L’opera è composta da tre sezioni: nella prima vi sono i “Fondamenti”, ossia le condizioni su cui si fonda l’esistenza del diritto, come la giustizia, il potere, la morale, la società, la libertà, l’uguaglianza; la seconda sezione analizza le “Strutture”, vale a dire gli elementi intrinseci del diritto, come l’istituzione, la norma, il fatto, il giudizio, il linguaggio, la retorica; nella terza sezione, infine, sono presentati gli “Ambiti”, ovverosia i contesti ove il diritto tende a manifestarsi e svilupparsi, come l’identità, lo spazio, la tecnica, l’economia, la religione, le humanities.

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Dimensioni del diritto, a cura di Alberto Andronico, Tommaso Greco e Fabio Macioce, Giappichelli, 2019

Matteo Marco Pompei

Il volume collettaneo in esame, edito da Giappichelli, è strutturato secondo un interessante paradigma sia di metodo sia di merito. Quanto al primo profilo, i curatori hanno l’ambizioso obiettivo di andare oltre alcune dicotomie che sembrano irriducibili nel panorama filosofico giuridico, come quella tra “analitici” e “continentali” o tra “giusnaturalisti” e “giuspositivisti”. Dalla lettura del libro si percepisce, infatti, l’alacre sforzo che è stato compiuto per sintetizzare – nel senso etimologico del termine – la realtà giuridica alla luce delle diverse prospettive teoretiche, analitiche o storiche. Con riferimento al merito, invece, il lavoro è volto a ricostruire il fenomeno giuridico in tutta la ricchezza e la complessità delle sue molteplici dimensioni costitutive. Più precisamente, il filo conduttore che sembra unire tutti i contributi dei diversi autori è la convinzione che il diritto non sia un ente autonomo e irrelato, ma che si compenetri di tutte le varie dimensioni costitutive che gravitano intorno ad esso, come il potere, il linguaggio, finanche la religione.
L’opera è composta da tre sezioni: nella prima vi sono i “Fondamenti”, ossia le condizioni su cui si fonda l’esistenza del diritto, come la giustizia, il potere, la morale, la società, la libertà, l’uguaglianza; la seconda sezione analizza le “Strutture”, vale a dire gli elementi intrinseci del diritto, come l’istituzione, la norma, il fatto, il giudizio, il linguaggio, la retorica; nella terza sezione, infine, sono presentati gli “Ambiti”, ovverosia i contesti ove il diritto tende a manifestarsi e svilupparsi, come l’identità, lo spazio, la tecnica, l’economia, la religione, le humanities. Ogni capitolo del libro – ancorché realizzato da giuristi con formazioni, visioni teoriche e sensibilità filosofico-giuridiche differenti – muove da una ricostruzione storica, un’analisi dogmatica e concettuale, uno studio delle principali teorie che animano ogni singola questione e, infine, una tematizzazione delle criticità contingenti che caratterizzano ciascuna dimensione del diritto.
Per ragioni di spazio editoriale, non è possibile analizzare compiutamente nella presente scheda i diciotto contributi che compongono il libro in commento. Al fine di non rischiare di compiere una disamina semplicistica di lavori che, invece, meritano un’analisi più approfondita, ci si limiterà a proporre i tratti salienti dei contributi dei tre curatori del volume.
La prima questione, che è anche la prima in ordine cronologico trattata nel testo, riguarda il tema della giustizia, nella convinzione che il bisogno di giustizia sia un fatto storico e sociale imperituro e incontestabile, ma soprattutto che non si possa comprendere lo sviluppo dei sistemi giuridici obliterando il tema della giustizia. Al riguardo, l’autore sottolinea acutamente come non solo non debba essere accantonato il tema della giustizia, ma anche – anzi soprattutto – come non debba essere espunto dal pensiero giuridico il rapporto tra diritto e giustizia.
