Claudio Sartea
Claudio Sartea
In isolamento nella sua tenuta abruzzese durante i mesi complicati della pandemia galoppante, Natalino Irti si racconta indotto alla riflessione sui meccanismi psicologici e sociali che sorreggono internamente il diritto ed il suo senso politico, l’obbedienza. Scrive così un compatto saggio sull’obbedienza che ci propone alcune riflessioni meritevoli di attenzione critica.
Il noto civilista italiano non è nuovo a queste incursioni nella teoria del diritto e persino nella filosofia, come sanno coloro che ne seguono le pubblicazioni sin dai tempi della (giustamente celebre) Età della decodificazione (uscita per la prima volta nel 1979). Anche questa volta muove dall’interno di una concezione sostanzialmente positivistica dell’ordinamento, in cui la norma è fatta coincidere con il comando di chi ha il potere di renderne effettiva l’obbedienza (appunto): ma le prospettive alternative, ed in particolare quella che risale a Giuseppe Capograssi, non vengono sottaciute od occultate, bensì criticate apertamente. A parere di Irti, e con specifici riguardo alla teoria dell’esperienza giuridica capograssiana, non sarebbe chiaro soprattutto come dall’azione del soggetto si possa pervenire alla regola oggettiva. Su questa presunta aporia sarebbe poi inderivabile dalla norma il vincolo dell’obbedienza, vale a dire l’effetto soggettivo dell’imposizione oggettiva.
(A ben vedere, sia nella dottrina capograssiana sia nel pensiero di chi l’ha poi sviluppata, ed in particolare Sergio Cotta, la transizione dalla dimensione soggettiva dell’azione, da cui tutto comincia nel mondo esterno che è quello delle relazioni sociali di cui si occupa il diritto, alla dimensione oggettiva della regola comune, avviene attraverso tappe ontofenomenologiche a cui Cotta medesimo ha dedicato pagine definitive in quello che è probabilmente il suo capolavoro giusfilosofico, Il diritto nell’esistenza. Ma è giusto che ognuno faccia il proprio mestiere, ed il prezzo da sostenere per le contaminazioni tra giuristi positivi e filosofi del diritto – contaminazioni sempre feconde se non proprio necessarie – è talvolta anche questo).
Nella concezione adottata e difesa da Irti, che in questo è scrupolosamente fedele al lascito kelseniano, delle norme l’unica dimensione che legittimamente siamo chiamati a verificare è quella della validità: se la norma è (proceduralmente) valida, essa ha tutte le ragioni per pretendere l’obbedienza dei consociati che ne sono i destinatari. Ogni verifica ulteriore, ed in particolare la verifica circa la giustizia (e non solo la cosiddetta, intermedia ed ambigua, “giustezza” di cui parlano alcuni, di solito traducendo espressioni inglesi), resta preclusa qui al sindacato dell’agente: che ogniqualvolta decida di disobbedire alla norma è dunque fuori dall’ordinamento, e dell’ordinamento (cioè dell’ordine che il diritto vorrebbe costruire e presidiare), si fa nemico. Non residua alcun margine per l’obiezione di coscienza, che infatti – occorre dare atto ad Irti di essere del tutto coerente in proposito – viene ridotta ad un elementare (qualcuno direbbe persino banale) contrasto tra legge e coscienza: laddove l’obiezione di coscienza è il tormentato istituto, indubbiamente giusnaturalista, che ipotizza e prende sul serio il contrasto tra due norme giuridiche ed il bivio obbedienziale che la loro incompatibilità spalanca davanti al destinatario simultaneo di entrambe. Non è perché la mia coscienza mi indica di disobbedire alla norma per salvaguardare le sue prerogative (quali, poi?) che come obiettore mi trovo tra due fuochi, bensì proprio perché due norme entrambe vincolanti sono inconciliabili ed io devo scegliere a quale obbedire, che sorge un conflitto nella coscienza dell’agente, la quale alla fine si determina verso l’uno o l’altro corno del dilemma comportamentale. Antigone non contrappose i dettami della propria coscienza ai decreti di Creonte, ma due categorie di leggi che nella fattispecie si mostravano incompatibili, quelle degli dei e quelle degli uomini: e risolutamente optò per le prime, sapendole infallibili, eterne, veritiere.
Non è che ad Irti sfugga del tutto questo punto. A p. 56 in effetti egli scrive del “dovere di controllare la legittimità, formale e sostanziale, dell’ordine [inteso come comando, cioè, kelsenianamente, la norma giuridica secondo Irti], e di non prestarvi obbedienza se questo giudizio si conclude in senso negativo” (mio il corsivo): la posizione potrebbe essere avvicinata persino a quella di Radbruch ed alla celebre formula che ne prende il nome, anzi a ben vedere essa va persino oltre il moderato giusnaturalismo del pensatore tedesco. Purtroppo, all’interno dell’apparato concettuale di Irti non vi è spazio per un approdo alla sostanza (naturale? giusnaturalistica? etica?) della legittimità, a meno che non si stia parlando di una legittimazione politica che ci precipita dalla padella di Kelsen nella brace di Schmitt. Con un’espressione che non si sa se è più salomonica o più dilatoria, Irti conclude la spinosa querelle affermando che “solo la storia sarà giudice dell’urto tra il diritto di oggi e l’impazienza per un diritto di domani” (p. 62). Se vogliamo dare un significato preciso a queste parole, dobbiamo attribuire personalità (e capacità cognitiva, e potere valutativo) alla storia (di che cosa si tratta? Degli uomini della prossima generazione? Di un’entità impersonale e rigorosamente non umana, dunque di nessuno? La domanda equivale a quest’altra: a chi siamo disposti ad assegnare la potestà – e la responsabilità – del giudizio sul diritto, e dunque sulla condotta degli obbedienti e dei disobbedienti? Domanda di non piccolo momento in un libro sull’obbedienza al diritto); dobbiamo poi essere favorevoli alla natura dilemmatica del rapporto tra diritto reale e diritto ideale (altrimenti, non avrebbe senso parlare di un conflitto, di uno iato, addirittura di un “urto”, come dice Irti), ed infine dobbiamo assumere un atteggiamento che difficilmente Irti sarà incline a concederci: quello di chi confida nell’esistenza di un diritto di domani tale da urtare con quello di oggi in modo da suscitare dubbi sulla piena rispettabilità di quest’ultimo. Sempre che Irti, con queste misteriose parole, non voglia semplicemente dirci che l’unica strada per sopportare quest’urto è quella dell’esilio (la diserzione è preclusa per via della sua natura eversiva).
