziale del termine “persone” (connesso all’obiettivo di eliminare fame e povertà in tutte le forme e garantire dignità e uguaglianza a tutti), prosperità (che esprime la finalità di garantire vite prospere e piene in armonia con la natura), pace (in quanto la promozione di società pacifiche e giuste è la premessa per una reale inclusione sociale), partnership (poiché soltanto una rete di relazioni pubbliche e private, nazionali ed internazionali solide può consentire l’ implementazione degli obiettivi dell’Agenda) ed infine pianeta (perché la protezione delle risorse naturali e la salvaguardia del clima è un dovere che incombe sulla comunità internazionale a garanzia delle attuale e delle future generazioni).
Non v’è dubbio che l’adozione degli SDGs sia l’esito di una serie di iniziative che risentono della forte preoccupazione emersa nel dibattito scientifico, e di riflesso in quello pubblico,[2] sull’aggravarsi della crisi socio-ecologica che caratterizza il nostro tempo, ormai quasi unanimemente definito Antropocene.[3] E’ una crisi che per essere risolta in tempi compatibili con la sopravvivenza del pianeta, richiede al tempo stesso l’impegno di tutti gli ordinamenti statali,
l’intervento concorrente degli ordinamenti sovranazionali (regionali) ed infine il contributo dell’ordinamento internazionale, quanto meno con funzioni di coordinamento,[4] o di meta-governance, come suggerito in alcuni studi internazionali.[5] Proprio questa necessaria interconnessione tra livelli politici e/o normativi fa risaltare i limiti dei singoli stati nell’affrontare un’emergenza che è di portata globale, e le carenze delle istituzioni normative chiamante ad intervenire. Nei successivi paragrafi si illustreranno brevemente gli aspetti innovativi della Agenda 2030 con riferimento agli obiettivi di sviluppo sostenibile, per poi sottolinearne i limiti, con particolare riguardo alla loro “normatività” e al modo in cui essa si trasfonde negli interventi di livello regionale e statale.
- Le novità
Come alcuni studi correttamente sottolineano,[6] gli SDGs introducono una importante novità dal punto di vista “soggettivo”: pur conservando la prioritaria finalità dell’eliminazione della povertà (già prevista tra gli MDGs), sono indirizzati a tutti i Paesi della comunità internazionale, senza distinzione tra Paesi più o meno sviluppati.
Dal punto di vista oggettivo, la dottrina ha invece ipotizzato l’istituzione di un macro-obiettivo “immanente”, ossia quello dello sviluppo sostenibile [7]: il riferimento alla “sostenibilità” è infatti ridondante e spesso esplicito della descrizione dei 17 obiettivi. Si spazia dalla finalità di sconfiggere la fame attraverso la promozione di un’agricoltura sostenibile, a quella di garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico sanitarie, di assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni, di incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, di promuovere l’innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile, di rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili, di garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo, di conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile, di proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre, nonché di gestire sostenibilmente le foreste.
Il supposto macro obiettivo dello sviluppo sostenibile deve essere letto in stretta connessione con la prospettiva di una transizione ecologica, che ne rappresenta un pilastro, pur non essendo esplicitamente richiamata nell’Agenda 2030. Una correlazione esiste sin da quando l’espressione “transizione ecologica” è apparsa, cioè nel 1972, nel “rapporto Meadows” (dal libro The Limits to Growth[8], commissionato al MIT dal Club di Roma) che ha insistito sulla necessità di una transizione da un modello di crescita a uno di equilibrio globale, sottolineando i rischi ecologici indotti dalla crescita economica e demografica non controllata. Successivamente il concetto è stato ripreso nel 1987, nel rapporto Brundtland, elaborato dalla World Commission on Environment and Development, istituita nel 1983, che ha presentato il rapporto «Our common future», dove è raccomandata una transizione verso un modello di sviluppo sostenibile e definito “sviluppo sostenibile” quello che “consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”[9].
