Salute umana, consenso e tutela della dignità: riflessioni sul fine vita fra diritto e religione
Mauro Fortunato Magnelli
1. Complessità del tema d’indagine: formazione e sensibilità dell’interprete. Potenziamento degli strumenti di cura e prolungamento della vita. Progresso tecnologico ed esposizione al rischio: la scienza medica fra potenza strumentale e limiti. Varietà degli approcci culturali alle questioni della vita e della morte. L’esperienza del “lento morire” fra princípi generali e concreti bisogni del malato. – 2. Il contenuto della legge 219/2017 tra valori costituzionali e princípi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Diritto alla vita e problemi interpretativi: la vita umana fra diritto di libertà e dovere di tutelare l’integrità; il diritto alla vita come aspirazione ad un’esistenza dignitosa e il problema del se venga in essere una situazione soggettiva non limitabile oppure limitabile a certe condizioni. L’intangibilità del bene vita: la volontà del paziente fra cessazione della nutrizione e dell’idratazione artificiale e possibilità di ottenere sostegno al proposito suicidario. Eterogeneità dei contesti di malattia. Le posizioni della Corte costituzionale: la pronuncia del settembre 2019 e la dignità del morire. – 3. Il comma 1 dell’art. 1 della l. 219/2017 e la priorità del diritto alla salute. La salute quale equilibrio psico-fisico dell’uomo. Liceità e meritevolezza dei trattamenti sanitari fra personalismo e solidarismo. Impossibilità di scelte libertarie e limiti al dovere di provvedere alla conservazione dell’integrità. – 4. Gli atti di disposizione del corpo e i parametri del giudizio di ammissibilità. – 5. Promozione e valorizzazione della relazione di cura fra paziente e medico. Il rapporto fra «competenza, autonomia professionale e responsabilità del medico» e scelte terapeutiche del paziente: centralità della “fiducia”. Formazione, comunicazione ed informazione: tutela effettiva del paziente e ridefinizione del ruolo del medico. – 6. Fondamento e contenuto degli obblighi del medico: il rapporto tra il comma 6 dell’art. 1 l. 219/2017 e il comma 3 dell’art. 7 l. 8 marzo 2017, n. 24. – 7. Il consenso libero, reale, personale e consapevole del paziente. Jus poenitendi e revocabilità senza limiti. – 8. Consenso informato e pianificazione delle cure. – 9. Dalla consensualità nella relazione di cura alla centralità del consenso nella predeterminazione dei trattamenti in previsione di futura incapacità di autodeterminarsi. Le disposizioni anticipate di trattamento: natura, contenuto e forma. – 10. I trattamenti sanitari fra proporzionalità e ragionevolezza. Il divieto di ostinazione nelle cure. Necessità di evitare terapie “inutili” e rispetto della dignità del malato. – 11. Le questioni del fine vita nel dialogo tra ordinamento giuridico e magistero ecclesiastico. Diversità di vedute e punti di convergenza. Riflessioni conclusive.
1. Il tema oggetto del presente studio è complesso, sia per le dense implicazioni giuridiche, sia per l’obbligo che esso impone di coniugare formazione e sensibilità rispetto a questioni che investono la dimensione piú profonda della persona, in bilico fra volontà di preservare il valore vita ed esigenza di porre fine all’esperienza umana nei casi di prolungata ed insostenibile sofferenza.
L’inviolabilità del diritto alla salute e la rilevanza dell’autodeterminazione del paziente costituiscono profili essenziali, dai quali serve prendere le mosse per sviluppare un’indagine destinata a lasciare emergere l’inevitabile intreccio di aspetti etici, giuridici, filosofici, politici.
L’evoluzione delle conoscenze e degli strumenti resi disponibili dall’ingegno umano ha reso possibile una sempre maggiore capacità curativa, finalizzata a contenere patologie di varia natura, a migliorare la salute psico-fisica dell’individuo, a prolungare la vita umana. Il potenziamento delle capacità terapeutiche si scontra, però, con l’inidoneità dei moderni strumenti posti nella disponibilità dell’uomo a preservare i suoi valori essenziali. Il progresso tecnologico, cioè, ha messo in moto meccanismi spesso perversi, per la circolarità di effetti che si rincorrono in uno strano gioco di vittorie e sconfitte, di opportunità e perdite. È impossibile slegare le questioni della vita dalle dinamiche dello sviluppo economico e sociale. Sembra, a volte, stridere il ricorrente interesse del legislatore verso i problemi della malattia e delle cure volte a contenerla rispetto all’incapacità di dettare regole idonee a disciplinare compiutamente il mercato della produzione e degli scambi. Oggi, i rischi ai quali l’uomo è esposto sono numerosissimi e la fragilità del suo essere è testimoniata dall’incremento delle patologie gravi ed invalidanti, rispetto alle quali mostra, sovente, estrema debolezza la scienza medica moderna, pur nell’impegno che essa profonde in prevenzione, ricerca scientifica, sperimentazione di nuovi farmaci e terapie alternative.
Il binomio vita-morte si presenta ineludibilmente all’attenzione di tutti, anche dello studioso chiamato a valutare i rapporti tra norme e fatti concreti.
Risulta, in questo campo piú che in altri, difficile individuare problemi e dare spiegazioni di là dal richiamo alla propria concezione del vivere e del morire. L’impostazione ideologica di chi si approccia ai temi sensibili dell’esistenza finisce, cioè, col dirigere e suggerire proposte e soluzioni.
Inevitabile è il condizionamento dei princípi, specie se si coglie il nesso indissolubile tra disciplina del fine vita e complessità del sistema delle fonti. È evidente che nessuno sforzo interpretativo, però, può prescindere dalla valutazione delle contingenze della persona e del contesto affettivo e familiare nel quale essa si inserisce.
La forza dei valori, sovente, sembra indebolirsi a fronte della crudezza del reale, nella sua dimensione di sacrificio e dolore. Del resto, ciò di cui si discute è la malattia scientificamente senza recupero, il dolore con tutto ciò che può implicare sul piano personale e sociale. Tutela della salute, considerazione dell’uomo nella sua integrità psico-fisica, rilevanza delle relazioni affettive, autodeterminazione del singolo e consenso libero, responsabilità dei professionisti e dimensione etica della scienza medica costituiscono i punti cruciali della riflessione.
Si tratta di questioni che, in varie prospettive, attraversano la drammatica esperienza del lento morire. Quest’ultimo fatto, come la dottrina rileva, ha assunto oggi una propria particolarità e specificità rispetto alla morte. Piú che un avvicinamento alla fine, viene in essere un mondo a sé, con i suoi “tempi”, i suoi “templi” ed i suoi “riti”.
Di tutto ciò legislatore e giudice sono chiamati a tener conto, ponendo al centro delle scelte il variegato universo esistenziale del soggetto, il quale, nella sua dimensione di singolo e di membro di una comunità, costituisce punto fermo di tutela piena ed effettiva.
