La Corte costituzionale italiana nella sentenza n. 242 di novembre 2019 ha fondato la sua decisione di riscrivere la norma contestata rivendicando il suo potere di “gestire il processo costituzionale”. L’obiettivo dell’autore è quello di sollecitare una riflessione sul lavoro della Corte che non può e non deve legiferare al posto del Parlamento poiché solo quest’ultimo ha avuto il mandato popolare al fine di attuare le leggi necessarie per la nazione.

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Brevi considerazioni a margine della Sentenza n. 242/2019. La “Leale collaborazione istituzionale tra i poteri” ha ultimato la sua parabola.

Maria Elena Ruggiano

1. Premessa 2. Il Principio di leale collaborazione tra i poteri in Italia e nella Unione Europea 3. I significati del principio di leale collaborazione all’interno di un ordinamento 4. Considerazioni conclusive

1. Nella Sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale, depositata nel novembre scorso, l’attenzione di tutti, come era logico prevedere, è stata attratta dalle novità che essa conteneva in materia eutanasica. La Consulta, nel suo pronunciarsi, ha però compiuto un passo avanti sensibile non solamente sul piano sostanziale ma anche su quello formale che sembra non essere stato considerato nella giusta misura; essa in primis ha provveduto a delineare in quale modo l’art. 580 c. p. sia conforme alla nostra Costituzione ma poi ha preteso di riscriverlo fissando modi e condizioni e arrivando ad indicare una procedura.
Come si ricorderà la questione trasse origine dalla nota vicenda del DJ Fabo il quale, assistito dalla Associazione in capo a M. Cappato, fu accompagnato da quest’ultimo in una clinica svizzera al fine di attuare la procedura cd. di suicidio assistito. Lo stesso M. Cappato, autodenunciandosi il giorno seguente alla procedura, fu chiamato a rispondere della violazione dell’art. 580 del codice penale da parte del GIP del Tribunale di Milano che formulò l’imputazione. M. Cappato fu tratto in giudizio innanzi la Corte d’Assise di Milano per aver rafforzato il proposito di suicidio di Fabo DJ e per averne agevolato l’esecuzione. Al termine della istruttoria dibattimentale il Collegio milanese, con ordinanza del 14 febbraio 2018, sollevò questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c. p.: a) “nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio”, per ritenuto contrasto con gli artt. 2,13§1, 117 della Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; b) “nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 12 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione” per ritenuto contrasto con gli artt. 3,13,25 secondo comma, 27 terzo comma Cost..
La Corte Costituzionale argomentò che l’art. 580 c. p. “mantiene una rilevanza oggettiva nell’impianto costituzionale potendo essere tutelante per i soggetti più fragili come le persone malate, depresse o psicologicamente vulnerabili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero facilmente essere indotte a porre fine alla loro vita in maniera precoce e per fini personali ed egoistici dei congiunti. Ciò detto però grazie ai progressi della scienza e della medicina si profilano casi e situazioni che all’epoca della emanazione del Codice non erano nemmeno pensabili visto che un malato può essere strappato alla morte ma rimanere fortemente compromesso nelle sue funzioni vitali e tali ipotesi devono essere trattate in maniera diversa dall’ordinamento”. Secondo la Corte quindi qualora ricorrano queste ultime evenienze l’art.580 c. p. concretizza una violazione del diritto costituzionale a rinunciare alle cure ex art. 32 della costituzione; sottolinea ancora che il divieto per il medico di farsi carico di richieste come quella di Fabo impone al malato di subire un processo “più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”. La Corte censura quindi l’assolutezza del divieto dell’art. 580 c. p. affermando che “se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari.. non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Accertata la violazione di tali parametri la Corte ritenne però necessario, anziché dichiarare immediatamente l’incostituzionalità dell’art. 580 c. p., di rinviare la questione al 24 settembre 2019, termine entro il quale il Parlamento avrebbe dovuto introdurre una disciplina ad hoc che, oltre ad escludere la rilevanza penale delle condotte di agevolazione del suicidio, regolasse la materia, individuando tutti i casi in cui sarà possibile garantire e tutelare il diritto del malato di liberarsi delle proprie sofferenze.
La Corte, con un atteggiamento sui generis, dava al Parlamento delle indicazioni chiare per licenziare una legge che regolasse le ipotesi delineate. Nella Ordinanza suddetta, prendendo spunto da una Sentenza della Corte Suprema inglese in materia di assistenza al suicidio che non aveva ritenuto opportuno deliberare su siffatta materia, assegnava quindi un compito preciso al Parlamento, entro un tempo determinato, allo scopo anche di mantenere un rapporto “collaborativo e dialogico” tra le parti.
Una volta trascorso il termine del settembre 2019 e dopo aver preso atto della inerzia del Parlamento italiano con la Sentenza n. 242 la Corte si è voluta spingere ancora oltre, ritenendo la collaborazione istituzionale conclusa poiché il Parlamento non aveva adempiuto nel termine previsto al compito assegnatogli, ed ha di fatto riscritto la norma impugnata rivendicando i “propri poteri di gestione del processo costituzionale”; in tale maniera non risponde in maniera affermativa o negativa alla richiesta fattale ma riformula la previsione codiciale affermando che “L’ art.508 deve essere dichiarato, dunque, costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2,13,32, secondo comma Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – [… ]- agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Statuisce quindi che “Non è punibile ai sensi dell’art. 580 c.p., a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Un tale atteggiamento dovrebbe destare preoccupazione poiché non dovrebbe esistere la possibilità di svuotare di senso il Parlamento legiferando al suo posto e arrogandosi veri e propri poteri legislativi e ancor di più non dovrebbero essere dimenticati i principi democratici che devolvono agli eletti dal popolo la capacità di legiferare in nome di tutti senza il pericolo di essere scavalcati dai tecnocrati del diritto.
Il Principio di collaborazione dovrebbe essere considerato molto più di un semplice galateo costituzionale ma troppo spesso ormai risulta essere una aspirazione, una speranza o una bandiera contro le sfrontatezze e contro i centralismi statali e regionali.