- Il problema della “normatività”
L’adozione degli SDGs può certamente rappresentare l’occasione per rimodulare nella prospettiva dello sviluppo sostenibile (nelle sue tre dimensioni, economica, sociale ed ambientale) le politiche, le normative ed i modelli di governance adottati sia a livello internazionale, che a livello nazionale nei singoli Paesi[10]. Questo effetto virtuoso non si può tuttavia realizzare se gli obiettivi dell’Agenda non sono intrinsecamente dotati della forza necessaria per indirizzare o addirittura obbligare i singoli ordinamenti ad adeguarvisi. La questione da risolvere preliminarmente ruota conseguentemente intorno al valore giuridico da attribuire agli SDGs, se si tratti di norme di soft-law con una qualche rilevanza giuridica (da determinare nella sua precisione) oppure mere enunciazioni di valore politico[11]. La letteratura sul punto è alquanto articolata e non univoca.
Le diverse opinioni che la dottrina, soprattutto internazionalista ha espresso, possono essere semplificate collocandole su tre direttrici di pensiero. Nella prima si inseriscono coloro che negano drasticamente che gli SDGs abbiano valore normativo e ne affermano invece la natura prettamente politica. Non si tratterebbe neppure di strumenti di soft law nel contesto del diritto internazionale, per due ordini di ragioni: il primo sarebbe la carenza di legalità formale (formal legality), il secondo la carenza di legalità sostanziale, non intendendo neppure regolare l’azione degli Stati in assenza di
norme di diritto internazionale vincolanti (di hard law). Secondo questo orientamento dottrinale, se si riflette in termini legali sugli Obiettivi Globali, si giunge ad escludere che essi rappresentino una espressione del diritto internazionale “consuetudinario” a causa delle debolezze nella State practice e nell’opinio juris, e che sia possibile classificarli come soft law, poiché il loro scopo sarebbe “aspirazionale”, e non normativo[12]. Milita in favore di questa teoria, che nega valore normativo, sia pure di soft law, agli SDGs, la circostanza che un ruolo centrale nel controllo sull’adozione dell’Agenda 2030 e sui risultati delle politiche poste in essere a tale scopo, di cui i Governi sono responsabili, è assegnato all’High-level Political Forum on Sustainable Development-HLPF, organismo di cui fanno parte tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, che però esprime le sue valutazioni con modalità e la tempistica, (follow-up and review) specificate nella risoluzione dell’Assemblea Generale 70/299 del 29 luglio 2016, nei confronti dei Paesi che, su base volontaria, sottopongano al suo giudizio i progressi, i risultati e le sfide nell’attuazione dell’Agenda[13]. Inoltre, mentre è statutariamente prevista l’obbligatorietà delle risoluzioni [14]del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (come da art. 25 della Carta delle Nazioni Unite adottata il 26 giugno 1975[15]), non è chiara la natura normativa delle risoluzioni assunte dall’Assemblea generale, che ordinariamente rappresentano delle raccomandazioni rivolte agli Stati (artt. 10 e 14 della Carta Onu).
