Lohengrin. Il sacro oltre la ricerca
[Francesco Cavalla]
L’ultima italiana o la prima tedesca, a seconda dei punti di vista, Lohengrin è la prima opera dove Wagner delinea la sua poetica musicale e drammatica: non solo, è anche la prima opera dove egli mostra la sua visione del mondo – e più esattamente della storia europea – con tratti caratteristici che resteranno sostanzialmente immutati nel tempo; pur circoscritti nei confini talvolta fluidi quali si ritrovano nel lavoro di un autore che è un grande musicista e non un filosofo o saggista.
Quanto alle fonti del racconto, probabilmente esse vanno ricercate negli ultimi versi del poema Perzival, dovuto a Wolfram von Eschenbach (inizi del XII secolo), e anche, oppure, nelle anonime, e pressoché coeve, epopee Chèvalier du Cygne e Lohengrin. È certo comunque che di leggende concernenti un misterioso cavaliere salvatore di inermi fanciulle, al quale non si doveva domandare il nome, che compare su di una navicella trascinata da un cigno, ne circolavano parecchie nell’Europa intorno al 1100 (Cfr. E.NEWMAN, Le opere di Wagner, trad.it., Milano 1981, pp. 132 ss.). è anche certo che, qualunque fossero le sue fonti, Wagner riorganizzava il racconto per farne una narrazione originale adatta ad un suo messaggio specifico. Ma è in ogni caso significativo che il musicista abbia tratto il materiale per il suo lavoro dalla cultura letteraria dell’Alto Medioevo europeo.
Ripercorriamo la trama cercando di cogliere almeno alcuni dei suoi significati profondi. Siamo nell’XI secolo e il Re, Enrico detto l’Uccellatore, scende nel Brabante per chiedere, ai reggenti di quella regione, alleanza e truppe per combattere contro gli invasori Ungari. Ma nel Brabante, è in atto un’aspra contesa su colui cui spetti il governo di quella regione: Elsa, giovane ed indifesa fanciulla, viene accusata di aver ucciso il fratello, legittimo duca, dal cugino Telramondo che esige, oltra alla condanna della donna, l’attribuzione a se stesso dei poteri ducali. L’accusa viene portata davanti al Re che statuisce che la causa venga decisa attraverso un giudizio di Dio. Elsa dovrà scegliersi un campione disposto a battersi contro Telramondo.
Alle prime due chiamate degli araldi nessuno risponde. Alla terza si avanza sul fiume Schelda, ritto su di una navicella trascinata da un cigno, un cavaliere dall’armatura splendente: egli si offre quale campione di Elsa, totalmente affascinata dalla sua figura, e si offre inoltre di starle vicino tutta la vita ad una sola condizione: che né lei né altri domandi il suo nome e la sua origine. Si svolge il duello; Telramondo viene sconfitto e il cavaliere gli risparmia la vita; il cavaliere viene nominato protettore del Brabante; si stabiliscono le nozze con Elsa.
Si noti intanto la potente simbologia del fiume, ricorrente anche nella successiva tetralogia wagneriana: esso designa il tempo, nel fluire inesorabile del quale sorgono e si consumano le vicende umane, dal quale comunque sempre si eccettua un altrove misterioso.
Si osservi poi l’esattezza del quadro entro cui Wagner dispone la vicenda. Le minuziose didascalie del libretto si diffondono a distinguere i Brabantini dai Sassoni e a significare la convergenza di interessi fra i due popoli, come effettivamente è accaduto. Esatti sono i richiami agli eventi che realmente spinsero la calata di Enrico I° e la figura di questi è tratteggiata in termini per nulla “melodrammatici” ma in modo da restituirle una autentica credibilità storica. (Op.cit., pp. 128 ss.).