2. Il Principio di leale collaborazione tra i poteri in Italia e nella Unione Europea.
Il principio di leale collaborazione tra i poteri viene percepito e sussiste in ogni sistema costituzionale poiché non sarebbe ipotizzabile la sua assenza al fine del buon funzionamento dell’intero apparato statale. Alla Corte rimane il merito di averlo tradotto in “correttezza” e “rispetto reciproco” che molto bene esprimono il concetto sotteso.
La leale collaborazione consta di due accezioni differenti: la prima quella detta “leale collaborazione intersoggettiva” utilizzata con riferimento ai rapporti intercorrenti tra lo Stato e le Regioni o gli altri enti territoriali e che detta il paradigma dell’operato dello Stato e degli enti nelle materie in cui i rispettivi interessi e competenze si intersecano sino a sovrapporsi. La seconda detta di “leale collaborazione interorganica” concernente le relazioni e le reciproche interferenze tra i poteri dello Stato.
Attualmente in tutti i sistemi statali compresi quelli di stampo dualista, imperniati quindi su di una netta separazione dei poteri, i rapporti istituzionali sono temperati dal principio di leale collaborazione.
Tale principio fu originariamente assente nella nostra Carta fondamentale emergendo in seguito dapprima grazie alle numerose Sentenze della Corte Costituzionale che lo richiamarono e successivamente venne codificato nel titolo V della Carta fondamentale in seguito alla sua riforma e alla modifica dell’art. 120 rimanendo ad operare per ciò che concerne i poteri dello Stato “negli strati più profondi del diritto costituzionale”.
Certamente la previsione ex art. 120 della Costituzione riguarda solamente il rapporto Stato – Regioni ma la mancata previsione esplicita del principio non decreta la sua inesistenza in altri ambiti. Nella nostra Costituzione d’altronde rimangono orfani di un preciso riferimento testuale anche altri principi come ad esempio quello di legalità ma ciò non potrà far dubitare che questi non sussistano all’interno del nostro ordinamento. Senza dubbio alcuno esistono principi espressi e inespressi e il principio in sé si caratterizza per la sua portata ampia e generale lasciando lo sviluppo attraverso le norme particolari delle quali andrà a costituire il fondamento e influenzerà i contenuti.
Nel nostro ordinamento molte previsioni costituzionali e leggi ordinarie possono essere ricondotte al principio di leale collaborazione: ad esempio il rapporto di fiducia che intercorre tra Governo e Parlamento; i rapporti che legano le due camere del Parlamento tra loro od ancora l’iter di promulgazione di una legge che necessita della collaborazione tra Presidente della repubblica, le Camere ed il Governo chiamato alla controfirma così come l’istituto della Grazia che necessita di un rapporto tra il Presidente della Repubblica e il Ministro della giustizia.
Da quanto detto deduciamo che i momenti in cui gli organi dello Stato si intersecano tra loro nel compimento delle loro funzioni sono molteplici e le norme che li disciplinano sono norme particolari basate sul principio di leale collaborazione.
La prima volta che la Corte si espresse in questa direzione fu nella Sentenza n. 168 del 1963 nella quale parlò esplicitamente di rapporto di collaborazione tra i poteri dello Stato.
Successivamente nella pronuncia n. 379 del 1992 si iniziò a delineare il contenuto del principio sostenendo che “sotto il profilo della leale cooperazione e, in particolare, sotto quello della correttezza nei rapporti reciproci, l’attività di concertazione deve svolgersi secondo comportamenti coerenti e non contraddittori”, ed ancora nella sentenza n. 110 del 1998 si affermò con chiarezza che i rapporti tra gli organi devono ispirarsi a “correttezza e lealtà, nel senso dell’effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti”.
Parte della dottrina, sulla base di tali pronunce, ha avanzato l’ipotesi che il principio di leale collaborazione possa non essere altro che una estensione del principio di separazione dei poteri poiché esprimerebbe “l’ovvia esigenza che i meccanismi della forma di governo funzionino con accettabile efficienza, esigenza che, sia o meno contemplata dalla teoria si impone con tutta evidenza nella pratica”R. R. .
Il fatto che il principio della leale collaborazione possa essere collegato con il principio di separazione dei poteri non può far dimenticare comunque che il primo trova le sue basi negli strati più profondi della Costituzione poiché risponde ad esigenze che si posizionano tra le fondamenta dell’impianto costituzionale e le dinamiche dei rapporti all’interno della forma di governo.
La necessità della leale collaborazione tra i poteri è stata ribadita anche a livello comunitario sia nell’art. 13, comma II, del Trattato sull’Unione Europea che stabilisce infatti che “le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione” e lo si richiama principalmente per quanto attiene ai rapporti tra Parlamento Europeo e Consiglio ed anche nell’art.4, comma III, del Trattato dove si afferma che “in virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati”; ciò vuol significare che gli organi nazionali devono facilitare le istituzioni comunitarie nell’assolvimento dei loro compiti.
In particolare l’art. 4 nel porre un obbligo di collaborazione tra gli Stati membri e l’Unione Europea vuole realizzare due prescrizioni precise: 1. nessuno Stato membro deve porre in essere atti che vadano a compromettere la realizzazione di obiettivi comunitari quindi non dovrà produrre leggi o provvedimenti amministrativi che non siano coerenti con gli obiettivi suddetti e qualora questo accadesse il giudice nazionale dovrà prontamente disapplicarli; 2. ogni Stato membro dovrà adottare tutti gli strumenti giuridici che siano necessari al conseguimento degli obiettivi comunitari.