Secondo altra direttrice di pensiero, al cui interno si distinguono diverse sfumature, non si può invece escludere un certo grado di normatività, sia pure leggera, anzi potremmo dire ultraleggera [16] ma sufficiente a collocare gli SDGs nell’alveo delle disposizioni di soft law, pur non contenendo obiettivi vincolanti e prevedendo target vaghi e di natura semplicemente “aspirazionale”, piuttosto che specifici risultati da raggiungere. Secondo i sostenitori di questa tesi possibilista, il grado di “legalizzazione”[17] quale definito dal livello di obbligo, precisione e attribuzione di delega, degli SDGs sarebbe basso perché non sono previsti degli obblighi da osservare per raggiungere gli SDGs, nel senso di regole e impegni vincolanti secondo il diritto internazionale o nazionale. Inoltre, la precisione dei 17 obiettivi e di molti dei 169 target sarebbe scarsa, in quanto essi non definiscono in modo univoco una certa condotta, ma piuttosto specificano obiettivi di risultato vaghi e “aspirazionali” (ad esempio, “entro il 2030, raggiungere la gestione
sostenibile e l’uso efficiente delle risorse naturali”)[18]Sempre all’interno di questa direttrice si collocano gli autori che, pur affermando la natura sostanzialmente politica degli SDGs, riconoscono ad alcuni di essi le caratteristiche delle norme di soft law in ragione delle modalità di adozione (una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) e della loro capacità di riflettere obblighi riconducibili al diritto internazionale consuetudinario o pattizio, dei quali rappresenterebbero una sorta di sottoinsieme, utile a creare un sistema di coordinamento [19]tra gli obblighi vincolanti preesistenti degli Stati. L’adozione a livello di Assemblea generale delle Nazioni Unite e l’interrelazione con le norme vincolanti del diritto internazionale, giustifica in diversi autori l’attribuzione agli SDGS della qualifica di soft law, in grado di fondare una legittima aspettativa della realizzazione dei principi dello sviluppo sostenibile nei rapporti internazionali tra Stati [20]e di contribuire all’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente, svolgendo un ruolo di chiarimento e specificazione delle disposizioni vincolanti contenute in strumenti giuridici di natura pattizia preesistenti[21]. La capacità degli SDGs di influenzare l’interpretazione delle norme internazionali vincolanti è stata infatti riconosciuta da alcuni autori con riguardo a determina settori e quindi a specifici obiettivi e target[22]
Per completezza si riporta anche la suggestiva teoria [23](suggestiva per il riferimento ad una noma superiore che inevitabilmente richiama la Grundnorm kelseniana) che riconosce alla promozione dello sviluppo sostenibile, quale principio performante l’insieme degli SDGs, il valore di “supernorma”. Quest’ultima dovrebbe essere intesa come un insieme di norme collegate tra di loro e raggruppate all’interno di una quadro di riferimento unificante e coerente[24]e si configurerebbe come sovraordinata rispetto agli obiettivi ed ai target specifici di soft law contenuti nel corpo degli MDGs (e degli SDGs).
Alla luce di tutte queste opinioni, sembra di poter concludere che si possa attribuire agli SDGs, in particolare con riferimento a quelli che hanno un riscontro nel diritto internazionale “duro”, la capacità di indirizzare l’interpretazione delle norme pattizie, orientandole verso il macro obiettivo (o supernorma) del diritto sostenibile. Molto più problematico sembra il riconoscimento di un qualche valore giuridico agli obiettivi formulati in modo generico e non corrispondenti a norme di diritto internazionale. In questo ambito, la volontarietà statutaria cui è vincolato il controllo sull’adeguamento agli obiettivi da parte delle istituzioni internazionali preposte, sembra vanificare gran parte della portata innovativa degli obiettivi.
- Sulle ricadute “normativi” degli obiettivi politici globali
Ben altro ruolo potrebbe assumere, qualora ne fosse portato a termine l’iter di approvazione, il Global Pact for Environment (Patto Globale per l’Ambiente) [25]presentato alle Nazioni Unite alla fine del 2017 dalla presidenza francese per colmare le lacune del diritto internazionale dell’ambiente attraverso una fonte pattizia vincolante[26], così come natura sicuramente normativa hanno alcuni provvedimenti che sono stati adottati a livello comunitario e sono in itinere a livello nazionale. Si fa riferimento, da un lato agli atti conseguenti la comunicazione sul Green Deal europeo dell’11 dicembre 2019, da parte della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni”: la comunicazione ha natura politica ed impegna la Commissione ad affrontare i problemi legati al clima e all’ambiente con una nuova strategia di crescita mirata a trasformare l’UE, entro il 2050, in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle. In seguito alla pandemia il processo di adattamento regionale alle prospettiva di cambiamento delineate nel Green Deal ha avuto una accelerazione determinata dalla grave crisi economica causata dalle restrizioni imposte alla produzione e al consumo dalla crisi sanitaria. Dopo un lungo negoziato, la Commissione europea ha proposto un complesso e variegato pacchetto di misure di sostegno, denominato Next Generation EU, con una dotazione di 750 miliardi di euro, inserite in un atto normativo vincolante, ossia nel Regolamento del Consiglio n. 2093 del 17 dicembre 2020, che stabilisce il quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027. Nel contesto del pacchetto Next Generation EU, lo strumento più significativo è rappresentato dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery
and resilience facility), comunemente indicato semplicemente come Recovery fund che costituisce il piano di rilancio e di resilienza pensato dall’Unione europea per dare un nuovo impulso all’economia dei paesi membri colpiti dalla crisi e che è vincolato per bel il 37% delle risorse a progetti finalizzati alla transizione ecologica.