È sorprendente poi la fedeltà del raccolto wagneriano ai canoni giuridici che presiedevano all’ordalia nel rito tedesco. In un recente splendido libretto (uso il diminutivo per la ridotta mole dell’opera, non certo per la sua importanza) A.TEDOLDI ( Il processo in musica nel Lohengrin di Richard Wagner, Pisa, Pacini, 2017) mostra come tutte le prescrizioni che Wagner impone per la realizzazione scenica del giudizio di Dio – dimensioni e forma del campo, sanzioni per chi violasse le regole, dichiarazioni del Re come giudice, disposizione e funzione degli araldi – siano pienamente conformi alle norme allora vigenti per il valido svolgimento di un’ordalia.
Queste constatazioni sono di grande importanza per capire il significato ultimo dell’opera. Fin dall’inizio (e non sono molti a notarlo) si comprende come uno dei temi rilevanti della medesima- subordinato al principale – è costituito da quello che il giuristi chiamano “il rito”: cioè il procedimento, disciplinato da norme, attuato per ottenere la verità su di un determinato caso. L’ordalia è universalmente considerata la versione medievale del processo accusatorio: che è quello dove le parti (accusato e accusatore) sono in pari situazione, con pari armi, davanti al giudice; spettando a ciascuna di muovere contro l’altra nel tentativo di squalificarne la posizione. Nel mondo antico, come in quello moderno, le armi dello scontro sono quelle della dialettica: nel mondo medievale invece le armi erano quella da battaglia, nella presupposizione che, se le regole del duello erano rispettate, Iddio stesso intervenisse a mostrare chi aveva ragione aiutando uno dei due contendenti a vincere. In ogni caso, però, il giudice aveva solo il compito di vegliare sulla regolarità del procedimento mentre, quanto al merito, egli interveniva soltanto esercitando una funzione dichiarativa.
Quando si pensa alla accuratezza della ambientazione storico-sociale del lavoro di Wagner, e quanto più si comprenderà l’importanza della medesima perché si mostri il senso ultimo dell’opera, si potranno nutrire sensati dubbi sulla competenza di certi registi contemporanei: i quali nella convinzione (paranoica) di essere più intelligenti del compositore, e nella persuasione (ahimè talvolta fondata) dell’ignoranza del pubblico, ambientano la rappresentazione del Lohengrin nei pressi di una piscina comunale o nel cortile di una casa periferica della Milano dell’800. Se fossi pagano direi che l’ira degli dèi farà scontare a costoro la loro tracotanza. Non essendo pagano mi limito a dire che a entrare nelle ragioni dei cretini si diventa cretini. Meglio lasciar perdere.
Nel secondo atto “esplode”, per così dire, in tutta la sua negatività, la figura di Ortruda: colei che convinse Telramondo – precedentemente destinato ad Elsa – a sposarla dopo avergli ingannevolmente raccontato di aver visto la giovane uccidere il fratello. Con la comparsa di Ortruda i termini del dramma acquistano i loro autentici ampi contorni. Ortruda è l’erede degli antichi adoratori degli dèi pagani, poi scacciati dai cristiani. Ella incita alla vendetta il marito, caduto in una profonda disperazione per il disonore subito. Nella sua lunga allocuzione beffeggia l’esistenza del Dio unico, invoca le antiche divinità nordiche, Wotan e Freia. Convince il consorte che lui è stato sconfitto perché l’avversario era assistito da arti magiche, ma dichiara di possedere gli artifizi idonei a rendere quelle del tutto inefficaci. Si propone infine di indurre Elsa a porre al novello sposo la domanda, fatale e proibita, sul suo nome: persuasa che, una volta che questo fosse stato rivelato, il misterioso cavaliere avrebbe perduto ogni arcana protezione.
