[Attività lavorativa e fini dello Stato]
[Alessandro Catelani]
Sommario: 1. L’art. 1, 1° comma, della Costituzione. 2. Il significato del riferimento all’attività lavorativa. 3. L’attività lavorativa come elemento determinante della civiltà di un popolo. 4. Lavoro libero e Stato democratico. 5. Il diritto di libertà lavorativa. 6. Il lavoro come dovere. 7. Il lavoro e lo Stato sociale. 8. Lo statalismo e i suoi inconvenienti.
1.Il problema di fondo della nostra società, quale si presenta non solo all’opinione pubblica e agli uomini politici ma, prima ancora, agli studiosi, è quello della determinazione dei fini dello stato.
La determinazione fondamentale dei fini dello Stato è contenuta nel 1° comma dell’art. 1, con cui si apre la Carta Costituzionale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. “ In questa disposizione sono presenti i principi fondamentali ai quali si ispira il nostro ordinamento giuridico: la democrazia e il lavoro. Il primo principio è la democrazia, la quale si basa sul rispetto della legalità e sulla tutela dei diritti umani. I diritti umani devono essere universalmente garantiti, in maniera incondizionata, e questo è il primo compito fondamentale dello Stato.
Fra tutti i diritti umani, una posizione primaria spetta alla libertà lavorativa, quale fonte del benessere, del progresso e della civiltà. Libertà e lavoro sono i due ingrediente indispensabili per costruire una nuova civiltà. Questo è il significato primario dell’espressione “ fondata sul lavoro “.
Non vi può essere una società progredita e moderna senza il lavoro libero. Si tratta di due componenti inscindibili. Si insiste sulla libertà perché questa è indubbiamente la componente di una società che rispetta i diritti umani; ma ad essa deve accompagnarsi l’esercizio di una valida attività lavorativa, che fra tutte le manifestazioni della personalità umana è forse quella più significativa e costruttiva ai fini della creazione di una società migliore.
- Questo precetto costituzionale non è stato tuttavia finora valorizzato nei suoi più significativi contenuti: anche a distanza di tanti anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, è stata interpretato in maniera estremamente riduttiva, intendendo per lavoro solo quello subordinato e dipendente, e senza rendersi conto che qualunque attività umana diretta a produrre un utile deve considerarsi lavorativa. E’ attività lavorativa non solo quella dell’operaio e dell’impiegato di un’impresa, ma anche quella del datore di lavoro cha la gestisce. E’ attività lavorativa ad esempio anche quella disinteressata dei volontari che agiscono per scopi di beneficenza, o quella dei banchieri che operano nell’alta finanza, o quella degli uomini politici che gestiscono la cosa pubblica. La Costituzione si riferisce al lavoro in sé considerato, comunque esso sia svolto. Ogni riduzione di questo concetto ad un’attività lavorativa subordinata appare del tutto ingiustificata.
Questa interpretazione così ingiustificata e restrittiva è dovuta al fatto che ogni riferimento al lavoro è stato considerato come dovuto all’esigenza di tutelare il lavoratore subordinato nei confronti del datore di lavoro. Il lavoro è sempre stato inteso, sotto questo riguardo, come sacrificio e come sfruttamento; così che ogni riferimento che l’avesse ad oggetto dovesse avere l’unico scopo di evitare questi inconvenienti.
Questo profilo è indubbiamente legittimo e del massimo rilievo. Ma l’attività lavorativa deve essere considerata non solo in negativo, sotto questi aspetti; ma in positivo, per i vantaggi che essa può procurare alla società. E tali aspetti, che sono rimasti finora nell’ombra, devono essere invece conosciuti e valorizzati.
- Il lavoro è la fonte primaria della civiltà e del progresso. Il livello di civiltà di una nazione si misura sulla base di quello che essa ha saputo creare. Dalle società più primitive si è passati al modo di vita della società moderna, con i suoi prodigiosi sviluppi della scienza e della tecnica.