A livello nazionale, vi è stato un adeguamento pre-pandemia riscontrabile ad esempio nella “Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile”, in attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, elaborata dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nell’ottobre 2017, adottata dal CIPE il 22 dicembre 2017 ed emanata con Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 16 marzo 2018.
Successivamente, sull’onda delle politiche Green dell’UE e dell’impulso repentino al cambiamento determinato dalla pandemia, è stato istituito Ministero della Transizione Ecologica (MiTE) con il d.L. 1° marzo 2021, n. 22, recante “Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni dei Ministeri”. Il decreto ha modificato, tra l’altro, la stessa denominazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, in “Ministero della transizione ecologica”, e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in “Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili”.Il nuovo Dicastero ha assorbito, oltre a tutte le competenze dell’ex Ministero dell’Ambiente, anche alcune delle competenze chiave nel processo della transizione ecologica, inerenti principalmente al settore dell’energia. Il decreto ha altresì istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Comitato interministeriale per la transizione ecologica (CITE), con il compito di assicurare il coordinamento delle politiche nazionali per la transizione ecologica e la relativa programmazione. Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri, o, in sua vece, dal Ministro della Transizione ecologica, ed è composto dal Ministro per il Sud e la coesione territoriale, dai Ministri della Transizione ecologica, dell’Economia e delle finanze, dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile, della Cultura e delle Politiche agricole, alimentari e forestali.
Ancora più ambizioso dal punto di vista del “peso” normativo e della capacità performativa sulle fonti del diritto derivate è l’atto in via di approvazione in Parlamento, ossia la Proposta di Legge costituzionale n. 3156, recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”, che modifica sensibilmente l’art. 9 della costituzione, aggiungendovi un comma che garantisce tutela all’ambiente, alla biodiversità e agli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni e introduce una riserva di legge statale sui modi e le forme della tutela degli animali. E’ anche prevista la modifica del secondo comma dell’art. 41 cost. con l’inserimento della salute e dell’ambiente come limiti per l’iniziativa economica privata.
La proposta di riforma, sulla quale non ci si sofferma in questa sede, sembra smarcarsi dall’ottica antropocentrica che costituisce, ancora oggi, la base epistemologica sulla quale le istituzioni internazionali hanno modellato il macro-obiettivo dello sviluppo sostenibile[27] e lo strumento della transizione ecologica. In questo senso rappresenterebbe una fuga in avanti rispetto all’impostazione dell’Agenda internazionale e di quella europea, con il vantaggio di avere una visione lungimirante e avanguardistica, ma con il limite di un disallineamento dalla prospettiva multilivello prima ancora culturale che politico/normativo. Piuttosto che intervenire sul testo costituzionale in modo così radicale sarebbe forse opportuno promuovere una reinterpretazione dell’antropocentrismo che caratterizza l’impianto costituzionale e, a cascata, di tutte le fonti derivate, più maturo e consapevole delle relazioni tra uomo e ambiente che si realizzano all’interno degli ecosistemi. In questo senso l’antropocentrismo potrebbe essere inteso “come un paradigma orientato non al potere, ma piuttosto al servizio”[28], il che indurrebbe ad adottare un approccio eco-istico, anziché ego-istico alla realtà, assecondando così le riflessioni di quanti sostengono che tutelare i diritti della Natura [29]renda l’uomo ancora più umano, cioè capace di realizzare la sua vera umanità, riconoscendo in primo luogo la sua appartenenza ad un sistema complesso, del quale costituisce solo un elemento, per quanto privilegiato.