2. Come è ormai diffusamente noto, la legge n. 219 del 22 dicembre 2017 segna una tappa significativa nel tormentato percorso di valorizzazione ed attuazione della libertà di autodeterminazione delle scelte terapeutiche. La novella, cioè, si propone di colmare il vuoto legislativo in ordine alle modalità di manifestazione delle volontà in tema di salute, cioè in riferimento ai criteri di esercizio del diritto alla scelta medico-terapeutica della persona, per quanto attiene ad interventi di natura sanitaria che dovessero prospettarsi opportuni o necessari rispetto a future condizioni cliniche, ogniqualvolta la persona stessa non risulti in grado di esprimere consapevolmente ed in forma attuale il proprio volere.
Le precisazioni preliminari del legislatore del 2017 dimostrano la volontà di rendere l’intervento normativo coerente con l’impianto dei princípi riferibili alla Costituzione, alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alle Convenzioni internazionali, nonché alla legge di ristrutturazione del sistema sanitario, risalente all’ormai lontano 1978.
Il riferimento d’apertura al testo costituzionale e ai princípi posti a livello sovranazionale attesta l’intento di porre quale nucleo essenziale della nuova disciplina la persona umana nella sua dimensione di esistenza, necessità di cura e dignità. L’art. 1 della legge, infatti, precisa che scopo primario è quello di assicurare la tutela del diritto «alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona».
Il richiamo al bene vita dà luogo ai maggiori problemi interpretativi. Di là dall’inquadramento sistematico del diritto alla vita e dall’individuazione della base normativa dello stesso, posta la considerazione della centralità del valore che ispira l’intero sistema dei princípi, questione di fondo è comprendere se le libere scelte della persona possano spingersi fino alla limitazione di un bene che è primario, assoluto ed intangibile.
In effetti, fissare il rilievo costituzionale o sovranazionale del diritto alla vita non attenua i dubbi che inevitabilmente si affacciano. Restano vaghi i seguenti profili: la natura, l’àmbito materiale di esercizio, il contenuto, i limiti. Si tratta, in sostanza, di chiarire problemi cruciali: quello del se la vita sia un diritto di libertà oppure un interesse che trova la sua giustificazione nella correlativa esistenza del dovere di tutelare la propria integrità; del se la vita vada intesa in senso puramente biologico o in termini di esistenza dignitosa; del se si possa discutere di una facoltà di privarsi della vita; del se venga in considerazione una situazione soggettiva non limitabile oppure limitabile a certe condizioni.
L’emersione di tali interrogativi testimonia, allora, che la stretta appartenenza del diritto al sistema e la considerazione della sua alta valenza sono inidonee ad assicurare al titolare una posizione sostanziale dai contorni chiari. Le ipotesi possibili sono molteplici e rispetto a queste sembra, anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale, modularsi l’approccio interpretativo al tema dell’assoluto rilievo gerarchico della vita umana.
La rilevanza valoriale del bene vita è realtà dalla quale muove il legislatore del 2017, il quale, però, focalizzando l’attenzione sulla tutela della libertà del soggetto capace di disporre di sé, prevede che si possa chiedere la cessazione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, allorquando tali trattamenti risultino essere soltanto un prolungamento dello stato di totale inabilità del malato.
Si pensi, altresí, al caso preso in considerazione, di recente, dalla Consulta, la quale ha avuto modo di esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’Assise di Milano sull’art. 580 c.p. e relative alla punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita. La Corte, con l’ordinanza del 25 settembre 2019, ha dichiarato non punibile l’aiuto al suicidio in favore di «persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli». La Corte precisa che la non punibilità dell’aiuto al suicidio non è incondizionata, ma subordinata al rispetto di una serie di requisiti e cautele necessarie ad evitare rischi di abuso nei confronti di persone particolarmente vulnerabili. Le condizioni dettate dalla Consulta riguardano il rispetto della normativa vigente in tema di: consenso informato (art. 1 l. 219/2017); cure palliative e sedazione profonda continua (art. 2 l. 219/2017); verifica delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.
Orbene, per i giudici costituzionali pare non esservi ragione per la quale il valore assoluto della vita debba tradursi in un ostacolo insormontabile, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso piú lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’interruzione dei presidi di sostegno vitale. In sostanza, vi sono delle situazioni di malattia in cui non si dipende da alcun trattamento o nelle quali l’interruzione della terapia, con conseguente somministrazione della sedazione palliativa, non determina la fine a breve termine della vita del paziente. In tali casi, non ancóra contemplati dal legislatore, il divieto per il medico di porre in essere trattamenti diretti a determinare la morte del paziente costringerebbe quest’ultimo a subire un processo piú estenuante, meno corrispondente alla propria visione della «dignità nel morire».
Quanto appena detto dimostra come siano differenti, anche sul piano della risposta che l’ordinamento può fornire, le situazioni umane di sofferenza fisica e psichica.
Il diritto alla vita va posto in termini di stretta relazione con la dignità dell’uomo, avente rilievo sia dal punto di vista individuale sia da quello sociale. La dignità non è simbolo di valore, ma nucleo identificativo della persona. Dalla Costituzione in poi e dalle Carte internazionali in avanti, si afferma l’identificazione dell’uomo nella dignità, che vuol dire rispetto delle peculiarità di ciascuno, dei bisogni piú profondi dell’essere, di là da qualsiasi impedimento oggettivo. Dignità e persona combaciano nell’ottica di valorizzazione della personalità umana, che è valore unitario, meritevole di essere attuato in qualsiasi contesto, privato e pubblico, ed in qualsiasi situazione, piú o meno complessa. La suddetta coincidenza permette di cogliere il senso autentico delle scelte di fondo del sistema, per il quale se la dignità è lesa, cessa ogni possibilità dell’uomo di realizzarsi in maniera piena e armoniosa.
La dignità del morire ha il suo fondamento nella dignità dell’esistere. L’individuo riceve adeguata tutela ogniqualvolta gli venga assicurata la possibilità di esprimere i propri bisogni, senza costrizioni e senza limiti contrari alla sua libertà; dall’altro lato, è garantita la dignità del morire ogniqualvolta si faccia in modo che la sofferenza fisicamente e psicologicamente insostenibile non si protragga fino al punto di negare l’essenza stessa del valore umano. La pregnanza del significato della dignità, dunque, si palesa nel dialettico rapporto tra vita e morte, quali esperienze della persona globalmente ed unitariamente considerata.
3. Priorità del valore persona e rispetto della dignità umana costituiscono, dunque, le basi di ogni elaborazione in tema di trattamento sanitario e di consenso libero e responsabile all’espletamento di pratiche mediche.
Fatto imprescindibile, in tale contesto, è l’individuazione del fondamento e del contenuto del diritto alla salute.
La legge n. 219, all’art. 1, precisa che l’intera disciplina è ispirata ai princípi di cui agli artt. 2, 13 e 32 cost. e agli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. È proprio l’insieme dei princípi richiamati dal legislatore del 2017 a consentire di anticipare qualche riflessione in ordine al rapporto tra consenso al trattamento e tutela della salute.