Le modalità di vita di un popolo sono determinate in primo luogo dalla produzione di beni e di servizi, i quali presuppongono l’attività umana per concretizzarsi. L’uomo è civile nella misura in cui si eleva da un punto di vista materiale e spirituale. E i beni che condizionano la civiltà non sono solo quelli che procurano utilità materiali, ma ancor più quelli che hanno una portata culturale.
I primi frutti del lavoro sono nell’alimentazione, nella possibilità di soddisfare i bisogni primordiali dell’uomo, e di combattere la fame, che ancora molti popoli arretrati soffrono terribilmente. Correlativamente, i progressi più rilevanti sono quelli delle condizioni igienico-sanitarie, che salvaguardano la salute, e prolungano la vita umana. Al miglioramento delle condizioni di vita è anche legata l’alfabetizzazione, che consente all’uomo di civilizzarsi; mentre la disponibilità dei beni e dei servizi rende più gradevole la vita dell’uomo. Il miglioramento delle condizioni di vita rende l’uomo più civile.
Il miglioramento delle condizioni di vita non è soltanto un fatto materiale, ma anche culturale, perché presuppone non solo la ricchezza, ma anche la scienza e la tecnica, quale occorre per la medicina, per i trasporti, per tutte le costruzioni moderne e per ogni aspetto tecnologico che sia proprio della civiltà moderna.
Da una condizione peggiore sia deve passare ad una migliore. L’attività umana è lo strumento richiesto per migliorare la propria condizione. L’uomo anela alla felicità, desidera essere felice. E il mezzo che gli consente di procurarsi quei beni di cui ha bisogno è la propria attività lavorativa. Da quest’ultima dipendono le condizioni di vita della popolazione, che si fondano sul progresso economico, sullo sviluppo della scienza e della tecnica, sulla cultura umanistica, sull’arte in tutte le sue manifestazioni e sull’attività scientifica.
In quanto capace di raggiungere certi risultati attraverso la propria attività, l’uomo acquista coscienza della sua dignità e del suo valore di essere umano. In presenza di una società evoluta, tutte le varie attività lavorative, nel loro multiforme atteggiarsi, contribuiscono in varia misura al progresso della società. In tal modo popoli che avevano scarsissime risorse naturali sono diventati ricchissimi e progrediti, e magari altri, che vivevano in zone ricche di minerali e di altri prodotti naturali, si sono a volte rivelati tra i più arretrati del mondo.
La società, in quanto opera umana, è creata dall’uomo, e riflette la capacità di ciascun popolo di elaborare quelle condizioni di vita che sono le più consone alle proprie attitudini e alle proprie scelte.
- La tutela del lavoro, in tutti i suoi aspetti, deve essere dunque un fine primario dell’attività statale. E il primo aspetto che deve essere salvaguardato attiene alla sua capacità creativa, di costruzione di una società migliore.
Perché questo accada, il lavoro deve essere libero e non coatto. Quando il lavoro diventa coatto, sulla base di uno Stato assoluto, al cui servizio sia il cittadino, i risultati materiali possono essere cospicui, ma i suoi effetti sulla società sono del tutto negativi, perché producono oppressione e sofferenze. Il singolo diventa strumento della potenza dello Stato, anziché essere oggetto dell’attività di quest’ultimo. L’uomo è sacrificato davanti a un nuovo assoluto inteso nella sua materialità, come organismo statale.
Il lavoro veramente proficuo è quello liberamente compiuto. Se in mancanza di libertà vi sono delle costrizioni, la produttività è indubbiamente destinata ad aumentare, ma in quel caso va a detrimento della personalità umana. Se chi impone lavoro schiavistico è lo Stato, l’uomo viene posto a servizio dello Stato, anzichè essere lo Stato a servizio dell’uomo, secondo una concezione tipicamente totalitaria che crea, con lo Stato, un nuovo assoluto.
