[L’ombra della sovranità. Riflessioni a partire da un testo di Luigi Alfieri]
[Francesco D’Agostino]
- Esistono temi “solari”? Esistono temi “notturni”? Certamente sì (non starò qui a fare esempi presenti alla mente di tutti). Più difficile a stabilire l’esistenza di temi “umbratili”: Alfieri è convinto che tra questi vada posto il tema della sovranità: impegnarsi in un dibattito su questo tema implica confrontarsi col tema del potere e significa, particolarmente oggi, calarsi nel labirinto della filosofia della politica, senza avere non solo la certezza, ma nemmeno la probabilità di poterne uscire (teoreticamente ) vivi. Al centro di questo labirinto si trova infatti (e non potrebbe essere altrimenti) un vero e proprio Minotauro filosofico, assolutamente spietato, quello che dà la necessaria forma simbolica al nesso costitutivo di potere (che della sovranità costituisce la sostanza fattuale, quindi, diciamolo pure , animalesca) e di sovranità (che del potere rappresenta invece la dimensione antropologica, declinabile solo al singolare. Due sovranità si escludono reciprocamente, perché rimandano al trascendentale della primazia, categoria assolutamente singolare: si tratta infatti di una categoria, che non ammette alternative per il sovrano tra la morte, l’assoluto nulla, e il riconoscimento, parimenti assoluto, da parte dei suoi sudditi, del suo costante declinarsi altrove e quindi della sua inaccessibilità.
2.La sovranità viene infatti tematizzata da Alfieri come una categoria da colpire al cuore, una categoria per la quale egli ci invita ad adottare, come si è visto, l’immagine dell’ombra, come luce/non luce, riducendola essenzialmente a una contraddizione che ci fa soffrire, perché non siamo in grado di sciogliere e che perciò può essere dialettizzata solo attraverso la categoria del paradosso: è una categoria che già alla sua alba rivela di essere al tramonto, una categoria che ci si presenta come quella di un silenzio eloquente, di un’assenza che diviene epifania, di un mondo privato (o abbandonato?) da Dio, nel quale comunque la mano di Dio continua e deve continuare ad operare. Il tema della sovranità -questo in fondo è l’insegnamento che Alfieri ci trasmette- è nel contempo insolubile e irrinunciabile: è insolubile perché nel momento in cui necessariamente lo si raccorda al tema del potere si rivela costitutivamente enigmatico; è irrinunciabile perché la logica della sovranità altro non è che la logica della pace, quella pace cui tutti aspirano, ma che nessuno riesce realmente a imporre e sperimentare. Quello della sovranità si rivela In questo senso come un tema le cui coordinate appaiono strutturalmente teologiche: solo Dio, l’essere supremo, l’unico essere di cui può senza contraddizione essere predicata la sovranità, può essere l’oggetto di un logos e a esso soltanto la teologia può attribuire i caratteri più peculiari e paradossali, a partire da quello della mai completa e compiuta tematizzabilità. Solo se si riesce ad abbattere il Minotauro, che regna nel labirinto facendo della sala centrale di questo quella del proprio trono, lo si può liberare dal suo crudele e tutto sommato superfluo sovrano e abbandonare questo luogo angoscioso al suo inutilizzabile vuoto.
- Appoggiandosi ad autori di cui conosce tutte le sfumature, autori tanto suggestivi quanto in genere mal compresi (Hobbes, Rousseau, Schmitt, Canetti), ma dell’apporto dei quali potrebbe benissimo fare a meno, essendo ben capace di riformularne in forma estremamente originale le tesi, Alfieri vuol giungere a convincerci che tra i concetti di sovranità, di Dio, e quindi di religione esiste un nesso enigmatico (che mai e poi mai andrebbe ridotto ad uno stupido e vuoto nesso enigmistico!). Il che comporta che, se Dio non è sovrano, non c’è nessun sovrano e che la politica o è costitutivamemte religione (anche solo religione civile) o non è. Esprimendo questi concetti in forme diverse, Alfieri ci impone di accettare che la sovranità sia solo la maschera del potere e che una volta che si riesca a smascherare la sovranità non ci si trova però -come ci si potrebbe aspettare- davanti alla fattualità brutale del potere, che saremmo chiamati a delineare e a controllare, ma davanti alla nostra costitutiva impotenza di regolamentarlo, impotenza origine e causa di un elenco di infiniti fallimenti, cui diamo il nome di guerra, data l’incapacità del potere di autofondarsi e di fornire alla società civile le dovute garanzie etico-sociali della pace. Conclusione amara, definitiva e cinica per alcuni, per altri forse provvisoria e bisognosa di ulteriori argomentazioni, ma tutto sommato ben corrispondente alla tragicità della storia e del tempo presente.