Qui non è più questione di una innocente fanciulla insidiata da un perfida megera; non si tratta più di un losco traditore che trama contro un cavaliere senza macchia e senza paura. Non è neppure un conflitto dinastico politico. Storie di questo genere se ne trovano molte nel melodramma europeo e sono talvolta sviluppate con un tessuto musicale pregevole. I termini drammatici in cui si svolge il Lohengrin sono ben altri e ben più ampi. Da una parte sta una presenza misteriosa che si propone come effettualmente salvifica nel momento stesso in cui dichiara di non poter essere definita nei termini che gli uomini usano per chiamare le cose; dall’altra parte sta il mondo pagano che ha cieca fiducia nelle potenze naturali (rappresentate dagli dèi antichi), che risolve il soprannaturale in fenomeni dominabili con la manipolazione magica della natura. Da un lato sta l’annuncio evangelico; dall’altro sta il mondo che si affida alla forza, all’astuzia, al dominio sulle cose: magico una volta, scientifico nei temoi successivi. È il mondo che si avvia ad essere dominante nella modernità.
Il piano trova una prima parziale attuazione in un momento successivo, quando Re, cavalieri e sposi si trovano riuniti per la cerimonia nuziale. Ortruda – che nel frattempo si è fatta perdonare da Elsa e si trova nel suo corteo, improvvisamente si rivolta contro la novella sposa, la accusa di volerla umiliare, insinua apertamente che il segreto che circonda il nome dello sposo nasconda una realtà vergognosa che lo renderebbe indegno del talamo. Quasi contemporaneamente Telramondo si appella al Re esigendo l’annullamento del giudizio di Dio: per ciò adducendo di essere stato sconfitto da arti magiche come comproverebbe il fatto che l’avversario non abbia rivelato il suo nome: il che esigono, invece , le norme regolatrici dell’ordalia.
Si noti che in punto di stretto diritto Telramondo ha ragione. Egli invoca un istituto processuale che dagli ordinamenti antichi è traslato in quelli moderni prendendo il nome di “rescissione”. Per esso la parte soccombente di un processo può ricorrere all’autorità per far annullare il processo stesso quando in questo ricorra un grave difetto di legittimazione di una parte. In effetto nel caso dl specie le ragioni della doglianza ci stanno tutte: Lohengrin non ha dichiarato il suo nome e così non ha provato di avere le qualità soggettive, cioè il necessario lignaggio, che lo facevano idoneo a sostenere un confronto con un esponente dell’alta nobiltà.
Ma il Re respinge l’appello del brabantino. Con un suo atto di imperio dichiara che il comportamento dello sconosciuto cavaliere è stato, ed è, improntato ad un tale livello di nobiltà da rendere superfluo ogni ulteriore accertamento sulle sue origini familiari.
Come abbiamo già visto, Wagner conosce molto bene le regole dell’ordalia: perciò il metterne in scena una violazione non dipende da ignoranza e neppure può interpretarsi come un adattamento della realtà alle esigenze di un racconto fantastico. Al contrario la narrazione riceve il suo significato profondo proprio dal fatto che la trasgressione alle regole è rappresentata e consaputa come tale e, in quanto tale, le è attribuito il carattere della eccezionalità.
Innanzitutto l’intervento del Re segna i limiti del rito accusatorio. La discussione dialettica non basta a fissare un risultato costante nel tempo: giacché nel tempo possono sorgere sempre nuovi elementi che valgono e rimettere in questione il caso dibattuto. Occorre un intervento autoritativo che dichiara definitivo un certo risultato: ed è un intervento che palesemente ha natura totalmente diversa da una discussione mirando non già a confrontare tesi diverse ma ad eliminare ogni opposizione intorno ad un certo caso. D’altra parte l’atto di imperio, se ha il pregio di impedire l’inconclusività della discussione, ha il limite estremo di precludere che alle proprie conclusioni si chiedano ulteriori garanzie: sicché alle certezze che esso impone si accompagna la certezza che le medesime non rappresentino la verità.
Wagner mostra nel Lohengrin una posizione che poi riprenderà più articolata nella Walkiria (cfr. il mio La struttura processuale nell’opera di Wagner, in: “ISLL papers” on line, 2019, vol. 12 ). Gli strumenti giuridici sono inidonei a garantire in modo assoluto le conclusioni che essi prospettano: e se ciò vale per ogni ambito dei rapporti sociali, la loro insufficienza acquista un carattere, e persino una funzione, particolare ove si tratti della verità in questione nel Lohengrin: la presenza del sacro nella storia umana.
