Di nuovo Sylviane Agacinski ci sorprende con un pamphlet robusto e controcorrente, dopo Corps en miettes che, nel 2013, suscitò una fitta controversia per la netta presa di posizione di un’autrice culturalmente molto accreditata contro la maternità surrogata e la frammentazione delle identità biologico-relazionali.
S. Agacinski, L’homme désincarné. Du corps charnel au corps fabriqué, Gallimard, Paris, 2019.
Claudio Sartea
Ora Agacinski si distanzia almeno inizialmente dal problema specifico (le tormentate e tormentose inquietudini esistenziali – psicologiche e sociali, prima ancora che filosofiche ed antropologiche – della mère porteuse), per cimentarsi in una riflessione più ampia sull’odierno rapporto con il corpo che gli umani del ventunesimo secolo hanno costruito. Si tratta, nonostante l’ampiezza quasi incommensurabile del tema e della prospettiva, di un pamphlet, quarantadue pagine nemmeno troppo fittamente vergate all’interno di una serie del prestigioso editore parigino Gallimard denominata Tracts: una collana di brevi saggi ed opuscoli d’autore, che ha lo scopo d’inserire profondamente nel dibattito di attualità “les femmes et les hommes de lettres”, in continuità con i “Tracts de la NRF” con cui negli anni ’30 dello scorso secolo intellettuali del rango di André Gide, Thomas Mann e Jean Giono intervennero nel vivace dibattito di idee che si produsse tra le due guerre.
Il problema messo a fuoco in questo tract è la manipolazione del corpo: l’attitudine, tutta postmoderna, a modificare tecnologicamente la biologia, a ibridare vivente e macchinico, con l’obiettivo o l’illusione di aumentare la potenza del primo attraverso l’affidabilità, la forza, l’immortalità o almeno la ripetibilità del secondo. “Un uomo nuovo si preannuncia, non più in sogno o nell’aldilà, ma quaggiù. I nuovi credenti cambiano le loro vecchie ‘tuniche di pelle’ con un corpo di cui sarebbero i ‘sovrani fabbricanti’: corpo restaurato ed aumentato, corpo fabbricato senza padre né madre, e non più generato; corpo ricostruito neutrale, al di là del maschile e del femminile; corpo sempre meno vulnerabile ma anche sempre meno vivo” (p. 5, mia la traduzione di questa e di tutte le successive citazioni dal libro).
La nuova concezione del corpo come oggetto, e quindi come macchina, come rappresentazione ed esercizio di abilità manipolatorie, ha nei medici e nel crescente potere della loro scienza il proprio arsenale operativo e simbolico: essi a parere di Agacinski non sono più meri titolari di una funzione terapeutica, oggigiorno assumono una vera e propria “funzione antropotecnica” (p. 5), perché non ripristinano solamente, ma “rifanno, modellano, correggono, rettificano il corpo umano, e possono anche produrlo, pezzo per pezzo” (p. 6). Concentrandosi poi sul problema che a lei sta più a cuore da tempo, quello della riproduzione artificiale, l’autrice osserva che l’introduzione della categoria (culturale e simbolica, ben più che biologica e medica) della maternità surrogata, ed ancor più radicalmente le ricerche in corso da tempo per la brevettazione dell’utero artificiale, hanno prodotto una risemantizzazione del corpo femminile e delle sue specifiche attitudini alla maternità come luogo del concepimento e come contesto del primissimo sviluppo: “Se la genesi del bimbo può essere affidata a delle macchine, allora il ventre femminile non è altro in fondo che un incubatore. Può anche, provvisoriamente, divenire uno ‘strumento produttivo’” (p. 8).
In attesa della realizzazione di questi surrogati macchinici del grembo vitale del primo accudimento, si diffonde un “crudele” mercato dei ventri e dei bambini, e si struttura a livello internazionale, facendosi beffe del dibattito degli intellettuali, il business della maternità surrogata. Secondo Agacinski, che ha duramente criticato questa deriva etica nel suo libro più famoso, già citato, “questo commercio, che è anche commercio di un bambino, mostra la corruzione – a causa del denaro – dell’integrità personale fisica e morale: corruzione attiva, per le imprese ed i loro clienti, corruzione passiva, per le donne strumentalizzate” (p. 12). Con perspicua penetrazione filosofica, l’autrice qui mette in evidenza il filo rosso che connette le odierne richieste di legalizzazione delle pratiche di maternità surrogata, con un’antropologia della corporeità impregnata di platonismo e gnosi, incapace di comprendere la profonda verità dello humour di Withehead (“Nessuno dice mai: vengo, e porto con me il mio corpo!”), e della recisa asserzione di Merleau-Ponty (“Io non ho un corpo: io sono il mio corpo”; p. 13). Sul piano giuridico, questa incapacità si traduce nella nefasta concezione proprietaria del corpo, che ovviamente deve molto all’idea, priva di qualsiasi argomento a favore, secondo cui l’io e l’identità personale sono tutti concentrati nello spirito (quando non nella mera volontà, che si manifesta in decisioni e scelte), ed il corpo ne costituisce un’appendice, o meglio, uno strumento di realizzazione, esattamente come gli altri strumenti che la tecnica mette a nostra disposizione per perseguire i nostri obiettivi.