Non se ne esce: nell’orizzonte rigorosamente positivistico è inammissibile difendere o contestare l’obbedienza alle norme giuridiche vigenti, se non come conformità all’ordine costituito, ed allo stesso modo è impossibile criticare o appoggiare la disobbedienza ad esse. L’introduzione del deus ex machina non sembra dunque funzionare: Irti la chiama “scelta dell’inizio” (p. 67), e si tratterebbe di una sorta di opzione fondamentale di obbedire alla legge, in base alla quale diventa poi inammissibile la disobbedienza. La scelta iniziale è considerata fonte non solo di “ordine pace sicurezza” (al cui fondamento vi sarebbe appunto l’obbedienza, sul piano collettivo), ma anche di coerenza con se stessi, e dunque di fedeltà al proprio piano di vita (una nuova maniera di descrivere la rousseauviana circolarità democratica: l’obbedire solo a se stessi? L’ennesima, dunque, impresa disperata, tesa a conciliare l’eteronomia del diritto con la libertà dei singoli, intesa come autonomia?). L’autore evoca persino la Grundnorm, identificata adesso con tale scelta dell’inizio: che è anche l’inizio del “viaggio degli obbedienti” che dà titolo al libro, nonché “l’origine produttiva e dinamica della società” (p. 113). Per spiegarla meglio, Irti osserva che “mentre esigenze di ‘giustizia’ possono spingerci a contestare o rifiutare un intero sistema di norme (e dunque a scegliere un altro principio), il bisogno di ‘giustificazione’ viene soddisfatto all’interno dello stesso ordinamento” (p. 73). La distinzione tra giustizia e giustificazione è interessante ma non viene ulteriormente sviluppata, forse anche perché chi l’ha tentato ha potuto constatare la convergenza tra le istanze della prima e lo schema della seconda (ancora di Cotta potremmo ricordare le stimolanti tesi presentate in Giustificazione e obbligatorietà delle norme, libro chiave del 1981 recentemente e meritoriamente ristampato da un editore romano, e che con denso procedere filosofico propone un’autentica filosofia giuridica dell’obbedienza).
Irti prende anche, e nettamente, le distanze dagli orientamenti che richiamano il senso comune come criterio di giudizio per la giustificazione delle norme (e dunque come fondamento della loro obbligatorietà ed orizzonte di senso dell’obbedienza ad esse): “l’intuizione comune è entità misteriosa e inaccessibile, di cui taluni si dichiarano interpreti, capaci di ascoltare la voce e di tradurla in regole di vita. Qui non c’è sicurezza, ma mutevole soggettivismo. […] Non ordine, ma accendersi e spegnersi di intuizioni. La ‘trama dei giuristi’, proprio divenendo ‘autonoma’, si scioglie da questi arbitrii interpretativi e introduce l’austero rigore dell’oggettività”. Per Irti, par di comprendere, oggettività coincide con formalismo, e formalismo rimanda a competenza tecnica. Scientifico, dunque, è tecnico: ed una giurisprudenza che aspiri all’oggettività (sarebbe la stessa cosa della giustizia? O della giustizia ci siamo liberati nel nome del medesimo tecnicismo degli operatori giuridici?), non può che affidarsi alla forma delle regole, obliterando il contenuto. È passato molto tempo dalla prima apparizione dei Lineamenti di dottrina pure dal diritto, opera geniale per l’epoca in cui apparve e per l’influsso che ebbe su generazioni di giuristi, ma opera datata segnata da una crisi per molti irreversibile del giuspositivismo normativista: è passato molto tempo, ma ancora quella prospettiva ha i suoi sostenitori, ed autorevoli.
Irti dedica l’ultima parte del suo saggio alle “ragioni dell’obbedienza”, che raggruppa sotto diversi stendardi: il conformismo, la paura, lo scambio (l’interesse per un mutuo vantaggio), il legittimismo, la cittadinanza. E conclude con aperture gloriose all’obbedienza per amore ed all’obbedienza per coerenza (e per giuramento). Si tratta più di una tassonomia che di una rimessa in discussione di quanto argomentato nella parte centrale del libro, che abbiamo considerato criticamente sopra. Libro la cui lettura resta comunque raccomandabile, se non altro per affilare riflessioni e spunti che orientano e motivano all’obbedienza (o ad un’intelligente disobbedienza), in tempi in cui lo sgretolamento ufficiale dei riferimenti assiologici nella hegeliana “pappa del cuore” o nel postmoderno nichilismo neutralista e neutralizzante, vorrebbe sottrarre terreno e magari non lasciare scampo alla classica recta ratio