Arriviamo al terzo atto, alla catarsi finale. Rimasti soli i due novelli sposi, Elsa prima esprime la potenza del suo amore verso il cavaliere e poi – non riuscendo a scacciare da sé i dubbi insinuatile da Ortruda – ripetutamente domanda a Lohengrin il suo nome e la sua origine; e giustifica la sua insistenza con il timore che lo sposo le nasconda qualcosa che in futuro potrebbe allontanarlo da lei. Mentre Lohengrin le oppone un angosciato rifiuto, Telramomdo, insinuatosi di nascoso nella camera degli sposi, lo aggredisce: ma viene preceduto dal cavaliere (avvertito da Elsa) e ucciso. Ma ormai il giuramento di non chiedere mai il nome del salvatore è stato rotto. Lohengrin non potrà più restare nel Brabante e dovrà tornare nella misteriosa sua terra d’origine.
Nella scena successiva Lohengrin si presenta davanti al Re e al popolo brabantino in armi. Non potrà condurre le schiere in battaglia, non potrà rimanere in una terra che pure lo ha accolto con tanto favore, non potrà restare accanto alla sua amata sposa. La sacra promessa di non indagare sul suo nome è stata rotta. Egli dovrà andarsene: non senza aver prima rivelato chi egli sia. Egli è Lohengrin, figlio di Parsifal, sovrano di un ordine di eletti cavalieri che hanno sede nel lontano castello di Monsalvat. Là è custodita la coppa che ha raccolto il sangue di Cristo morente; là ogni anno, al Venerdì Santo una bianca colomba discende dal cielo a rinforzare la fede e la virtù dei cavalieri: che sono sempre pronti ad accorrere ogni dove vi sia una ingiustizia da riparare, un debole da proteggere. E possono restare nelle terre delle loro imprese ma solo finché nessuno domandi il loro nome e la loro origine.
Dopo queste rivelazioni compare di nuovo la navicella trascinata dal cigno: Lohengrin vi sale ma al cigno improvvisamente si sostituisce uno stormo di colombe: al suo posto si mostra Goffredo, fratello di Elsa, non già morto ma solo vittima dei sortilegi di Ortruda. È generale il rimpianto per la dipartita del cavaliere, attenuato comunque dalla gioia di aver ritrovato il legittimo duca di Brabante.
Adesso diventa tutto chiaro. Si capisce la funzione del Re; l’opposizione ingannevole di Ortruda; la drammatica debolezza di Elsa; le ultime parole e poi la partenza di Lohengrin. Il tutto si chiarisce a partire da ciò che Lohengrin significa. Il cavaliere è simbolo del sacro che ha fatto irruzione nella storia con una funzione salvifica; Lohengrin è la parafrasi di Cristo. Da cosa salva l’autentica apparizione del sacro? Dalla barbarie, dalla superstizione, dalla sostituzione della verità con l’apparenza: ma anche da ogni forma di forza manipolatrice della realtà capace di proporre, non solo per il passato, infondate gerarchie di potere nel mondo. (Telramondo al posto di Gofredo). Gli uomini si sono opposti a molte false pretese con gli strumenti del diritto: ma la maestà del processo non ha la capacità di proporre verità incontrovertibili sottratte alla contestazione anche subdola. Ma contro il paganesimo il potere ha tratto comunque la sua legittimità proprio dall’affermare autoritativamente e difendere la presenza del sacro nel mondo; così offrendo al sacro una garanzia puramente esterna e non priva di ambiguità: nel momento in cui ha cercato di ridurlo ad un’arma contro i nemici. (Il Re vuole che Lohengrin conduca un esercito contro gli invasori). E anche questo è un modo non meno errato di quello di Elsa, per cercare di ricondurre il sacro nell’ambito delle forze umane.