La civiltà attuale, quella che è all’avanguardia, si basa sulla valorizzazione non solo del lavoro, ma anche della libertà. La libertà ne è il presupposto necessario e fondamentale; e il lavoro è quella attività che diventa proficua in quanto la libertà la consenta.
- Il diritto al lavoro è uno dei diritti di libertà più importanti, perché costituisce una delle più significative manifestazioni della personalità umana. E’ il lavoro che consente la sopravvivenza della persona, e quindi sotto questo aspetto è anche più importante rispetto ad altri pur essenziali diritti di libertà che sono connaturati alla dignità umana, come la libertà di pensiero e di espressione. I diritti di libertà hanno ad oggetto le varie manifestazioni della personalità umana. La libertà lavorativa è una di queste, che la concerne sotto un essenziale profilo.
Il nostro è uno Stato libero, e il lavoro viene riconosciuto come uno dei diritti di libertà. Dispone l’art. 4 della Costituzione: “ La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. “ (1° comma )
Per valorizzare pienamente la capacità dei singoli, questa deve esplicarsi secondo le scelte e le inclinazioni delle varie persone. Il settore dell’attività lavorativa è fondamentale, fra queste manifestazioni della personalità alle quali fa riferimento il 2° comma dell’art. 3 della Costituzione, quando indica l’obiettivo di eliminare gli ostacoli che si frappongono “ al pieno sviluppo della persona umana “, al libero esplicarsi della personalità di ciascuno. L’eliminazione di questi ostacoli deve implicare in primo luogo l’eliminazione di quelli che si frappongono al pieno esercizio dell’attività lavorativa.
La garanzia della Costituzione, che ha ad oggetto l’attività lavorativa, si identifica con la libertà di scelta che spetta a tutti i consociati, liberi di scegliere, senza costrizioni, il tipo di attività lavorativa che preferiscono. L’oggetto di questa sfera di autodeterminazione varia a seconda dei singoli diritti di libertà. L’attività lavorativa non sfugge a questi caratteri generalissimi.
La garanzia della Costituzione ha ad oggetto l’attività umana in sé considerata, come manifestazione della personalità del singolo, e in secondo luogo la capacità della persona di scegliere quale comportamento tenere fra più attività giuridicamente lecite. Quindi la libertà è più o meno ampia a seconda delle attività che sono consentite, e quindi della possibilità di avvalersene.
In quanto libero, il lavoro è l’elemento cardine su cui poggia lo sviluppo della personalità e dei rapporti sociali. Il lavoro serve ad affermare la personalità di chi lo compie, che desidera avere soddisfazione; soddisfazione economica, oppure di carriera, come riconoscimento dei propri meriti e di prestigio che ne consegue, oppure di ambedue. Oltre ai vantaggi economici, chi lavora desidera anche avere il riconoscimento del prestigio delle proprie azioni.
Per realizzare gli obiettivi che la Costituzione prescrive, non è però sufficiente il profilo garantista della possibilità accordata a chiunque di scegliere l’attività lavorativa che più gli aggrada, ma occorre anche che tale possibilità di scelta sia concretamente assicurata. Vi è dunque nella norma dell’art. 4 anche un precetto programmatico, che impone ai pubblici poteri di garantire il pieno impiego dei fattori produttivi, consentendo a chiunque di esercitare l’attività lavorativa che preferisce. La società non sempre offre a chiunque la possibilità di svolgere un lavoro di proprio gradimento; così che spesso per necessità si è costretti a svolgere un lavoro non gradito, o almeno non del tutto appagante. Compito primario dello Stato moderno è dunque quello di garantire un’ampia gamma di scelte, così da dare a ciascuno l’opportunità di svolgere il lavoro che più gli è congeniale, e di valorizzare in tal modo pienamente le proprie capacità. Perchè questo avvenga, lo Stato deve avere come obiettivo primario quello di garantire un favorevole andamento dell’economia.