In una prospettiva storica, vengono esaminate le tre macro-epoche in cui si è forgiato il tema della giustizia. La prima è l’epoca classica, ove la giustizia viene considerata come un principio oggettivo, tanto morale quanto cosmico, in opposizione al caos, all’irrazionalità e quindi, giustappunto, all’ingiustizia. Proprio l’idea di giustizia come armonia tra ordine naturale, ordine sociale e ordine morale dà impulso alla tematizzazione della giustizia nel panorama occidentale, che trae scaturigine dal pensiero di Platone e di Aristotele. E proprio grazie allo Stagirita la traduzione della giustizia in armonia, ragione e ordine compie un’importante evoluzione riuscendo ad essere considerata come virtù: la giustizia perde, quindi, il suo carattere di principio, di Lògos astratto e vira risolutamente verso la concretezza della vita reale e dell’individuo. Da ciò discende il ragionamento di Aristotele circa le diverse tipologie di giustizia, da quella commutativa a quella distributiva. La seconda epoca storica che viene esaminata è quella medievale, nella quale si mantiene l’idea di un ordine oggettivo, esterno all’individuo, ma viene completata con la presenza di un Dio creatore a cui l’uomo è subordinato. In tale cornice si sviluppa la dicotomia tra volontaristi e razionalisti, con il prezioso contributo filosofico-giuridico di illustri studiosi del calibro di Sant’Agostino e San Tommaso. Merita un cenno, infine, un importante disallineamento che nasce proprio in epoca medievale e avrà grandi ripercussioni teoretiche nell’alveo filosofico: lo iato tra il concetto di giustizia e il concetto di bene morale. In altri termini, mentre nell’epoca classica la giustizia e il bene sostanzialmente coincidevano, nell’epoca cristiana- medievale (ancorché vi siano fecondi semi nel pensiero aristotelico) il concetto di bene supera quello di giustizia ed è proprio per questo che è possibile considerare giusto l’inferno, ma non il paradiso che è invece integrato dal bene della misericordia divina. La terza epoca relativa al mondo moderno si differenzia nettamente dalle due succitate, giacché si incammina decisamente in un sentiero individualistico, razionalistico e secolarista, anche sulla scorta della nascita di molteplici entità politiche autonome. In buona sostanza, viene obliterato il concetto di giustizia come principio sovraordinato all’uomo, ad appannaggio dell’individuo stesso che diviene il perno a partire dal quale viene riconosciuto l’ordinamento sociale e giuridico. In tale paradigma, l’idea stessa di giustizia è costruita a partire dal soggetto, in quanto essere razionale e capace di compiere delle scelte: la ragione e la volontà divina vengono dunque disarcionate dalla ragione e dalla volontà dei singoli individui.
Nel novero delle caratteristiche della giustizia, tra le più ricorrenti e significative va sicuramente segnalata quella della relazionalità. La giustizia, infatti, a differenza del bene morale, è valutata in rapporto all’azione (o all’omissione) umana, sicché sottende quasi sempre la coercibilità delle azioni ad essa conformi. Tra le varie prospettive della giustizia, inoltre, è possibile proporre una tematizzazione in tre macro-aree: (i) quelle formali, che investono solo le precondizioni – giammai le conseguenze – affinché i rapporti sociali possano essere giusti; (ii) quelle sostanziali, che hanno come obiettivo quello di garantire la fruibilità effettiva e concreta dei diritti in capo ai soggetti ai quali sono attribuiti; (iii) quelle procedurali, ove la procedura che venga considerata giusta possa trasferire il suo valore all’esito della sua applicazione concreta.