- Risoluzione A/RES/70/1 del 25 settembre 2015, United Nations General Assembly (UNGA), Transforming Our World: the 2030 Agenda for Sustainable Development
- Con un contributo estremamente significativo da parte del peinsieo cattolico: basti qui richiamare l’Enciclica di Papa Francesco Laudato sì, sulla cura della casa comune del 24 maggio 2015, il discorso tenuto dallo stesso Pontefice il 25 settembre 2015 nella sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) in occasione del viaggio apostolico a Cuba e negli Stati Uniti d’America e, più di recente l’Esortazione apostolica Querida Amazonia (febbraio 2020), successiva al Sinodo Speciale per la regione Panamazzonica, convocato nel 2017 e alla assemblea dei Vescovi dell’ottobre 2019.
- Il termine è stato coniato nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, per definire l’attuale stadio della storia evolutiva della terra (a partire dalla “grande accelerazione degli anni ’50), caratterizzato dall’impatto trasformativo delle attività umane sul sistema-pianeta, cfr. P. J. Crutzen, E. F. Stoermer, The ‘Anthropocene.’ IGBP Newsletter 41, 2000 (May),pp. 17–18. Per un approfondimento si v. A.H. Cooper, T.J. Brown, S.J. Price, J.R. Ford, C.N. Waters, Human are the most significant global geomorphological driving force of 21st Century, in The Antropocene Review, 2018, 5 (3), pp. 222-229, il cui studio dimostra come gli effetti delle attività di estrazione e costruzione operate dall’uomo superino di gran lunga quelli dei naturali processi geologici corrosivi nel trasformare la superficie terrestre
- La complessità del mondo globalizzato rende ineludibile la necessità di una azione congiunta a più livelli, come sottolineano da ultimo F. Gemenne, A. Rankovic, Atelier de Cartographie de Science, in Atlante dell’Antropocene, Mimesis/Katastrophé, Milano-Udine, 2021, p. IV, e una ricca letteratura internazionale (si vedano ex multis, D. French, L. J. Kotzé (Eds)., Sustainable Development Goals. Law, Theory and Implementation, Edward Elgar, Cheltenham (UK)- Northampton (USA), 2018, J. Monkelbaan Governance for the Sustainable Development Goals Exploring an Integrative Framework of Theories, Tools, and Competencies, Springer, Singapore, 2019, spec. p. 22 e ss e A.R. Harrington, Global governance and Sustainable Development Goals, in S. Dalby, S. Horton, R. Mahon, D. Thomaz Eds., Achieving the Sustainable Development Goals Global Governance Challenges, Routledge, Oxon- New York, 2019, 240 e ss
- E. Sørensen, Metagovernance: the changing role of politicians in processes of democratic governance., in The American Review of Public Administration, 2006, 36, pp. 98–114
- French – L. J. Kotzé Eds., Introduction, in Sustainable Development Goals. Law, Theory and Implementation, Edward Elgar, Cheltenham (UK)- Northampton (USA), 2018, p.2 e, nella letteratura italiana, M. Montini, L’interazione tra gli SDGs ed il principio dello sviluppo sostenibile per l’attuazione del diritto internazionale dell’ambiente , Federalismi.it, 9/2019, p. 3.
- Montini, cit. p. 2. Per una analisi di carattere generale ed introduttivo sugli SDGs si v., dello stesso M. Montini e F. Volpe, Sustainable Development Goals: “molto rumore per nulla?”, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, vol. XXX:3, 2015, p. 489-496.
- H. Meadows, J. Randers, De. L. Meadows, The limits to growth: A report for the Club of Rome’s project on the predicament of mankind, New York, Universe Books, 1972. Il Club di Roma si costituì nel 1968 per volere del dottor Aurelio Peccei. Il suo compito era quello di sviluppare un’analisi approfondita della “situazione presente e futura dell’uomo”. Non si trattava di un’organizzazione formale, ma piuttosto di un organismo indipendente, informale e internazionale che comprendeva un “collegio invisibile” di esperti in politica, economia e scienze naturali e sociali. A partire dal 1970, contava settantacinque membri da venticinque paesi e aveva identificato sessantasei “Problemi Critici Continui” che insieme costituivano un focus sulle situazioni che si cercava di risolvere.