- Come appare dal 2° comma dell’art. 4 della Costituzione, “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere…un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. “ Il lavoro è dunque un dovere, oltre che un diritto, in quanto si traduce in un’attività socialmente utile, oltre ad essere indispensabile a livello individuale.
Sono i soggetti privati, e non solo gli organi pubblici, che hanno il compito di migliorare la società, di rinnovarla. Il raggiungimento dei fini dello Stato è imposto all’intera collettività. Il progresso è opera dei singoli consociati, di ogni soggetto privato che agisca nell’ambito della propria sfera giuridica, dalle attività più umili a quelle più rilevanti, in maniera forse anche più significativa di quelle che attengono ai compiti degli uffici amministrativi e del governo globale della collettività, che spettano agli organi esponenziali della stessa. La società migliora se e nei limiti in cui i singoli consociati agiscono a suo favore attraverso una valida attività. Questo è uno dei capisaldi di una civile convivenza, di quello che potremmo considerare il segreto del successo di un’intera società, di una popolazione, di una nazione.
E’ significativo che questo sia riconosciuto, oltre che dalla disposizione che abbiamo richiamato ( art. 4, 2° comma ), dall’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, secondo cui gli organi pubblici sono obbligati a sostenere le iniziative di pubblico interesse intraprese dai privati. Se una certa attività è di interesse collettivo, le pubbliche autorità devono sostenerla. Vi è, attraverso questa norma, un esplicito riconoscimento del pubblico interesse che può essere proprio delle attività private.
Tutti hanno il dovere di lavorare, di adempiere a tale obbligo, e non soltanto per il proprio specifico interesse, che è ineliminabile e pienamente legittimo perchè si identifica con la loro sopravvivenza, ma anche per lo sviluppo della società considerata nel suo complesso. Tutti con il proprio lavoro contribuiscono all’esistenza, alla sopravvivenza e al progresso della società in cui vivono. E questa è – per così dire – modellata dall’attività lavorativa compiuta da ciascuno.
Nel lavoro non vi è soltanto l’utile individuale, e quindi quei vantaggi che alla persona sono indispensabili, ma vi è un’utilità collettiva, una dimensione associata insita nel profilo dell’attività lavorativa, qualunque essa sia – purchè, ovviamente, nei limiti del lecito -. Tale dovere non si ha quindi soltanto nei confronti di se stessi, ma anche nei confronti della collettività nella quale si è inseriti. Ciascuno quando lavora contribuisce al bene comune, allo sviluppo della società, al suo benessere, al suo progresso. La società si costruisce sempre e necessariamente attraverso il lavoro. La società per essere più giusta, più progredita, necessita dell’apporto di ciascuno. Il vantaggio che se ne ricava con il lavoro è anche collettivo, secondo quella duplice dimensione che necessariamente sussiste, per essere l’uomo inserito nella collettività alla quale appartiene. Il vantaggio individuale è contemporaneamente vantaggio della società, perché il singolo che compie l’attività lavorativa fa parte della società, ne è parte integrante, ne è elemento costitutivo; per cui i vantaggi che lo riguardano come soggetto, sono anche quelli che lo concernono come elemento costitutivo di un unico corpo sociale.
Ad esempio l’artista che elabora un’opera d’arte arricchisce, per ciò stesso, la collettività alla quale appartiene. Quell’opera, se ha un suo pregio, entrerà a far parte del patrimonio culturale della nazione. E così il medico, l’avvocato, l’ingegnere o qualunque altro professionista o lavoratore manuale, esercita le proprie prestazioni per trarne un utile, che gli è indispensabile per sopravvivere. Ma contemporaneamente queste prestazioni sono effettuate nei confronti della collettività, la quale se ne avvantaggia. Tutti coloro che si avvalgono di questi servigi ne traggono un utile. Altrettanto accade nel campo del commercio e dell’industria, come in qualunque altra attività umana. Anche la collettività si avvantaggia dei beni prodotti e messi in vendita, acquistandoli, perché gli sono utili per il miglioramento del proprio tenore di vita.