Innanzitutto, la salute concerne non soltanto l’integrità del corpo, ma anche quella della mente, poiché l’uomo è complessità di interessi molteplici; in secondo luogo, la salute non è profilo statico e individuale, ma è aspetto strettamente connesso al libero e pieno sviluppo della persona, costituendo «un tutt’uno con quest’ultima». A tal proposito, autorevole dottrina ribadisce che «la persona umana si prospetta nella sua unitarietà psico-fisica come un mondo soggettivo condizionato dalle circostanze ambientali, sociali, economiche, sì che diventa impossibile separare il bene salute dal valore complessivo della persona; questa assume una concreta realizzazione nel rispetto della storicità del momento. La libertà e i suoi effettivi contenuti, il particolare atteggiarsi del rapporto della persona con l’autorità dell’apparato della comunità in cui vive, il grado di socialità ed eticità dell’ambiente sono elementi che incidono sulla qualità dello sviluppo della persona e pertanto sulla sua salute».
Se così è, come sembra ricordare la prima parte della legge in esame, la norma costituzionale che afferma l’inviolabilità della salute umana va letta in collegamento alla clausola generale di tutela della persona, norma sovraordinata che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia come appartenente alle formazioni sociali nelle quali è chiamato a sviluppare la personalità (art. 2 cost.).
Riguardo a situazioni e fatti concernenti la salute umana, problema fondamentale rimane quello della valutazione della loro liceità e, alla stregua dell’art. 2 cost., della loro meritevolezza di tutela.
Gli angoli prospettici dai quali si può osservare la realtà sono, essenzialmente, due: quello della sopravvalutazione del princípio costituzionale del personalismo, come espressione del volere intangibile della persona, e quello della sottolineatura del solidarismo, quale valorizzazione della dimensione di doverosità del comportamento umano.
Nel porre un marcato accento sul personalismo si giunge ad un’interpretazione della condotta umana in termini di libertaria decisione riguardo alla propria vita e al proprio destino; diversamente, nell’attribuire una forte rilevanza normativa alla solidarietà si finisce col considerare estremamente radicato il dovere inderogabile di provvedere alla propria conservazione.
La sottolineatura del profilo di doverosità implica, come è evidente, l’incondizionata possibilità e la legittimità di ogni intervento coattivo sulla persona. Ciò, però, si pone in contrasto con il principio in base al quale «nessuna prestazione personale può essere imposta se non in base alla legge» (art. 23 cost.) e con la disposizione la quale prevede che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» (comma 2, art. 32 cost.). In via generale, intendere la tutela della salute come rigido adempimento di un obbligo che il singolo ha nei confronti di se stesso e della società contrasta con il princípio di libertà e col valore della dignità dell’uomo, infatti, la norma appena richiamata precisa che non è affatto consentito «violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana»
D’altro canto, va detto che il riconosciuto limite alla presunta doverosità del trattamento non va letto in modo da alterare il contenuto della libertà individuale. Restringere entro certi confini il dovere di assoggettarsi a trattamenti sanitari significa concepire il nucleo del rapporto tra istanze del soggetto e tutela della salute in termini di libertà costituzionalmente rilevante. Una corretta interpretazione del personalismo impone di prendere le distanze da qualunque tentativo di porgere il princípio fondante i rapporti umani come possibilità di comportamenti libertari. Personalismo vuol dire valorizzazione della persona in tutte quelle espressioni che risultino essere attuazione e sviluppo della sua personalità. Non è, pertanto, conforme allo spirito del costituente una visione della libertà come radicamento del dogma della volontà piena ed egoistica del singolo.
L’intero sistema delle relazioni intersoggettive è ispirato all’idea di libertà sopra indicata. Non è condivisibile un’autonomia posta in senso pieno ed assoluto. La proprietà, la regolamentazione privata, le relazioni familiari, le situazioni esistenziali sono ambiti accomunati da un principio di libertà che trova la sua ragion d’essere nella previsione di limiti e correttivi. Condizioni e vincoli non sviliscono la libertà, ma, all’opposto, conformano situazioni giuridiche e fatti, nella prospettiva del perseguimento di obiettivi compatibili con le scelte di fondo del sistema ordinamentale.
Se cosí stanno le cose, l’errore da evitare è quello di separare, come sovente si è fatto proprio in riferimento al tema salute, personalismo e solidarismo. Si tratta di princípi cardine che non operano isolatamente, ma in costante e reciproca integrazione.
Ciò vuol dire che il personalismo «si arricchisce e si integra con il solidarismo». Al centro dell’ordinamento, dunque, si pone la persona non come espressione del volere di realizzarsi senza tener conto dell’altro da sé, ma come valore da preservare ed attuare nel rispetto di sé e dell’altro.
4. Non pare superfluo ricordare che proprio tale modo di vedere le cose ha condizionato l’approccio interpretativo ad una delle norme più problematiche della codificazione civile vigente. L’art. 5 c.c., concernente la disciplina degli atti di disposizione del corpo, si presenta all’attenzione in una rinnovata veste rispetto al passato e consente di sottoporre a verifica parte delle osservazioni sin qui svolte.
La disposizione codicistica contempla, da un lato, il potere dispositivo del corpo da parte dell’interessato; dall’altro, la necessità di tutela dell’integrità. I dubbi ermeneutici sono certamente collegabili alla particolare costruzione letterale del disposto normativo. Non è ancóra agevole, infatti, stabilire cosa significhino esattamente le seguenti espressioni: “atto di disposizione”; “diminuzione permanente” ed “integrità fisica”. Il legislatore affida all’interprete il còmpito di esplicitare la regola e il problema cruciale è stabilire entro quali confini debba essere contenuta l’attività dispositiva.
Come ben si sa, per “disposizione” deve intendersi l’esercizio dinamico delle situazioni soggettive, in particolare ogni attività che comporti la circolazione dell’utilità connessa al bene oggetto di tutti quei poteri che mettono in collegamento il titolare dell’interesse con i terzi originariamente estranei alla situazione. La prima delicata questione riguarda la compatibilità tra il concetto di disposizione e la nozione complessa di corpo umano. Il primo si adatta piú efficacemente alle vicende delle situazioni patrimoniali, il cui unico limite è rappresentato dalla manifestazione di volontà delle parti interessate alla negoziazione. Il corpo è espressione dell’esistenza della persona, è centro di imputazione di interessi giuridici rilevanti, sottratti alle logiche della patrimonialità.
Posta la variabilità nel tempo del giudizio di ammissibilità dell’atto di disposizione e considerata la mutevolezza di contenuto di clausole generali come l’ordine pubblico e il buon costume, la difficoltà risiede nel fatto di operare un raccordo tra il concreto atto dispositivo e i valori dell’ordinamento osservato nella sua ampiezza e storicità.
L’introduzione della norma nel codice del 1942 ha consentito il definitivo riconoscimento di un diritto sul proprio corpo e, quindi, la garanzia di validità di alcuni atti di disposizione dell’integrità fisica generalmente e socialmente apprezzati.
Alla configurazione del potere privato sul corpo si è accostata l’introduzione del limite costituito dalla tutela dell’integrità. Un tempo, l’interesse all’attuazione dell’integrità e sanità della stirpe era funzionale all’esigenza di evitare ogni tipo di menomazione fisica, tale da impedire l’espletamento dei doveri del singolo verso lo Stato e verso la famiglia. La tutela dell’integrità, dunque, era necessaria allo scopo di assicurare che l’individuo, in quanto homo economicus, potesse partecipare compiutamente ed attivamente ai processi produttivi incentrati sull’obiettivo dell’efficienza e del massimo profitto.