- Un simile intreccio di filosofia e teologia per essere dipanato (se mai fosse possibile) richiederebbe l’impiego di una notevole energia intellettuale da parte del lettore. Chi scrive queste righe può solo sottolineare come gran parte della difficoltà di questo testo di Luigi Alfieri (peraltro affascinante, anche per la sottile e inaspettata carica di humor che lo pervade) dipende non tanto dall’ingombrante e ineliminabile peso del riferimento teologico che lo caratterizza, quanto dalla decisione di Alfieri (con ogni probabilità intenzionale e risoluta) di non adottare per il riferimento a “Dio” quelle categorie essenzialmente metafisiche, fredde, razionali che strutturano tutta la tradizione occidentale e che oggi sono non solo raramente utilizzate, ma anche raramente comprese. È vero che il nostro autore sembra mosso dalla tentazione, fin dall’inizio del libro, di verificare la possibilità di sperimentare, con molta onestà intellettuale, altre vie, come quella della teologia apofatica, ma avverte subito che nemmeno questa può aiutarci a risolvere il problema , dato che si tratta di una teologia che non è nemmeno più in grado di “sapersi come tale”.
5.Sarebbe necessario, per andare avanti o per illudersi di poterlo fare, assumere un’immagine teologica di Dio radicalmente diversa da quella cui facciamo abitualmente ricorso, ma che pochi autori, però, appaiono in grado di costruire e di elaborare compiutamente, perché implica il coraggioso abbandono delle vie, apparentemente diritte e rassicuranti, ma in realtà incredibilmente tortuose, dell’ontologia classica. Qui mi fermo, perché di ontologia si continua a scrivere e parlare senza sosta, senza ottenere però risultati sostanziali, soprattutto quando si tenta, come ho accennato all’ inizio di queste riflessioni, di intrecciare metafisica, ontologia e filosofia della politica. Esistono però nella tradizione occidentale altre indicazioni, che non dovremmo mai rimuovere, perché anche se in sé e per sé non sono state elaborate per finalità filosofiche, e meno che mai ontologiche, possiedono un potenziale rivelativo prezioso. Potrei fare molti, diversi esempi. Per limitarmi ad un solo, sviluppare il quale qui è impossibile, perché ci porterebbe lontanissimo, penso ad un’immagine di Dio come quella che ci presenta John Milton, che su questo punto è parimenti lontano sia dalla tradizione cattolica scolastica che dalla tradizione evangelico-protestante. Nel Paradise Lost, l’assoluta primazia divina viene da Milton pensata con riferimento all’immagine di una luce assoluta, la quale per la sua stessa essenza non può coniugarsi né entrare in alcun modo in contatto con le tenebre. Quindi, la sovranità di Dio è ritenuta assoluta a tal punto, che non è nemmeno possibile immaginare che il creatore si chini sul creato, ordinandolo ad es. attraverso ipotetiche “leggi di natura”, sostanzialmente coincidenti con la categoria della legge stessa nella sua razionalità intrinseca, o con la volontà medesima di Dio, alla quale l’Occidente teologico ha voluto riferire, come Alfieri ci spiega pazientemente, la stessa istituzione dello Stato in generale.
6. Questo discorso può apparire inutilmente intrecciato, quando cerchiamo dì presentarlo attraverso le tradizionali categorie ontologiche. Se però diamo direttamente la parola a Milton, tutto sembra all’improvviso semplificarsi. Mi limito a citare due versi assolutamente straordinari del Paradiso perduto. Milton ci dice che Satana, nel momento stesso in cui, sconfitto da Dio, a seguito della sua ribellione, ma pur ancora dotato di oscuri poteri, si allontana definitivamente dal suo creatore, porta via con sé, non intenzionalmente, ma -potremmo dire- necessariamente, non solo le tenebre, ormai destinate ad accompagnarlo per l’eternità, ma tutte le tenebre: “The Feind…fled murmuring and with him fled the shades of night” (Paradise Lost, IV, 1014 -1015). Se l’ordine del male, di cui Satana ormai si riconosce orgogliosamente come assoluto sovrano, coincide completamente con quello della notte e se l’ordine del bene, l’ordine solare, quello di Dio, cui Satana rinuncia per sempre, non tollera di essere contaminato nemmeno in minima parte da quello delle tenebre, non è forse da qui che si potrebbe cercare di ripartire per ricostituire un nesso dialettico autentico tra la sovranità (che possiamo e dobbiamo intendere alla stregua della cifra unica e assoluta del bene) e il potere (che percepiamo invece come la cifra di un male che ci seduce, anche se sappiamo che è capace di indurre solo sofferenze)? Satana, secondo Milton, sa che Dio non solo potrebbe, ma vorrebbe perdonare la sua insubordinazione e non una volta soltanto, ma mille e mille volte, anzi tutte le volte che egli decidesse di chiedergli perdono; ma nello stesso tempo Satana sa che in questo caso il suo potere, affidato in tal modo alla misericordia di Dio, svanirebbe immediatamente, perdendo ogni consistenza. Ma è proprio in questa sua residua consistenza che il male si consolida, dando vita ad una tragedia di cui noi umani con certezza conosciamo gli inizi (la nascita) e gli esiti ineluttabili (la morte), ma di cui non riusciamo mai a cogliere fino in fondo il significato. La fredda ragione ontologica dell’Occidente qui va in frantumi e il pensiero “umbratile” rivendica le sue pur deboli ragioni: sta a noi, se mai saremo in grado di farlo, esplorarne la consistenza.