L’obbligo di svolgere un’attività lavorativa è imposto a tutti – a meno che per le proprie condizioni fisiche non sia in grado di svolgerlo -; e nell’ambito di tale obbligo ciascuno dovrebbe seguire la propria vocazione.
- Il lavoro deve essere tutelato anche da un punto di vista previdenziale. Questa è stata anzi l’unica prospettiva con cui lo si è considerato finora. Essa è fondamentale e pienamente legittima, ma non deve trascurare quella che è la finalità primaria dell’attività lavorativa, di costruzione di una società più progredita e migliore, che è insita nel precetto costituzionale. Le finalità dello Stato incentrate sull’attività lavorativa, come fonte di benessere e di civiltà, spesso passano invece in secondo piano rispetto a quelle dello Stato sociale. Il dovere della sussidiarietà, di aiutare i più deboli, viene considerato assolutamente prioritario rispetto ad ogni altro.
La tendenza della società in cui viviamo è spesso esattamente antitetica rispetto a questa prospettiva. La funzione fondamentale del lavoro viene spesso ignorata, e si afferma che il compito dello Stato e dei pubblici poteri è unicamente quello di aiutare i poveri e gli oppressi, trascurando il fine primario dell’attività lavorativa.
Il lavoro di per sé ha finora goduto di scarsa considerazione presso la collettività, e soprattutto presso gli intellettuali: esso viene considerato come fonte di ricchezza, di denaro, e come causa prima di una vita immorale e dissoluta. Il lavoro viene considerato unicamente per tutelare il lavoratore dipendente dagli abusi del datore di lavoro, ma di per sé non viene apprezzato nei suoi lati positivi di costruzione di una società migliore. Il lavoro viene di consueto in considerazione in quanto prerogativa delle classi più umili, soggette allo sfruttamento dei ricchi. Sotto questo aspetto, e unicamente sotto questo aspetto, è stato finora inteso il riferimento al lavoro contenuto nella disposizione introduttiva della Costituzione. Ma questo modo di vedere ignora completamente quello che è il significato primario di quell’espressione.
L’aspetto previdenziale e assistenziale è di grandissimo rilievo, ma deve essere considerato in rapporto a quello che è il problema di fondo dello Stato, nella sua giusta portata: le prestazioni dello Stato sociale possono essere elargite solo nei limiti in cui lo Stato abbia i mezzi per effettuarle. La condizione perché esista lo Stato sociale è che la società, attraverso il lavoro, sia produttiva. La socialità deve, proprio in quest’ottica, avere dei limiti.
Questo aspetto viene invece da molti considerato come un problema pratico e secondario, da non prendere in considerazione rispetto al problema primario della socialità e dell’assistenzialismo. Ma non ci si rende conto che, a prescindere da mezzi adeguati, lo Stato sociale non può essere realizzato.
Si tratta quindi di una finalità ulteriore e collaterale, rispetto al fine primario del miglioramento delle condizioni di vita attraverso il lavoro. Se paragoniamo questa concezione a quella corrente, vediamo dunque che i fini dello Stato devono essere considerati in maniera diversa: nessuno può vivere esclusivamente della beneficenza altrui, ma per sopravvivere deve avere un lavoro – tranne che per ragioni di invalidità non sia in grado di svolgerlo, nel qual caso deve essere sostenuto dallo Stato -. Il fine primario dello Stato deve essere dunque quello di procurare a tutti un lavoro; e si tratta di una finalità che in gran parte si identifica con un favorevole andamento dell’economia. E’ il lavoro che crea benessere, e che viene incontro alle esigenze primarie della collettività. Per fare del bene agli altri occorre anzitutto procurare ad essi un lavoro che consenta loro di sopravvivere. Questo è l’elemento che determina il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. E da questo lo Stato sociale appare integralmente condizionato.