Tutto ciò rivoluziona anche la semantica della filiazione e della famiglia: è già arrivato al livello della discussione parlamentare, in Francia, un disegno di legge che si prefigge “di ‘superare i limiti della procreazione’ e mettere le biotecnologie al servizio delle domande provenienti dalla società” (p. 23). L’obiettivo è quello di svincolare le metodiche di fecondazione artificiale dalla logica terapeutica e metterle a disposizione di chiunque desideri farne uso: il nuovo principio della generazione non sono più il corpo, le cellule germinali, il coito, l’utero gestazionale, bensì la volontà degli individui: “è la dottrina californiana, l’intenzione di far nascere il bambino diventa decisiva e fonda la filiazione” (ibidem).
Approfondendo le implicazioni antropologiche (e poi sociali e normative) di questi mutati assetti ideologici, Agacinski si volge a questo punto alla condizione del bambino. Se vi è infatti un torto imperdonabile in tutto questo sistema teso a rivisitare le basi stesse del diritto di famiglia, a prescindere dell’accettabilità del modello antropologico – corpo, sessualità, relazioni tra i sessi – che s’ipotizza a suo fondamento, tale torto riguarda il destino dei bambini, mai interpellati in alcuna fase del processo che li porterà al mondo, e vittime della sua ingiustizia più profonda. È a loro proposito infatti, ad avviso dell’autrice, che appare con evidenza la ragione più grave di inaccettabilità di queste pratiche: “La connessione di un bambino a due linee genitoriali non equivalenti gli rappresenta la sua propria iscrizione nel genere umano, universalmente mista. Essa gli permette di assumere la propria incompletezza, altrimenti detta condizione sessuata. Al contrario, istituire un modo di procreazione ed un regime di filiazione fondati sulla volontà di genitori sessualmente qualunque, o desessualizzati, è come supporre che i due sessi siano intercambiabili” (p. 31). In tal modo, la discussione sulla maternità surrogata mostra il proprio inscindibile legame – teorico, prima ancora che operativo e politico-strategico – con la questione del genere e le teorie antropologiche che la supportano, a cui l’autrice dedica qui una sintetica rassegna critica.
La parte conclusiva è quella in cui Agacinski presenta l’attacco più deciso all’assetto ideologico che pretende di sostenere le attuali proposte di legalizzazione (en passant, ci ha anche segnalato che la coppia Mennesson, divenuta celebre a seguito delle decisioni della Corte Europea dei Diritti Umani sul loro caso di maternità surrogata, è da molto tempo prima del processo attivamente coinvolta nelle campagne internazionali di legalizzazione di questa pratica). L’utero artificiale come punto estremo di approdo di un processo che oggi, più “modestamente”, chiede il riconoscimento sociale e legale dell’utero in affitto, rappresenta ad avviso dell’autrice una forma di liberazione dalla carne. Si tratta allora di un ideale tipicamente maschile, almeno nella linea di Sartre che attribuisce le cause dell’angoscia in cui versa il soggetto alle pastoie della carne di cui la donna sarebbe la figura esatta. Il programma dell’esistenzialismo sartriano è pertanto quello di trascendere l’immanenza carnale del femminile, giacché “la donna letteralmente incarna il soggetto e lo inquieta” (p. 39). Eppure, annota Agacinski, è ben strana questa libertà, che “si esercita al prezzo della disponibilità del corpo altrui”. Così come è ben strana questa uguaglianza (tra maschile e femminile, una volta che la donna sarà stata liberata dai suoi fardelli generativi), vista l’insostenibilità di un’equivalenza tra il dono dello sperma e l’impegno di una gestazione: l’asimmetria è dura da superare. Così, “la sproporzione tra i contributi maschile e femminile fa sì che la procreazione assistita risulti infinitamente più alienante per le donne che per gli uomini, e racchiuda nuove disuguaglianze” (p. 40).
Eccoci dunque all’alternativa conclusiva, che ha evidenti ripercussioni pratiche (sociali e culturali, ma anche politiche e giuridiche). “Da una parte, la parte della dottrina ultraliberale, il consenso dell’individuo è sufficiente a definire la sua libertà: ciascuno è libero di stipulare contratti come più gli piace, senza che le leggi s’impiccino, e senza che esse possano limitarne la forma o la natura” (p. 41). Dall’altra parte, la parte di Montesquieu e dei diritti umani, “le leggi istituiscono la libertà nel nome del bene comune, della giustizia e della protezione dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni essere umano. […] Oggi, l’Europa e la Francia devono scegliere tra la prospettiva di un ‘mercato totale’, a cui nulla dovrebbe sfuggire, e quella di una società preoccupata di instaurare istituzioni giuste” (p. 42).