E veniamo infine ad Elsa. Intorno alla quale, anche da parte di autorevoli commentatori, si è speso un cumulo di autentiche banalità. La fragilità femminile… la curiosità più forte del sentimento… la passione amorosa che vuole il possesso integrale dell’amato… Si, certo, si può dire che Wagner rappresenti come l’amore, quando si tramuta in desiderio di possesso, finisce per perdere il proprio destinatario. Ma, per la comprensione del dramma, la psicologia dell’ardore amoroso qui c’entra poco come poco c’entra nel Tristano e Isotta. I tormenti degli amanti sono metafora di qualcosa di molto più radicale.
Elsa è tutti noi; è l’umanità bisognosa di salvezza, catturata dal suo annuncio, eppure atterrita dal suo mistero che stenta a custodire come tale. Ed ecco l’incessante domanda sulla sua essenza senza sapere che ogni risposta significherebbe la sua perdita. L’umanità ha tentato e tenta di ridurre la verità nel campo delle sue certezze: ma ciò che ottiene è, nel migliore dei casi, la constatazione che il sacro si sottrae ad ogni conclusiva definizione.
Ma Lohengrin non scompare del tutto. Egli lascia un racconto di sé; come un racconto del Cristo sono i vangeli: scritture che attestano il suo passaggio nel mondo ma rinviano sempre ad una presenza misteriosa altrove. E Lohengrin lascia, ancora, una inestinguibile nostalgia di sé.
Si è molto discusso in che senso il messaggio di Wagner possa considerarsi effettivamente cristiano. Ovviamente non interessa la sua pratica personale. Certamente la sua adesione al cristianesimo non è di natura “confessionale”: Wagner non si ascrive a nessuna chiesa organizzata con i suoi riti e i suoi dogmi. Wagner esalta l’aspetto culturale del cristianesimo: la funzione che storicamente ha esercitato nello sviluppo della civiltà europea, la sua capacità di distogliere gli uomini dai miti dell’antico e del nuovo paganesimo. La civiltà industriale, di cui il compositore vedeva il primo costituirsi, propaga una menzogna sull’uomo e sul suo destino, introduce una visione materialistica della storia il cui diffondersi avrebbe portato ad inevitabile decadenza l’intero corso del mondo occidentale.
Ci si è chiesti se il fondo ideologico di Wagner sia costituito da un aggressivo nazionalismo. Diciamolo subito contro ogni facezia al riguardo: Wagner non c’entra niente con Hitler. Anche se è convinto che i tedeschi abbiano una superiorità culturale su altri popoli. È convinto che la nazione germanica abbia una missione storica nel consesso delle altre nazioni europee: ma questa missione non si risolve in un dominio oppressivo e violento, quanto piuttosto nella conservazione e propagazione del contenuto civilizzatore del cristianesimo. Lo si vede anche nel Lohengrin; il Re Enrico è il padre di Ottone, il fondatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica. È questa grande esperienza storica che Wagner ricorda come un ideale da opporre alla corsa verso la barbarie: accompagnata dal salutare avvertimento tuttavia (come abbiamo visto) di non fare del sacro uno strumento di potere. Del resto, in una lettera scritta in età avanzata, il grande musicista lo dirà espressamente: i latini non sono in grado di capire l’autentico contenuto del cristianesimo.
Ovviamente questa “germanizzazione” del cristianesimo è una parte, più ancora che discutibile, del tutto caduca del discorso wagneriano. Ma, tolto quello che si deve togliere, resta che: di fronte al neo paganesimo della civiltà industriale (e alle prime reazioni “socialiste” cui Wagner aveva partecipato in gioventù) il grande compositore teme un progressivo imbarbarimento della civiltà europea e un suo inevitabile declino; e propone come antidoto, unica via di salvezza, il ritorno della cultura al pensiero religioso, alla coscienza di ciò che sta oltre la storia, presente nella storia come una fertile assenza.
All’uomo votato a perseguire potere e produzione Wagner oppone e propone l’uomo nostalgico dell’assoluto. Dopo quasi un secolo noi abbiamo davanti l’uomo dei diritti. Il confronto è sconfortante.