- L’assistenzialismo e la socialità spingono inevitabilmente verso lo statalismo: chiunque abbia problemi economici desidera diventare dipendente statale, per godere della stabilità, avere la certezza del guadagno e la tranquillità economica. Ma lo statalismo si identifica con la negazione della libertà lavorativa, della libertà economica che, quale diritto costituzionalmente garantito, è la fonte primaria del benessere e della civiltà. Nei paesi in cui lo statalismo sia coatto ed assoluto, esso ha portato alla miseria più completa, e si è rivelato fallimentare. Nei paesi che, come il nostro, ammettono anche la libera iniziativa, esso non deve andare oltre certi limiti, per non pregiudicare irrimediabilmente lo sviluppo dell’economia.
E’ indispensabile al riguardo distinguere tra lavoro dipendente e lavoro subordinato.
Il lavoro compiuto direttamente dall’imprenditore o dal professionista produce un lucro, in via immediata diretta, a favore di chi lo compie. Quello del dipendente – a tempo determinato o indeterminato -, pur essendo rivolto a conseguire un utile economico, riguarda attività le quali, per i risultati ai quali sono preordinate, sono giuridicamente imputabili a un soggetto diverso, quale è il datore di lavoro, che può essere un privato o un ente pubblico. Il lavoratore dipendente è quindi responsabile del proprio operato, prima ancora che nei confronti dei terzi, ai quali quell’attività si indirizza, nei confronti del datore di lavoro, sulla base di un rapporto interno all’impresa privata, o all’ente pubblico dal quale dipende. La funzionalizzazione di un’attività verso il conseguimento di un utile appare determinante per il livello qualitativo, sotto tutti gli aspetti, dell’attività compiuta; per cui il lavoro dipendente, che viene svolto per un interesse altrui, si presta in particolar modo a essere effettuato controvoglia, e quindi a costituire un sacrifico. Dal che deriva la sua scarsa produttività, che va considerata separatamente a seconda che riguardi il settore pubblico o quello privato.
Chi dipende da imprenditori privati è vincolato ad agire con il massimo zelo perché il datore di lavoro ha interesse a rendere il lavoro produttivo al massimo per trarne un lucro, e prima ancora per poter continuare ad esercitare la propria attività produttiva, che da quel lucro è condizionata. Chi dipende dalla pubblica amministrazione, quando ha ottenuto la stabilità, non ha invece alcun interesse a svolgere in maniera proficua la propria attività lavorativa, che in ogni caso gli è garantita – a meno che per lui si presenti la possibilità di far carriera, della quale intenda approfittare -. Nel campo dell’attività produttiva di beni e di servizi le imprese sono soggette al fallimento. La pubblica amministrazione invece non può fallire; ed anche un’astratta possibilità di interruzione del rapporto di lavoro per liquidazione dell’ente pubblico è di fatto inesistente, in quanto di consueto i dipendenti vengono assorbiti, in caso di estinzione dell’ente, da altro ente pubblico.
Questo deve dirsi anche in presenza della c.d. privatizzazione del pubblico impiego: nel nostro ordinamento, il rapporto lavorativo di pubblico impiego, nonostante una privatizzazione di facciata, è rimasto sostanzialmente pubblico, perchè dipende da una struttura pubblica, la cui sostanza non può essere modificata. L’applicazione delle regole del diritto privato – che sono necessariamente residuali e marginali – non possono modificarne la natura: il dipendente gode della stabilità, e la sua posizione giuridica non è condizionata dalla qualità e dalla qualità del lavoro compiuto, ma resta immutata, a meno che non vi sia un interesse di carriera che la condizioni. Nella pubblica amministrazione, chi agisce con coscienza fa bene il proprio lavoro; ma altri motivi per agire correttamente, al di fuori di un interesse di carriera, non ve ne sono. Mentre per i dipendenti privati il condizionamento rispetto agli utili del datore di lavoro è assoluto, e può portare agli abusi più gravi, la situazione è radicalmente diversa per i dipendenti pubblici: la tutela sindacale e giudiziaria nei loro confronti è fortissima, così che il dipendente gode di numerosissimi diritti, ai quali fanno riscontro assai meno doveri. La c. d. privatizzazione, che avrebbe dovuto renderla efficiente e funzionale, ha avuto l’effetto di potenziare a dismisura la tutela dei lavoratori dipendenti, senza alcun rapporto con l’obiettivo primario che si era prefissa.