Il tema che forse ha un più alto valore filosofico-giuridico è nondimeno il rapporto tra giustizia e diritto, allorché intendiamo inquadrare la giustizia come stretta legalità oppure come conformità ad un ordine di valori meta-positivi che si stagliano come criterio di giustificazione o fondamento del diritto stesso. Da ciò ne discende la classica dicotomia tra i giuspositivisti, incentrati sulla validità ed efficacia del diritto secondo criteri intra- giuridici, e i giusnaturalisti, secondo cui la giustizia vada valutata secondo canoni metagiuridici, quindi esterni al perimetro del diritto stesso. Nel volume in commento, tuttavia, è stato felicemente notato come accanto ai due modelli “classici” succitati stia crescendo un modello “intermedio” che scaturisce dal processo di costituzionalizzazione di quasi tutte le nazioni. Nella gran parte degli ordinamenti, infatti, vi sono dei principi che operano come vincoli e criteri sostanziali alla produzione legislativa, sicché una legge, oltre ad essere valida perché posta conformemente ai criteri formali stabiliti, è altresì valida in quanto coerente con i parametri sostanziali imposti dalle costituzioni al potere legislativo. A questo punto l’autore pone un interrogativo fondamentale: se il criterio della giustizia e quello della validità di una norma siano solo distinti o anche indipendenti tra loro. Il quesito offre risposte originali anche alla luce dell’orientamento neo- costituzionalista di filosofi del diritto come Dworkin o Alexy. Quest’ultimo, in particolare, offre interessanti spunti considerando le costituzioni nazionali come contenitori tanto di validità quanto di giustizia dell’ordinamento, dal momento che nessun ordinamento potrebbe sbandierare la giuridicità e la validità delle proprie norme qualora non postulasse la giustizia dei propri principi fondamentali. In verità questa autorevole affermazione spesso viene contestata sulla base della considerazione che l’incorporazione dei valori nel diritto non implichi automaticamente che le leggi si fondino su valori morali, giacché i principi costituzionali, una volta positivizzati, divengono essi stessi norme giuridiche. Il tema è assai vasto e denso di spunti di riflessioni, come suggerisce il rapporto tra giustizia ed equità, finalizzato alla capacità del diritto di risolvere una questione concreta. E’ possibile, infatti, che una norma valida sia percepita come ingiusta, o comunque inidonea a risolvere un caso concreto, sicché si pone anche il problema dell’obbedienza a una legge ingiusta, che tormenta la sensibilità dei giuristi sin dai tempi di Antigone. Il rischio di scongiurare il c.d. abuso del diritto, inteso come iato tra il valore della giustizia e quello della certezza del diritto, può essere contemperato dalla facoltà di disobbedire ad una legge ingiusta “oltre un certo grado”, bilanciando l’effettiva giustizia del caso concreto con la conservazione dell’ordine della coesistenza civile.
Le ultime due riflessioni protese sul futuro della giustizia investono (i) la “giustizia di transizione”, allorché l’esigenza di punire secondo le leggi i colpevoli di crimini efferati debba essere contemperata con la necessità di pacificazione della società e di rafforzamento della coesione sociale; (ii) la “giustizia globale”, che invece muove dalla presa di coscienza di non poter limitare le questioni legate alla giustizia nei soli contesti locali o nazionali, ponendo l’accento sul carattere necessariamente universale delle istanze di giustizia.
Un’altra dimensione che è correlata al diritto è sicuramente quella del potere, tanto da indurre due grandi teorici del diritto come Bobbio e Ross a ritenere che “diritto e potere sono due facce della stessa medaglia”. Medaglia che può oscillare verso la tendenza del potere ad assorbire il diritto o verso il tentativo del diritto di controllare il potere. Se consideriamo, invero, il potere come la capacità di condizionare il comportamento altrui e di ottenere obbedienza, possiamo affermare che solo grazie all’azione regolatrice del diritto il potere si spoglia della mera forza – o addirittura violenza – per essere incanalato verso una regola. Tale assunto muove dalla tradizione giuridica occidentale, ove già nella civiltà ellenica il diritto determina il superamento del principio della forza, tracciando il sentiero per la civilizzazione del potere. Per dirla con Aristotele, il diritto permette che il potere governativo possa essere esercitato mediante “ragione senza passione”, costituendo inoltre il discrimen tra le forme di governo virtuose e quelle corrotte. Anche durante l’epoca romana il diritto caratterizza l’esercizio del potere, addirittura con una interazione ancora più fitta rispetto al periodo greco, sebbene anche i Romani ritengano che il diritto (ius) sia irriducibile a mera forza, possedendo autonoma dignità e determinazione.