Con la Carta costituzionale la prospettiva muta radicalmente e la limitazione all’attività dispositiva viene considerata funzionale all’attuazione dell’interesse individuale e collettivo alla salute (art. 32 cost.). La condizione fisica ottimale è presupposto per il pieno affermarsi dell’identità del soggetto. I parametri normativi di riferimento diventano, dunque, gli artt. 2, 13 e 32 cost.
Il diritto-dovere di esprimere al meglio le proprie potenzialità, per assicurare a sé e alla società progresso e crescita, si pone come limite fondamentale all’attività dispositiva. Entrano, dunque, in gioco i suddetti profili di liceità e meritevolezza degli atti di disposizione del corpo, tanto da essere necessario che questi ultimi siano non soltanto conformi alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, ma tali da suscitare una valutazione positiva in ragione della conformità ai princípi del sistema. La rispondenza ai valori personalistici e alla solidarietà rende l’attività dispositiva del corpo degna di apprezzamento sociale, dunque, idonea ad assicurare lo sviluppo armonioso della personalità dell’individuo. Personalismo e solidarismo divengono, allora, parametri alla stregua dei quali ponderare interessi ed istanze spesso confliggenti.
5. Richiamati i princípi alla base del sistema salute, in seno al quale protagonista è la persona nella sua individualità e nelle relazioni ispirate alla solidarietà, è ora inevitabile provare a cogliere alcuni dei tanti stimoli provenienti dalle indicazioni del legislatore del 2017.
Punto focale della prima parte della legge n. 219 è la promozione e valorizzazione della relazione di cura tra paziente e medico. Il rapporto fra «competenza, autonomia professionale e responsabilità del medico» ed autonome decisioni del paziente si incardina sulla “fiducia”.
Quest’ultima, secondo il suo piú ampio significato, comporta una condizione di sicurezza prodotta dalla convinzione che fatti, persone e relazioni rispondano adeguatamente alle proprie aspettative. In quest’ottica, la fiducia sembra avere una connotazione unidirezionale: il paziente, pur nella drammaticità del suo stato, ha un còmpito fondamentale, ossia quello di individuare – tenendo conto della formazione scientifica, della preparazione e della capacità di approcciarsi alla malattia e al dolore – il professionista piú idoneo a valutare ed affrontare la sua situazione clinica, emotiva e familiare. La fiducia alla quale fa riferimento la legge, però, pare involgere aspetti molto piú complessi. Il riporre nell’esercente la professione sanitaria la propria speranza, cioè considerare la fiducia in termini di solo affidamento, svilisce il senso della riforma. Il riferimento legislativo è alla relazionalità, vale a dire che il percorso da seguire è quello del dialogo bilaterale ed integrato fra gli attori della vicenda, in seno alla quale la sofferenza, pur nell’inevitabile differente intensità, è molteplice: quella totalizzante del malato, quella della famiglia e, poi, del medico, alla costante ricerca del percorso piú adeguato e piú rispondente alle attese del paziente e alle buone pratiche clinico-assistenziali.
Significativo è il riferimento che il comma 2 dell’art. 1 della legge fa alla “fiducia”: nella relazione di cura “sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di “fiducia” del paziente medesimo”. Questo frammento di disposizione è denso di significato, per un duplice ordine di ragioni: da un lato, l’unione tra persone dello stesso sesso e la comunione di vita non fondata sul matrimonio vengono del tutto assimilate alla famiglia matrimoniale, sulla base di una comune connotazione valoriale dei modelli di convivenza affettiva; dall’altro, il coinvolgimento di terzi nel rapporto di cura fa di quest’ultimo una relazione plurale, in seno alla quale ognuno dà il proprio contributo in termini di richieste specifiche, suggerimenti, informazioni, apporti psicologici e affettivi. Ciascuno, cioè, mette in campo il proprio mondo di bisogni, conoscenze, sentimenti.
A norma del comma 8 dell’art. 1 della legge n. 219, «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura». Fulcro della relazione plurale, dunque, è la comunicazione, quale attività diretta a formare ed informare. Il medico comunica col paziente per ottenere il suo consenso, ma anche per fornire informazioni utili a far assumere una decisione seria ed equilibrata. Il sanitario ha l’obbligo di tener conto dello stato di ciascun paziente, vale a dire delle specifiche condizioni di salute, della situazione familiare, della fede religiosa che il malato sente viva in sé stesso, allo scopo di garantire una scelta prudente e consapevole del percorso terapeutico. L’obbligo comunicativo-informativo riguarda anche le probabilità di un esito fausto o infausto delle cure. Specie per quanto attiene a tal’ultima possibilità, è còmpito del medico usare modi e linguaggi conformi all’estrazione culturale e, soprattutto, alla dimensione emotiva del paziente. Comunicazione, informazione e cura, dunque, si prospettano come attività concretamente utili alla gestione del percorso di malattia, ogniqualvolta il metodo adottato dal medico o dall’equipe sanitaria si traduca in personalizzazione dell’approccio e in valutazione complessiva del mondo di bisogni e richieste del malato e dei suoi congiunti.
Presupposto dell’adeguata informazione è la corretta formazione delle categorie professionali: “La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative” (comma 10, art. 1 l. 219/2017).
Da tutto ciò traspare la radicale ridefinizione del ruolo del medico, il quale risulta titolare di una serie di obblighi: intrattenere un dialogo continuativo col paziente, al fine di monitorare il suo percorso ed indicare, qualora costui rinunci o rifiuti un trattamento sanitario necessario alla sopravvivenza, le conseguenze della scelta operata; alleviare le sofferenze del malato, adempiendo l’obbligo di astenersi dal suggerire e praticare cure irragionevoli o trattamenti inadeguati; rispettare la volontà espressa dal paziente, con la possibilità di essere, una volta osservato il suo volere, esonerato da ogni responsabilità.
La relazione di cura fondata sulla fiducia, per come prospettata dalla legge, imporrebbe una ristrutturazione del sistema sanitario. Gli elevati costi della sanità, l’eccessiva burocratizzazione, la frequente difficoltà di conciliare espletamento della professione sanitaria e periodica formazione, la carenza di strutture idonee ad assicurare un’adeguata e continuativa accoglienza del malato e dei suoi familiari, la frequente necessità di far passare attraverso la rete comunicazioni che attengono alla sfera più intima della persona, il sovraccarico del settore della medicina di base, sempre più svuotata della sua tradizionale funzione di accudimento del malato, costituiscono gli aspetti più problematici dell’attuazione della riforma. Come parte della dottrina sottolinea, la disposizione in tema di fiduciaria relazione di cura raccoglie ed afferma princípi da tempo presenti nella deontologia medica e nelle esperienze più avanzate di pratica clinica, ma “controfattuali” rispetto allo stato e alla cultura diffusa in seno al sistema sanitario e alla classe medica.