A tali carenze sarebbe facile obiettare che si dovrebbe costringere gli inadempienti a fare il proprio dovere, così come premiare coloro che agiscono in maniera soddisfacente. Ma il sistema dell’apparato pubblico assai poco si presta a recepire un cambiamento che dovrebbe essere così radicale, proprio per la sua stessa natura pubblicistica. Un giudizio sull’operato dei dipendenti, svincolato dal dato oggettivo dei risultati, e rimesso alla valutazione soggettiva del singolo dirigente, si presta a qualunque abuso, e non da alcuna garanzia di obiettività. La diversità, sotto questo riguardo, del settore pubblico rispetto a quello privato, è che nelle imprese private il criterio del lucro, al quale l’impresa è preordinata, da un criterio preciso, matematico, di valutazione, che costringe ad un giudizio obiettivo; mentre, per quello svolto alle dipendenze di enti pubblici, di ogni pubblica amministrazione, tale condizionamento manca del tutto, e la valutazione viene compiuta sulla base del raggiungimento di un pubblico interesse, la cui consistenza è estremamente arduo e soggettivo accertare.
Nella pubblica amministrazione, la valutazione dei risultati si presta ad ogni ingiustizia e ad ogni favoritismo, dovuto a ragioni personali o politiche. L’apparato pubblico non si presta in maniera soddisfacente a ricevere riforme di questo tipo. Di fatto il lavoro è pienamente produttivo solo se condizionato dal lucro in via immediata e diretta; per i dipendenti pubblici vi è invece solo un interesse pubblico dell’ente, da cui il soggetto dipende, e la situazione, rispetto alla precedente, è radicalmente diversa. Tutto ciò incide in maniera assolutamente decisiva sulle modalità di svolgimento dei due tipi di attività lavorativa; per cui il lavoro subordinato privato è comunemente produttivo, e anzi si presta agli abusi più gravi da parte del datore di lavoro, che giustificano le misure garantiste contenute nella Costituzione, mentre queste circostanze non ricorrono per i dipendenti pubblici.
Il mondo sindacale necessariamente si occupa in prevalenza dei diritti dei dipendenti, senza tenere adeguatamente conto dei doveri. Con la conseguenza che per il settore privato il rispetto delle regole da parte del datore di lavoro appare spesso carente, perché le necessità della produzione si prestano a vanificare tali garanzie; mentre nel settore pubblico domina frequentemente il problema opposto dell’inerzia e del malcostume, dell’impiegato ozioso e trascurato, così come del dirigente o del politico che si arricchiscono con gli appalti, con mezzi fraudolenti ai danni della collettività.
L’assistenzialismo non può dunque essere considerato come l’unico fine fondamentale dello Stato, ma deve andare congiunto alla valorizzazione dell’attività lavorativa, nei suoi lati positivi di costruzione di una società migliore. Procurare a tutti un lavoro deve essere un fine primario dello Stato, perchè consente a ciascuno di sopravvivere, ed è alla base del benessere e del progresso della società; mentre l’attività sussidiaria e assistenziale, pur essendo anch’essa fondamentale, è condizionata dal livello di produttività raggiunto dal corpo sociale attraverso la propria attività lavorativa.
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