Quanto alla fondazione del potere, alcune riflessioni si intrecciano inevitabilmente con quanto summenzionato in tema di giustizia soprattutto con riferimento al diritto naturale. Sia consentito precisare, al riguardo, che il diritto naturale nel corso della storia sarà spesso utilizzato come argine verso ogni deriva che postuli una superiorità del potere sul diritto. Il diritto naturale, infatti, essendo fondato- almeno in linea di principio – sulla ragione, è sempre indipendente da qualsiasi volontà umana, sicché quanto più le caratteristiche del diritto si identifichino nella volontà di un soggetto tanto più esso verrà fagocitato nella sfera del potere. Diverso, invece, l’approdo cui giunge il giusnaturalismo moderno secondo cui il potere debba fondarsi e trovare la sua giustificazione nei diritti dei singoli individui, uniche dighe che permettono al potere di non sfociare nell’arbitrio. Con l’inizio del diciannovesimo secolo, tuttavia, parallelamente al superamento del diritto naturale – ancorché declinato in chiave moderna – si fa largo un’idea imperativistica secondo la quale il diritto è un atto d’imperio, un comando, che in taluni casi si riduce a strumento della volontà sovrana o addirittura a mera tecnica sociale. Nel volume, invero, viene ampiamente colta la complessità della questione, perché se è corretto ritenere che con l’incalzare del positivismo il diritto è spesso subordinato al potere politico, è altrettanto vero che il medesimo potere spesso venga intrecciato in una serie di vincoli giuridici che ne impediscono una deriva totalitaria. Sempre con riguardo all’interrelazione tra diritto e potere, particolare menzione merita la nomodinamica di Kelsen che evidenzia come nessuna norma possa ritenersi valida senza un potere che la postuli, come nessun potere possa considerarsi tale senza una norma che lo legittimi alla produzione legislativa. In questo quadro vi è un continuo e reciproco intreccio tra diritto e potere fino alla famigerata Norma Fondamentale di Kelsen, che arriva a ritenere il diritto come un’organizzazione della forza. Ma se nella prospettiva kelseniana il diritto scaturisce sempre da altro diritto, nel paradigma dell’altro massimo filosofo del diritto del Novecento – Carl Schmitt – il diritto scaturisce da un atto con cui il potere afferma se stesso, spostando così l’accento dalla legalità alla legittimità. In questo panorama, dunque, il diritto viene ridotto a mero strumento per il raggiungimento dei fini del potere che sovente – nei regimi totalitari novecenteschi – si identifica nello Stato. Siffatta concezione strumentale del diritto è stata superata solo grazie alle costituzioni del secondo dopoguerra, tese ad obliterare il “potere costituente” ad appannaggio di un sistema di principi e valori di cui la medesima costituzione si fa garante o, addirittura, promotrice.
Il paragrafo getta le basi per ulteriori riflessioni circa la proiezione nel futuro del rapporto tra diritto e potere, che trovano riscontro pratico proprio nell’epoca – anzi oserei dire nell’anno solare – attuale. Tra le varie considerazioni, sono evidenziate le criticità di una eccessiva giuridicizzazione della vita sociale, che rischia di concentrare troppo potere negli organi giudiziari o la gestione dello stato di eccezione. In questo quadro emergono con sempre maggiore irruenza (i) poteri di soggetti sovranazionali che non sembrano essere più mitigabili dagli stati moderni, (ii) nonché una crescente evoluzione degli studi scientifico-tecnologici, spesso difficilmente controllabili dalle disposizioni legislative, tanto da paventare il rischio di scenari distopici.
L’ultimo tema che affrontiamo riguarda il rapporto tra diritto e libertà e, al riguardo, è opportuno sgombrare subito il campo da ogni possibile equivoco: la libertà non coincide con l’indipendenza, nella misura in cui ciascuno possa fare ciò che vuole, ma deve sempre legarsi al concetto di misura, di regola o di legge. Ciò è stato mirabilmente colto già dai Greci quando ritengono che la libertà non si traduca nel fare arbitrariamente ciò che si vuole, bensì nell’agire coerentemente alle proprie virtù e alle proprie capacità. In buona sostanza, la libertà dipende dalla conoscenza di se stessi e non dal proprio arbitrio. Il concetto classico di libertà, dunque, è sempre coordinato con l’appartenenza a una famiglia o a una stirpe, perché solo nella comunità o nell’essere insieme ad atri si può essere davvero liberi. Al netto, però, di quanto sostengono i Romani riguardo alla soggezione al dominio di un altro uomo, giacché nessuno può ritenersi libero in presenza di un rapporto di dipendenza personale come nel caso della schiavitù.