6. La fiducia, quale fondamento del rapporto tra medico e paziente, implica la necessità che il primo rispetti la volontà del malato di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, con la conseguenza che, qualora si verifichino fatti irreparabili, potrà andare esente da responsabilità civile e penale (comma 6, art. 1 l. 219/2017). La responsabilità, invece, si configura in tutti i casi nei quali, sottraendosi agli obblighi di cura, assistenza, cooperazione, nonché al dovere di aderire alle linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali, il medico cagioni danni ulteriori e più gravi o acceleri il processo mortale del paziente.
Se così è, la prima parte della legge n. 219, incentrata sulla reciprocità del rapporto tra professionista e destinatario delle prestazioni sanitarie, può coordinarsi con alcune delle disposizioni in materia di responsabilità medica.
Come è noto, l’art. 7, comma 3, l. 8 marzo 2017, n. 24 prevede che “l’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile (…). Il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria, ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590 sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”.
La “condotta del sanitario”, alla quale fa riferimento la norma appena segnalata, può assumere rilievo da due punti di vista: da un lato, come parametro di determinazione dell’entità del risarcimento dovuto al paziente, ai sensi della legge n. 24; dall’altro, come criterio di valutazione del contenuto della relazione di cura, ai sensi della legge n. 219.
Tenere conto della condotta sanitaria significa stabilire in quale misura il comportamento, pur se conforme alle linee guida o alle buone pratiche, sia stato insufficiente rispetto a quanto atteso dal paziente che ha riposto fiducia nel medico. Ai fini del giudizio di responsabilità e per svilire la relazione fiduciaria di cura rileva, da un canto, la distanza della condotta del sanitario da quella che per il paziente era necessario tenere, anche da un punto di vista etico; d’altro canto, la valutazione del comportamento in relazione alle peculiarità soggettive dell’agente e alle sue conoscenze tecnico-scientifiche, perciò, tanto piú ampie sono le cognizioni relative ad una patologia e alla connessa pratica medica, quanto maggiore è l’aspettativa del risultato piú o meno favorevole correlato all’intervento.
Il potere affidato al giudice, chiamato appunto a valutare la condotta medica, può essere oggetto di varie interpretazioni.
Tenere conto della condotta significa indagare se il sanitario ha osservato o, al contrario, disatteso le linee guida o, più incisivamente, considerare se al momento della scelta terapeutica conforme alle linee guida si siano preventivate le possibili conseguenze nefaste. Si può, poi, attribuire alla funzione di valutazione della condotta il significato di accertamento dell’idoneità del trattamento rispetto alle specificità del caso concreto. Una terza interpretazione può essere fondata sulla necessità di considerare se ricorra colpa grave, quindi imprudenza, oppure colpa gravissima, vale a dire negligenza. In quest’ultimo caso, rimarrebbero estromesse dal giudizio sia le ipotesi di imperizia, sia quelle di consapevolezza del risultato lesivo. Si pensi al caso estremo del soggetto che, ricorrendo a tecniche terapeutiche previste da linee guida, se ne discosta in una delle fasi di esecuzione, non per imprudenza, negligenza o imperizia, ma soltanto nella prospettiva, là dove l’esito del trattamento sul paziente sia positivo, di poter trarre futuri profitti dal fatto di aver utilizzato lo strumento secondo particolari modalità.
Il riferimento alla condotta, cioè, non rinvia unicamente all’esame della congruità del comportamento rispetto alle raccomandazioni espresse in linee guida o buone pratiche, anche perché queste ultime non esauriscono i parametri di valutazione, trattandosi di direttive generali, istruzioni di massima, criteri orientativi. L’esame complessivo della condotta del medico si traduce in giudizio di adeguatezza della scelta terapeutica a fronte di specifici e concreti interessi esistenziali. Oggetto di analisi giudiziale è, cioè, la conformità della condotta sanitaria all’esigenza di tutela effettiva dei diritti della persona. Giudicare l’adeguatezza dell’agire in relazione al caso concreto significa valutare il comportamento rispetto alle istanze individuali, oscillanti fra esigenza di tutela dell’integrità, contenimento del dolore e richiesta di morte dignitosa.
Dalle osservazioni svolte risulta, dunque, che le questioni del fine vita si intrecciano con quelle relative al contenuto e all’esercizio della funzione sanitaria; pertanto, relazione di cura e responsabilità professionale del medico si pongono in stretta correlazione.
7. Il legislatore delle cc.dd. disposizioni anticipate di trattamento affronta, nella veste formale piú volte utilizzata negli anni addietro, la questione del consenso dell’interessato al trattamento sanitario e dell’autodeterminazione del paziente.
Come ognuno sa, il consenso si presenta quale presupposto dell’esercizio dell’attività medica, vigendo, ai sensi dell’art. 32 cost., il principio per il quale nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la propria volontà. La regola di rango costituzionale è confermata, a livello internazionale, dalla Convenzione di Oviedo del 1997, che è stata ratificata dall’Italia con l. 145/2001, la quale fissa granitici princípi: ogni terapia, invasiva o non invasiva, richiede l’assenso dell’interessato; è necessario che il consenso sia consapevole, ovvero che sia preceduto da un’adeguata informativa circa le caratteristiche, i rischi e le finalità dell’intervento. Il consenso informato è, pertanto, espressione della cosciente adesione al trattamento sanitario proposto dal medico o dall’equipe che prende in carico la situazione del paziente. Quest’ultimo è sempre libero di ritirare il consenso espresso, in qualunque momento dell’iter terapeutico.
Il consenso non può essere presunto; è necessario che esso sia reale, personale, spontaneo e consapevole. Irrinunziabile è lo jus poenitendi, che è espressione di una revocabilità senza limiti.
Attenta dottrina, nel dare suggerimenti di lettura della legge n. 219, sottolinea che era, forse, opportuno evitare la “sciocca e deleteria” formula del “consenso informato”, in quanto si tratta di un’espressione che “raccoglie un’eredità di significati e malintesi che bisognava spezzare anche sul piano del linguaggio”.
Il consenso non è un semplice atto, evocando, piuttosto, uno stato e un processo che investe tanti momenti del percorso del paziente e tante manifestazioni della sua personalità. Il consenso, cioè, è un procedimento che combina la proposta di informazioni – la preparazione delle quali è a carico della struttura sanitaria –, la verifica della comprensione di tali informazioni e l’acquisizione della volontà finale del paziente.
Svincolare il consenso dallo schema del mero atto implica l’estensione della consensualità relazionale a piú segmenti della vita del malato e, dunque, alle molteplici situazioni richiamate dalla legge del 2017: la scelta o il rifiuto della terapia, la pianificazione condivisa di cure e le dichiarazioni anticipate di trattamento.
Il consenso, dunque, costituisce il fulcro dell’intera disciplina delle vicende del fine vita. Il legislatore, però, non contribuisce a liberare il campo dal peso di quell’eredità di “malintesi” di cui prima si è detto.