- “Sustainable development is development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs.”, UN, Report of the World Commission on Environment and Development Our Common Future, 1987, p. 37
- Cfr. N. Kanie , F. Biermann, Governing through Goals: Sustainable Development Goals as Governance Innovation, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2017. Sulla grande opportunità rappresentata dai SDGs per l’implementazione dei diritti umani, si è sviluppato è un approfondito dibattito scientifico. Ci si limita qui a citare il volume curato da M. Kaltenborn, M. Krajewski, H. Kuhn, Sustainable Development Goals and Human Rights, Springer Open, Cham, 2020, per la ricchezza della trattazione, che affronta analiticamente gli effetti di ogni obiettivo sui diritti fondamentali, dalla riduzione della povertà alla gender equality.
- Montini, cit. p. 4
- French, The Global Goals: Formalism Foregone, Contested Legality and “Re-Imaginings of International Law, in Ethiopian Yearbook of International Law, 2017, p. 164-165.
- La volontarietà del meccanismo di monitoraggio è chiaramente indicata nella risoluzione N.U., A/RES/70/1, già richiamata, che ha adottato l’Agenda 2030 (par. 72: “Ci assumiamo l’impegno di un monitoraggio e una verifica sistematici per la riuscita di questa agenda nei prossimi 15 anni. Un meccanismo di monitoraggio e verifica ben definito, volontario, efficace, partecipativo, trasparente e completo sarà un contributo fondamentale per la riuscita e aiuterà i paesi a massimizzare e tener traccia dei progressi nell’attuazione di quest’agenda, affinché si abbia la certezza che nessuno rimanga indietro”), e riaffermato nella risoluzione N.U, A/RES/70/299 del 29 luglio 2016, Follow-up and review of the 2030 Agenda for Sustainable Development at the global level (incipit par.7: “Takes note with appreciation of the preparations for the voluntary national reviews for the high-level political forum”) .
- Il termine risoluzione è generico e si riferisce ad una vasta tipologia di atti, cfr. C. Zanghì, Diritto delle organizzazioni internazionali, Giappichelli, Torino, 2013, p. 263 ss.
- Articolo 25: I Membri delle Nazioni Unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza in conformità alle disposizioni del presente Statuto.
- S.I. Karlsson-Vinkhuyzen ,A. Vihma, Comparing the Legitimacy and Effectiveness of Global Hard and Soft Law: An Analytical Framework, in Regulation and Governance, 3:4, 2009, pp. 400-420.
- K.W. Abbott et al., The Concept of Legalization, in International Organization, 54:3, 2000,p. 401.
- “The degree of legalization – as defined by the level of obligation, precision and delegation, respectively7 – is low. First, there are no hard obligations to achieve the SDGs, in the sense of rules and commitments binding under international or domestic law. Further, the precision of the 17 goals and many of the 169 targets is low, in that they do not unambiguously define a certain conduct, but rather specify vague and aspirational outcome targets”, cfr. A. Persson, N. Weitz e M. Nilsson, Follow-up and review of the Sustainable Development Goals: alignment vs. internalization, in Review of European, Comparative & International Environmental Law (RECIEL), 25(1), 2016, pp. 59-60.
- R.E. Kim, The Nexus between International Law and the Sustainable Development Goals, in in Review of European, Comparative & International Environmental Law (RECIEL), 25(1), 2016, p. 16.
- Cfr. W. Scholtz, M. Barnard, The Environment and the Sustainable Development Goals: ‘We are on a Road to Nowhere’, in D. French, L. J. Kotzé Eds., Sustainable Development Goals. Law, Theory and Implementation, Edward Elgar, Cheltenham (UK)- Northampton (USA), 2018, pp. 227-230.