Il contributo più significativo in ordine alla libertà è però quello fornito dal Cristianesimo, allorché afferma che tutti gli uomini nascono liberi. Tale assunto, invero, deve essere declinato in chiave teologica, perché solo davanti a Dio gli uomini possono considerarsi liberi e uguali cosicché possano vivere non secondo il proprio arbitrio ma secondo la volontà di Dio. L’autore del paragrafo in esame riesce poi ad evidenziare le importanti differenze – ancora più significative per quanto riguarderà le ripercussioni religiose e culturali sulle popolazioni occidentali ancora oggi – tra (i) l’impostazione pelagiana, incentrata sul compimento delle buone opere, (ii) quella cattolica perlopiù di stampo agostiniano, secondo cui la salvezza è garantita dalla fede e non dalle opere, (iii) sino alla deriva luterana che dipinge l’uomo come irrimediabilmente corrotto, attribuendo alla sola fede la possibilità di accedere alla grazia divina per salvarsi. Proprio dalla riforma protestante nasce probabilmente il concetto negativo di libertà, che viene confinata nella sfera interiore dell’uomo, permettendo così all’ordine politico – inteso comunque come longa manus della volontà divina – di sottomettere l’uomo alla legge. Da tale prospettiva muove la visione pessimistica moderna di Hobbes, che considera l’indole dell’uomo come incessantemente assetata di potere. In tale cornice il concetto di libertà è traducibile come assenza di impedimenti esterni, così da consentire all’uomo di fare ciò che desidera. Ne consegue che la condizione originaria dell’uomo sia di disordine, sicché la libertà debba essere ceduta allo Stato al fine di ottenere la pace sociale: in buona sostanza, la libertà diventa l’antitesi della legge (tant’è che ancora oggi troviamo retaggi di tale mentalità in molte popolazioni che se non hanno una regola che stabilisca un divieto, si ritiene di avere la libertà di agire a propria discrezione). Tale paradigma è parzialmente mitigato dal contributo di Locke, il quale introduce il rispetto dei diritti soggettivi – finanche diritti umani – accanto al rispetto acritico delle leggi dello Stato, sul presupposto che ogni uomo sarebbe titolare di alcuni diritti già nello “stato di natura” in cui nasce.
Nel prosieguo del capitolo vengono offerti interessanti spunti di riflessione con riguardo al rapporto tra libertà e legge, dalla prospettiva liberale a quella repubblicana, sottolineando anche alcune contraddizioni di taluni paradigmi. Particolare attenzione viene dedicata al contratto sociale, che si sostanzia nella cessione della propria libertà ad appannaggio della sicurezza sociale, secondo la prospettiva hobbesiana, mentre secondo Rousseau la libertà personale viene ceduta a vantaggio della comunità e, dunque, della libertà civile. Da ciò ne conseguirebbe che libertà e legge non costituirebbero un ossimoro ma un’endiadi, poiché la libertà non si configurerebbe come una mera indipendenza ma avrebbe i crismi dell’autonomia. Sul punto, nel testo vengono ben sottolineate alcune incongruenze nel rapporto tra le diverse concezioni di libertà, autonomia e volontà generale. Un cenno merita anche il libero arbitrio kantiano che è tale se determinato dalla ragione anziché dall’impulso. Secondo Kant la libertà non può essere dimostrata empiricamente perché è la condizione della legge morale che ogni uomo conosce, tanto da manifestarsi nella facoltà della ragion pura di determinare l’arbitrio. Da qui la dicotomia tra leggi etiche e leggi giuridiche, che può essere finanche ricondotta alla distinzione secondo cui l’etica guarda all’agente mentre il diritto guarda all’azione, ma non può scalfire la convinzione che tanto le leggi etiche quanto le leggi giuridiche appartengano alle leggi della libertà. Il capitolo termina con la considerazione che, ad oggi, la libertà non sia considerata più una questione pubblica ma sia relegata alla sfera privata. In un’epoca come quella del neo-liberismo in cui il paradigma economico sembra diventato l’unica narrazione possibile, viene cancellato lo scarto tra volere e dovere, svuotando così il concetto di legge dall’interno. L’auspicio è che sia proprio il diritto a riuscire a risemantizzare il concetto di libertà.
In una sintetica conclusione, si ritiene opportuno sottolineare la felice intuizione dei curatori del volume, che son riusciti a porre l’accento sul fatto che il diritto non vada soltanto affiancato grammaticalmente da una congiunzione agli altri fenomeni (diritto e giustizia, diritto e libertà), ma, essendo una scienza umana, possa essere considerato consustanziale ad altri aspetti che caratterizzano l’humanum: si può affermare, dunque, che il diritto è giustizia, tanto quanto esso è norma o è potere. Merito va attribuito a tutti gli autori che hanno offerto una cornice logica entro cui son riusciti a far convivere in modo organico le diverse sensibilità giuridiche dei diversi studiosi.