Si può affermare che anche in riferimento ai trattamenti sanitari presi in considerazione dalla legge n. 219, vale a dire nutrizione e idratazione artificiale (art. 1, comma 5), è necessario costruire il consenso in termini diversi dalla sua prospettazione come incondizionato esercizio di diritti individuali. È possibile riproporre in questa sede le osservazioni di chi sottolinea che “il semplice consenso dell’avente diritto non è di per sé sufficiente a rendere lecito quel che per l’ordinamento è obiettivamente illecito, né tanto meno tale consenso può – senza un ritorno al dogma della volontà come valore – rappresentare un atto di autonomia di per sé meritevole di tutela. Autonomia non è arbitrio, né l’atto di autonomia in un ordinamento sociale può esimersi dal realizzare un valore positivo. Se all’apice della gerarchia dei valori v’è la persona umana, l’atto che la riguarda deve pur sempre obiettivamente tendere a realizzarla nella libertà, ma anche nel rispetto del suo stesso valore”.
Certamente, a fronte della prolungata ed insopportabile sofferenza della persona, è necessario proporre il binomio appena evocato, libertà individuale-valore della persona, in termini assolutamente concreti e in modo da rispettare sempre la specificità del caso umano. Il consenso o il dissenso, quali manifestazioni di libertà del singolo, non costituiscono mai arbitrio qualora il bene da salvaguardare sia, non tanto l’integrità come conservazione della persona nella sua fisicità, bensì la dignità, valore superiore che connota tutte le fasi dell’esperienza umana, dalla nascita sino alla morte.
8. Come anticipato, le dinamiche del consenso permeano l’intera disciplina del 2017. Stretta, infatti, è la connessione fra la prima parte della novella e la delicata questione della pianificazione condivisa delle cure.
Secondo il comma 1 dell’articolo 5, la pianificazione delle cure ad opera del paziente e del medico riguarda “l’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”. Non è difficile comprendere cosa si intenda per patologia cronica; piú esposto ad incertezze interpretative è l’attributo “invalidante”, il quale non rinvia a gradi o forme di invalidità. La stessa locuzione «prognosi infausta» è piuttosto generica, non essendo specificato se venga in considerazione una situazione irreparabile rispetto al bene vita o se rilevi il danno connesso all’evolversi della malattia e destinato ad incidere sulla qualità della vita del paziente. La specificazione che la prognosi infausta deve essere accompagnata da «inarrestabile evoluzione» non sembra di particolare ausilio per l’interprete.
Nel tentativo di superare le incertezze nascenti dall’ambiguità del testo della legge, pare opportuno propendere per una valutazione estensiva dei contenuti del piano fondato sulla consensualità, rilevando la possibilità di redigere la pianificazione delle cure anche nel caso di patologie croniche caratterizzate da prognosi infausta per quanto attiene allo stile di vita della persona.
A partire dall’emanazione della legge, l’attenzione si è prevalentemente concentrata sui limiti e sulle forme del consenso, tuttavia, le questioni pratiche da sviscerare sono molteplici ed investono proprio l’àmbito operativo della stessa pianificazione condivisa.
Nella legge n. 219 non è specificato quale sia il medico che procede alla stesura del piano di cura. Può venire in considerazione colui che si occupa di medicina generale, oppure il medico ospedaliero in corso di ricovero, o ancóra il medico specialista, anche là dove questi svolga privatamente la sua attività professionale. Il comma 1 dell’articolo 5 afferma, tassativamente, che alla pianificazione condivisa delle cure “il medico e l’equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.
Il professionista obbligato ad attenersi alla pianificazione è identificabile nel medico che ha concordato un apposito piano di cura con il paziente. Quale sia, invece, l’équipe richiamata dalla norma è, al contrario, poco chiaro. Secondo una prima lettura, è possibile considerare équipe quella che abitualmente svolge la propria attività con il medico che ha sottoscritto la pianificazione.
Tale interpretazione non pare, però, esaustiva. Qualora si tratti di un medico ospedaliero, occorre stabilire se l’equipe di riferimento sia quella del reparto in seno al quale egli opera o se sia quella piú ampiamente costituita da altri medici e altro personale sanitario. Può accadere, infatti, che l’equipe comprenda soggetti di reparti collegati, in particolare medici che abbiano fornito la loro consulenza o che abbiano già posto in essere alcuni trattamenti. Qualora si tratti di un professionista di medicina generale, non è poi semplice individuare il contesto nel quale si articola l’esercizio dell’attività sanitaria. Occorre, di volta in volta, valutare la rete di riferimento, specie per quanto riguarda gli accertamenti diagnostici, i possibili trattamenti terapeutici, l’assistenza domiciliare.
I dubbi appena sollevati concernono, in sostanza, la necessità di fissare i limiti soggettivi circa il rispetto della pianificazione condivisa. Si tratta di questione dalla soluzione non sempre agevole. Dall’angolo prospettico del paziente, risulta opportuno chiarire se la pianificazione delle cure con un medico possa essere operativa nei confronti di tutti i professionisti con i quali il paziente avrà occasione di incontrarsi nell’iter della sua malattia; dall’angolo visuale dei professionisti sanitari, risulta indispensabile che costoro siano tempestivamente informati delle pianificazioni delle cure condivise dal paziente con altri medici, al fine di organizzare e coordinare l’approccio globale al malato in modo continuativo, equilibrato e coerente.
9. Il legislatore, attraverso una sorta di movimento circolare, dalla consensualità come fondamento della relazione di cura approda all’affermazione della centralità del consenso del singolo nella predeterminazione dei trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi.
Il riferimento è alle disposizioni anticipate di trattamento, alle quali molti ordinamenti europei hanno dischiuso le porte. Le DAT fanno riferimento alla manifestazione di volontà di una persona, la quale, temendo di perdere – per malattia o intervento chirurgico – la capacità di intendere e di volere, individua i trattamenti sanitari ed il percorso di cura al quale sottoporsi, potendo altresí attribuire ad un fiduciario l’incarico di prendere le decisioni terapeutiche in propria vece, per il tempo in cui non sarà in grado di farlo autonomamente.
Come di recente ribadito, le disposizioni anticipate di trattamento integrano, da un punto di vista strutturale, un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, a contenuto non patrimoniale. L’efficacia negoziale è differita ad un momento successivo, coincidente col verificarsi di un dato evento, vale a dire la perdita dello stato di capacità psichica dell’autore dell’atto. Quest’ultimo ha natura personalissima, pertanto è impossibile che si possa attribuire ad un procuratore il còmpito di porlo in essere.
La rilevata funzione delle disposizioni anticipate impone di evitare commistioni con la disciplina testamentaria. Infatti, nonostante si sia spesso utilizzata l’espressione “testamento biologico”, pare necessario ribadire che la disposizione di fine vita non è un atto mortis causa, al quale l’autore affida la regolamentazione dei propri interessi per il tempo in cui avrà cessato di vivere. Si tratta, in realtà, di una manifestazione di volontà destinata ad avere efficacia quando l’autore è ancóra in vita e diretta a definire le cure mediche alle quali costui intende sottoporsi.
I problemi che si presentano all’interprete sono molteplici e tutti in gran parte sviscerati negli ultimi due anni dalla dottrina civilistica.