- Scholtz , M. Barnard, The Environment and the Sustainable Development Goals, op.ult.cit., p. 228
- Ad esempio, nel settore del diritto internazionale che regola la protezione delle acque, con specifico riferimento al SDG 6 (cfr. O. Spijkers, The Cross-fertilization between the Sustainable Development Goals and International Water Law, in Review of European, Comparative & International Environmental Law (RECIEL), 25(1), 2016, p. 39.) oppure di qualità dell’aria (cfr. P. Lode, P. Schonberger, P. Toussant, Clean Air for All by 2030? Air Quality in the 2030 Agenda and in International Law, in Review of European, Comparative & International Environmental Law (RECIEL), 25(1), 2016, p. 27.)
- In realtà chi ha avanzato questa ipotesi (S. Fukuda-Parr – D. Hulme, International Norm Dynamics and the ‘End of Poverty’: Understanding the Millennium Development Goals, in Global Governance, 17(1), 2011, p. 17-36) l’ha fatto in riferimento agli obiettivi del millennio, individuando in essi la supernorma della lotta globale alla povertà ma la medesima prospettiva può essere applicata anche agli obiettivi dello sviluppo sostenibile.
- “A cluster of interrelated norms grouped into a unified and coherent framework”, cfr. S. Fukuda-Parr, D. Hulme, International Norm Dynamics and the ‘End of Poverty’: Understanding the Millennium Development Goals, op.ult.cit., p. 18. Il modello normative è quello proposto da M. Finnemore ,K. Sikkink, International Norm Dynamics and Political Change, in International Organization, 52(4), 1998, p. 887-917
- Il testo, in lingua inglese, è consultabile al link https://perma.cc/L4PM-PTV2, ed è altresì consultabile ai link http://www.leclubdesjuristes.com/wp-content/uploads/2017/05/Project-Global-Pact-for-theEnvironment.pdf e https://globalpactenvironment.org/uploads/EN.pdf. Il Progetto di un Global Pact for the Environment nasce da una iniziativa dottrinale e della società civile, promossa in Francia dal Club des Juristes. Il testo del patto è stato presentato il 24 giugno 2017 a Parigi nell’ambito di un evento internazionale organizzato all’Università della Sorbona, infine proposta il 19 settembre 2017, il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron nella 72a sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
- Il 10 maggio 2018 è stata adottata la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni UN intitolata “Towards a Global Pact for the Environment” (Resolution A/RES/72/277, che ha aperto le negoziazioni in vista della possibilità di elaborare e adottare un Patto con scopi simili a quelli perseguiti dal Progetto di Global Pact for the Environment del Club des Juristes, prevedendo la redazione Report utile a identificare e valutare possibili lacune nel diritto internazionale dell’ambiente al fine di rafforzarne l’attuazione e la creazione di un gruppo di lavoro incaricato di esaminare il risultato del Report e di discutere la necessità di dare al Progetto la forma del trattato internazionale. L’Unione europea, a sua volta, ha promosso l’avanzamento dell’iniziativa con una «Raccomandazione di Decisione del Consiglio che autorizza l’avvio di negoziati su un Patto globale per l’ambiente» del 19 marzo 2018 (COM(2018) 138). Per una analisi approfondita del testo e del contesto del Patto, si v. M. Monteduro, S. Candela, A. De Nuccio, E. Gatto, A. Micello, R. Scorza, Testo e contesto del progetto di «Global Pact for the Environment» proposto dal Club des Juristes, in Rivista quadrimestrale di diritto dell’ambiente, NUMERO 1 – 2018, pp. 62-113.
- La dottrina internazionale si è soffermata in modo critico sulla attuale indeterminatezza del concetto di sviluppo sostenibile, che non trova una definizione compiuta nell’Agenda 2030 ma è ferma alle citate conclusioni della Commissione Brundtland, (cfr. M. Montini, F. Volpe, Sustainable, cit. p. 489 ma anche sul suo intrinseco antropocentrismo, peraltro perfettamente coerente con l’intero sistema del diritto internazionale dell’ambiente, cfr. in proposito L. J. Kotzé, D. French, The Anthropocentric Ontology of International Environmental Law and the Sustainable Development Goals: Towards an Ecocentric Rule of Law in the Anthropocene, in Global journal of comparative law, 7, 2018, p. 7, i quali fanno osservare come la definizione ormai sedimentata di sviluppo sostenibile sia profondamente