3. I significati del principio di leale collaborazione all’interno di un ordinamento.
La leale collaborazione tra poteri all’interno di un ordinamento assume varie forme. È un principio non scritto che informa l’ordinamento stesso e si desume dalla connessione sistematica e dal coordinamento delle disposizioni costituzionali diventando necessario – quanto alla collaborazione – per l’integrazione e per una armonica composizione dei vari soggetti che compongono l’ordinamento e per ciò che concerne la lealtà è funzionale per dare una sostanza alla collaborazione stessa.
Si tratterebbe di un principio quindi funzionale, teleologico e strumentale all’ordinamento perché indica la strada da seguire per una corretta decisione e il criterio idoneo a cui conformare l’esercizio delle competenze.
La leale collaborazione è anche un principio politico, che caratterizza cioè i rapporti tra istituzioni politiche di diversi ordinamenti o tra differenti livelli di governo; in questa accezione si avrà la necessità di conseguire “una volontà politica unitaria, congiunta e partecipata” ovvero occorrerà che tutti i soggetti coinvolti intervengano nel momento decisionale co-determinando il contenuto degli atti da adottare. L’oggetto stesso della decisione presuppone una leale collaborazione e l’apporto di tutte le parti in gioco.
La leale collaborazione infine può assumere oltremodo il connotato di principio finalistico cioè una “codeterminazione e condivisione degli obiettivi e dei risultati che ciascun soggetto dovrà poi perseguire separatamente nell’esercizio delle rispettive competenze”. L’accezione finalistica del principio implica il rispetto delle competenze altrui per il raggiungimento dell’obiettivo comune che sarà inteso come il funzionamento del sistema stesso; presupposto della collaborazione in tal senso sarà invece una giusta differenziazione delle sfere di competenza dei soggetti coinvolti e un reciproco rispetto delle attribuzioni spettanti a ciascuno.
Certamente il principio in commento così delineato non sarà mai fonte di nuove competenze ma concretizzerà un modo di attuazione del criterio di separazione delle competenze che induca i soggetti a perseguire il corretto funzionamento del sistema nel rispetto degli interessi coinvolti e delle attribuzioni di tutti gli attori interessati.
Nel caso della Sentenza n. 242 appare evidente che il rispetto dovuto delle attribuzioni e delle competenze non è stato attuato; la Corte giudica, come è noto, con sentenze che possono essere di accoglimento con le quali essa, dopo aver compiuto una valutazione sulla questione di costituzionalità, la accoglie, dichiarando incostituzionale la legge in esame; di rigetto con le quali la Corte ritiene il problema non fondato e riconosce che la legge rispetta il dettato costituzionale; interpretative di accoglimento quando la Corte dichiara l’incostituzionalità di una determinata interpretazione della legge e ne impone una conforme alla costituzione o di rigetto quando dichiara la legge legittima purché interpretata in un certo modo; additive che sono quelle con cui la Corte dichiara l’illegittimità di un testo nella parte in cui prevede certe conseguenze piuttosto che altre; monitorie, decisioni anomale con cui la corte cercadi scuotere il legislatore dalla sua inerzia invitandolo alla riforma di un complesso normativo