Questione di fondo è l’individuazione del contenuto delle DAT: è necessario che emerga dal documento la circostanza per la quale il disponente ha raccolto preventivamente tutte le informazioni mediche necessarie alla valida manifestazione della propria volontà. Ciò è funzionale allo scopo di evitare che si pretendano trattamenti contrari alla legge, alla deontologia professionale e alle buone pratiche mediche. Il disponente può richiedere o rifiutare determinati trattamenti; può manifestare la propria personale concezione in relazione alle terapie aventi soltanto lo scopo di prolungare lo stato di fine vita; può esprimersi circa la volontà o meno di accedere, nelle ipotesi di incoscienza, a pratiche mediche che consentano un sostegno vitale; può determinarsi in ordine all’utilizzo di farmaci destinati a contenere le sofferenze legate a patologie gravi; può indicare tempi di cura oltre i quali non spingersi; può optare per la scelta di una struttura di degenza piuttosto che per forme di assistenza domiciliare.
Contenuto eventuale delle Dat è la nomina del fiduciario. Si tratta di uno dei temi più discussi, specie per quanto riguarda i tempi di accettazione dell’incarico, l’accertamento della capacità e i compiti spettanti. Innanzitutto, serve ribadire che le funzioni del fiduciario variano in relazione al contenuto delle DAT, per cui piú queste ultime sono precise e complete, più il còmpito del fiduciario si traduce in attuazione della volontà del disponente. In tal caso, il designato veicola il consenso o il rifiuto espresso dal titolare delle situazioni esistenziali.
Il problema sorge in riferimento alle disposizioni anticipate di trattamento che siano scarne o lacunose. In questa ipotesi, il fiduciario sarebbe chiamato a manifestare una volontà sostitutiva di quella del paziente, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano della disponibilità di interessi che afferiscono alla persona nella sua individualità. Lo schema della rappresentanza, in realtà, può condurre ad esiti non condivisibili. Certamente, le disposizioni in tema di predeterminazione delle cure vanno lette nell’ottica della valorizzazione del principio di autodeterminazione, ma non pare conforme ai valori dell’ordinamento prevedere un affidamento totale a terzi del potere di effettuare scelte esistenziali. Un’interpretazione sistematica ed assiologica delle norme in materia di fiduciario impone di valutare il còmpito di quest’ultimo in termini di esecuzione della volontà del disponente e di valorizzazione delle potenzialità del soggetto interessato.
Molte altre sono le questioni in campo. In particolare, hanno trovato adeguate risposte nella dottrina i problemi correlati alla vincolatività, alla capacità del disponente, al tempo di formulazione delle DAT, alle vicende effettuali, alla conservazione e alla pubblicità, al trattamento fiscale delle disposizioni anticipate.
10. Punto cruciale, in materia di fine vita, è l’individuazione del labile confine tra cure ragionevoli e terapie irragionevoli, fra trattamenti proporzionati ed interventi sproporzionati. L’obbligo del medico di astenersi da ogni ostinazione nella somministrazione delle cure è prescrizione normativa che richiede assoluta chiarezza sul profilo dell’utilità del trattamento sanitario, il quale merita un giudizio di approvazione qualora presenti un nucleo di ragionevolezza e proporzionalità.
Ragionevolezza e proporzionalità, come ben si sa, rappresentano strumenti fondamentali per il giurista, il quale è chiamato, soprattutto rispetto alla drammatica situazione della malattia terminale, a valutare le norme senza alcuna astrazione dalla dura realtà della sofferenza del paziente.
Da un punto di vista generale, la proporzionalità implica la comparazione fra entità confrontabili e richiede la ricerca dell’equilibrio fra le situazioni in gioco. Proporzionalità, cioè, non vuol dire assoluta corrispondenza, ma armonia e stabilità. Dall’altro canto, la ragionevolezza, quale criterio di giudizio ricavabile dal sistema, entra in gioco là dove si tratti di coniugare i diversi interessi coinvolti nel caso concreto. Essa consente di individuare le soluzioni più adeguate rispetto alla complessità della situazione sostanziale del singolo e riguardo al sistema valoriale di riferimento. La ragionevolezza è espressione di prudenza, essendo sempre necessario tener conto di tutte quelle potenzialità presenti e future della persona, che la rendono unica rispetto agli altri individui. L’attenzione al caso e al contesto normativo di riferimento implica la doverosa ricerca della soluzione piú appropriata, piú adeguata.
Se si prova ad operare una trasposizione delle osservazioni generali ora svolte sul piano dell’interpretazione della legge in tema di fine vita, sembra meno complicata la ricerca del significato della norma di cui al comma 2 dell’art. 2.
Appare irragionevole ed anche sproporzionata la prescrizione di cure che non tenga conto delle specifiche condizioni del malato, titolare del meritevole interesse al prolungamento della vita, ma anche e soprattutto dell’interesse a preservare il valore della dignità del vivere e del morire. Si presenta come «ostinazione irragionevole» il comportamento del medico che, pur consapevole del potere debilitante di una cura farmacologica, decida di somministrarla a lungo al paziente privo di forze fisiche e di ogni possibilità di resistenza psicologica. È contraria alla dignità del malato la condotta del medico che attua il trattamento diretto a contrastare una patologia che, però, si associa ad altri gravi stati morbosi, i quali potrebbero accentuarsi a séguito dell’intervento sanitario. Allo stesso modo, non c’è ragionevolezza nell’adozione di misure terapeutiche che, richiedendo un enorme dispendio di energie per il paziente e per la famiglia, abbiano possibilità di buona riuscita vicine allo zero. Irrispettosa della dignità del malato, dunque irragionevole e sproporzionata, è la cura innovativa messa in atto dal medico che vuole con insistenza procedere all’applicazione della tecnica terapeutica, allo scopo di verificarne la fattibilità, nonostante la palese irreversibilità dello stato patologico.
Allora, può risultare irragionevole, perché contrario al principio di rispetto della dignità del malato, sia reiterare condotte terapeutiche poco efficaci e particolarmente gravose per il malato in fin di vita, sia porre in essere singoli e sporadici trattamenti estenuanti che non siano in grado di assicurare un seppur minimo vantaggio, anche in termini di speranza di prolungamento della vita.
Alla luce di quanto osservato, la valutazione del trattamento in chiave di ragionevolezza e di proporzionalità non può prescindere dalla considerazione della piena rispondenza agli interessi del singolo, considerato nella globalità della sua dimensione fisica, psichica, familiare, economica. Le istanze della persona malata e il diritto a preservare la dignità costituiscono i parametri valoriali alla stregua dei quali formulare il giudizio sull’ammissibilità e sull’efficacia dei trattamenti sanitari.
11. Come si è detto in partenza, il fine vita è tema complicato, soprattutto per la varietà delle opzioni culturali che lo investono. Queste ultime sono, essenzialmente, espressione di due differenti modi di intendere l’esperienza umana: da un lato, la vita come bene assoluto che rientra nella sfera di appartenenza dell’uomo; dall’altro, la vita come supremo dono da preservare di là da ogni impedimento. Per dirla diversamente, rilevano, in termini spesso contraddittori, le posizioni dello Stato e le scelte della Chiesa cattolica.
Cure palliative, sedazione terminale, suicidio assistito, accanimento terapeutico ed ostinazione irragionevole, rifiuto preventivo di ogni cura, rinuncia successiva all’inizio di un trattamento sono temi che interrogano giurista e uomo di fede.
Soltanto su alcune delle questioni indicate pare non esservi divergenza fra valutazione giuridica e dottrina della Chiesa.
Innanzitutto, la negazione da parte della Chiesa cattolica di qualunque espressione di eutanasia non può indurre a credere che essa sia favorevole all’accanimento terapeutico.
Il magistero ecclesiastico ha piú volte affermato il concetto secondo il quale l’intimo valore dell’esistenza e la personale dignità di ogni essere umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della vita. Un uomo, anche se gravemente malato o impedito nelle sue più alte funzioni, rimane sempre un uomo, senza mai tramutarsi in “vegetale” o “animale”. Al messaggio salvifico della fede e della speranza non può sostituirsi una logica pragmatica o utilitaristica. In aggiunta, in tempi recenti, si è ribadito, ancor più incisivamente, che è possibile sperimentare serenità profonda anche nell’amarezza di dure prove fisiche e morali. L’eutanasia è una “falsa soluzione” al dramma della sofferenza, vale a dire una soluzione per nulla degna della persona umana. La vera risposta al dolore non può essere la morte, seppur “dolce”, ma la testimonianza dell’amore che aiuta ad affrontare l’agonia in modo umano.
Il recente intervento della Corte costituzionale sul c.d. aiuto al suicidio, al quale sopra si è fatto richiamo, sembrerebbe sollecitare, in contesti ispirati ai princípi cattolici, riflessioni di pari natura. La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. potrebbe, secondo un’impostazione orientata verso i precetti del magistero ecclesiastico, determinare derive culturali. Aprire l’ordinamento al suicidio assistito comporterebbe il venir meno delle ragioni profonde della prossimità e dell’assistenza. La sofferenza non si combatte col farmaco letale, ma con la terapia del dolore e con le cure palliative. In altre parole, potrebbe esserci chi, sulla scia delle proprie radicate convinzioni, sia indotto a ritenere che le anticipazioni della Consulta sul tema dell’aiuto al suicidio portino a considerare del tutto superata la preoccupazione di un’apertura all’eutanasia. Il timore, in realtà, è che dietro l’introduzione sociale del suicidio assistito si celi una cultura inidonea a riconoscere la dimensione valoriale della vita dei malati, dei disabili, degli anziani, giungendo a strumentalizzare il tema della libertà.
Da quest’ultima posizione, pur possibile nello scenario di un dibattito allargato alle diverse componenti della società, si ricava la consapevolezza che diritto e morale cattolica operano su piani non sempre coincidenti. Per i giudici delle leggi la non punibilità dell’aiuto al suicidio, in presenza di certe condizioni, è la soluzione piú equilibrata rispetto alla drammatica situazione individuale e sociale di malati e famiglie. In altri termini, per il diritto, inviolabilità della vita non vuol dire spingersi fino alla totale accettazione di stati morbosi che tolgono ogni possibilità di esistere per sé e per gli altri come espressione di valori positivi.
Nella concezione cristiana, diversamente, la vita non appartiene all’uomo ed egli non può disporne, pertanto è necessario custodirla e rispettarla fino al suo naturale compimento. Per dirla in breve, vale per la Chiesa, non anche per il diritto d’oggi, il principio per il quale tutelare la vita significa preservarla anche in condizioni di prolungato patimento. La rivoluzione del cristianesimo sta, infatti, nella scelta di porre al centro l’essere umano non come strumento di potere ed autorità, bensí come espressione di una dignità che gli viene dal Creatore.
Le scelte dei giudici costituzionali, i quali continuano a sollecitare l’intervento del legislatore in materia, sintetizzano la posizione di molti che, pur accomunati dal senso di appartenenza alla comunità ecclesiale, sono indotti a porre su piani diversi il valore vita e l’esperienza della vita nel martirio.
Orbene, per quanto riguarda il rapporto tra aiuto a morire ed opzioni culturali possibili, sembra a chi scrive che le valutazioni della Consulta rispettino in pieno l’autodeterminazione del paziente, non aprendo il varco ad alcuna forma di abuso o di arbitrio. Se cosí è, il divario fra dottrina della Chiesa ed interpretazione giudiziale delle questioni del fine vita risulta essere meno profondo, nell’ottica del rispetto di una dimensione esistenziale che va, caso per caso, rimessa alla coscienza di chi soffre.
Per quanto concerne, invece, l’ostinazione nelle cure, la Chiesa consente esplicitamente la rinuncia all’accanimento terapeutico, volendo cosí, non procurare la morte, ma «accettare di non poterla impedire». In effetti, il par. 2278 del Catechismo del 1992 considera legittima l’interruzione delle procedure mediche «onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate» rispetto ai risultati attesi.
La disposizione appena indicata introduce il criterio della straordinarietà come limite alla accettabilità del trattamento. Non onerosità, assenza di pericolosità, ordinarietà e proporzione rappresentano i requisiti che il trattamento sanitario deve possedere perché sia funzionale alla protezione del malato. La straordinarietà, secondo il documento emanato dal Pontificio Consiglio per la promozione umana e cristiana, può essere valutata da due angoli prospettici: da quello oggettivo, rispetto al quale rilevano la natura e il costo dei mezzi terapeutici; da quello soggettivo, che lascia emergere la necessità di evitare al paziente, considerato nella sua precisa individualità, situazioni di disagio profondo e angoscia. Sproporzione, invece, vuol dire inidoneità del mezzo a perseguire il fine stabilito.
In sostanza, per la Chiesa i parametri alla stregua dei quali valutare l’ammissibilità e tollerabilità del trattamento sanitario sono pressoché corrispondenti a quelli indicati dalla legge.
Quanto finora detto dimostra che è possibile trovare, pur nella diversità delle posizioni di partenza, soluzioni condivise e rispettose dei bisogni piú profondi della persona. Non può destare preoccupazione l’assumere consapevolezza del fatto che è sempre piú necessario rivolgere attenzione alle richieste drammaticamente urgenti dell’essere umano, lasciando al margine criteri di giudizio ispirati ad un’astratta valutazione dei problemi.
Ciò significa mettere in moto un processo di umanizzazione del diritto, il quale è in grado di svolgere una funzione promozionale ogniqualvolta si conformi ai bisogni dei soggetti piú deboli e indifesi. Su questo piano di azione può accadere che diritto e morale si incrocino, pur nella consapevolezza del diverso ruolo al quale sono chiamati come strutture portanti della società.
C’è ancóra tanto da riflettere sui temi qui sintetizzati. Vita, malattia, morte, dignità umana, libertà della persona e limiti all’arbitrio del singolo costituiscono le linee direttrici lungo le quali serve, senza invocare primati, continuare a confrontarsi e dibattere, nello sforzo combinato di tutti e nell’interesse superiore di chi invoca tutela, rispetto e talvolta anche pietà.