4. Considerazioni conclusive
Alla luce delle considerazioni che precedono potremmo trarre alcune conclusioni.
Il principio di leale collaborazione costituisce uno dei fondamenti della nostra Carta Costituzionale e sussiste al fine della perfetta efficienza della macchina istituzionale. I paradigmi linguistici, quali ad esempio “correttezza”, “rispetto reciproco”, “bilanciamento tra le opposte esigenze”, che la dottrina ha reso servono solamente a rendere chiaro il concetto che costituisce la sostanza del principio stesso.
Il principio di leale collaborazione aggiunge un corollario alla tesi che regola l’esercizio di una pubblica funzione e il soggetto agente dovrà applicarla tenendo sempre presenti le esigenze e le prerogative degli altri soggetti con i quali si trovi ad interferire.
La Corte è chiamata a risolvere conflitti caratterizzati da una particolare delicatezza e ciò le imporrà di adottare una condotta particolarmente prudente e ragionevole rispetto ai normali giudizi; il suo compito consisterà, tra gli altri, nell’imporre la legalità costituzionale anche ai comportamenti degli organi politici e qualora ella imponesse regole senza un fondamento positivo ci troveremmo difronte ad un difensore che diventa anche produttore delle stesse perdendo credibilità innanzi all’organo politico.
“Purtroppo l’analisi capillare delle pronunce della Corte ha di solito un esito mortificante, perché sembra ardua la ricostruzione unitaria di giudizio, di strutture argomentative comuni munite di sufficiente solidità. Da cui la deprimente conclusione che la giurisprudenza della Corte costituzionale procede caso per caso, tra scarse continuità e vistose discontinuità, che le valutazioni di opportunità prevalgono sulla applicazione di standard di giudizio consolidati. Perciò, quasi inevitabile, riaffiora la questione della legittimazione della Corte”.
Esercizio quanto mai opportuno sarà dunque quello di interrogarsi sulla valenza e l’utilità di un principio come quello della leale collaborazione e se è vero che principi come questo aiutano a concretizzare esigenze che risiedono sulle fondamenta della Costituzione e dello Stato etico bisognerà capire e fare proprio il perché di una Costituzione rigida, quale sia il vero impiego della Corte Costituzionale e a cosa servano gli strumenti con i quali opera.
Con la sentenza n. 242 la Corte ha rivendicato “i propri poteri di gestione del controllo costituzionale” intimando al Parlamento un termine entro il quale legiferare ad hoc; essendo tale termine scaduto la Corte “posta di fronte ad un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio. Occorre infatti evitare che l’Ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale: e ciò specie negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore”.
Con la conseguenza che la stessa non risponde in maniera affermativa o negativa al quesito sottopostole ma riscrive il dettato dell’art. 580 c.p.
Tale modalità di procedere non deve meravigliarci visto che nel lontano 1992 il Prof. Zagrebelsky preferiva la via giudiziaria alla via parlamentare per la risoluzione degli accadimenti quando affermava che “molte domande nuove poste al diritto dal progresso tecnologico (si pensi alla tecnologia genetica) forse più opportunamente possono trovare una prima risposta in una procedura giudiziaria in cui si mettano a confronto prudentemente i principi coinvolti, piuttosto che in assemblee politiche dove il richiamo ai principi è spesso uno strumento di militanza di parte”.
Se questa modalità quindi non può meravigliarci dovrà però farci preoccupare poiché “la garanzia dei diritti non sta più nell’unità e nella partecipazione alle istituzioni rappresentative; sta nelle giurisdizioni e nella loro assoluta indipendenza dal potere politico. La rappresentanza democratica lascia il campo ai tecnocrati del diritto: giuristocrazia invece della democrazia. Il nuovo costituzionalismo sottrae alla politica e attribuisce al giudice anche il potere di riconoscere nuovi diritti”.
Ciò che è accaduto con la sentenza n. 242 rappresenta una sorta di resa delle armi del Parlamento che di fatto si è fatto scavalcare dalla Corte rinunciando al suo ruolo di legislatore e di rappresentante dell’intero popolo italiano.