C. Gentile, La nazionalizzazione di Palazzo Venezia del 1916. Cronaca di un’acquisizione e della reazione della Santa Sede, Aracne editrice, Roma 2019, 297 pp.
Maurizio Martinelli
La monografia che qui si recensisce, è ricostruzione storico-giuridica, che dal presupposto di un evento minore come quello della nazionalizzazione del Palazzo Venezia, avvenuta nel corso della Grande Guerra, tende a restituire il clima generale dei rapporti istituzionali tra la Santa Sede e lo Stato unitario italiano. Affrontare tali presupposti metodologici, porterebbe a pensare ad lavoro di approfondimento, che ricalca temi ampiamente approfonditi e studiati dalla storiografia. In realtà, nell’impianto storico-giuridico della ricerca, si possono rilevare delle coordinate che determinano l’originalità della monografia. Un primo elemento su cui riflettere, è un dato storico istituzionale incontrovertibile, almeno per il periodo preso in esame, il fatto che la Santa Sede si configura come potenza morale, il cui operato non è disconosciuto dai governi secolari. Un ulteriore elemento, specie sul piano dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano, è rappresentato dal nesso inscindibile tra la presenza e l’attività internazionale della Santa Sede e la ‘nazionalità’ della questione romana. Tale legame nasceva dagli avvenimenti del 1870, e si era rafforzato con l’emanazione unilaterale della Legge delle guarentigie del 13 maggio 1871. In realtà, questo passaggio problematico, sarebbe stato definitivamente superato, solo con le garanzie predisposte con la Conciliazione, nel 1929. In sostanza la riaffermazione da parte della Santa Sede, in modo giuridicamente ineccepibile, della propria sovranità e indipendenza, anche sul piano internazionale, di fronte allo Stato liberale, costituisce il motivo principale che ci porta a guardare alla ricerca condotta dall’Autore, con un certo interesse.
L’opera ricostruttiva della protesta vaticana del 1916, di fronte alla confisca, sequestro e successiva nazionalizzazione della sede diplomatica austriaca presso la Santa Sede, attuata dal governo italiano, è incentrata su una fonte documentaria, rinvenuta nell’Archivio Apostolico Vaticano, e riportata in appendice al volume. Lo scritto, in origine un articolo per ‘La Civiltà Cattolica’, predisposto dal gesuita padre Enrico Rosa, in realtà strutturato sulle indicazioni fornite dal Cardinale Gasparri, faceva seguito alle ‘doglianze’ di Benedetto XV, per quanto era accaduto. L’articolata memoria, a carattere giuridico, predisposta dal padre Rosa, vedeva la luce in un contesto istituzionale ed ecclesiologico ben definito. Il fine principale, come si evince dal titolo dell’opuscolo, era quello di porre il luce la centralità delle prerogative apprestate dal diritto internazionale all’attività dell’agente diplomatico (come il caso dell’immunità e dell’extraterritorialità della missione) che si coordinano con l’esercizio del diritto di legazione, nativo e proprio del Pontefice. Il venir meno dello Stato Pontificio e l’occupazione di Roma del 1870, erano eventi che non avevano minimamente intaccato, anche sul piano internazionale, la centralità, l’autonomia e l’indipendenza organizzativa della Santa Sede, ma, al contrario ne avevano favorito, sul finire del secolo, l’accoglimento delle istanze internazionali. Non solo la Sede Apostolica non cessava di esercitare il diritto di legazione attivo e passivo, ma continuava a stipulare convenzioni bilaterali, unitamente ad una rilevante attività di mediazione e arbitrato a livello internazionale. L’evento della Grande Guerra, nell’ambito dell’azione apostolica e dell’attività diplomatica, aveva rafforzato la stessa sovranità ecclesiale ad extra, nel senso della piena titolarità di diritti, facoltà e obblighi, sanciti dalle norme internazionali. In tal modo, la testimonianza attiva della Santa Sede, si qualificava in quanto garanzia suprema degli interessi religiosi della comunità universale dei fedeli, attraverso il libero, effettivo e ininterrotto esercizio del diritto di legazione da parte del Pontefice, anche con il ricorso agli strumenti convenzionali. A questo punto, possiamo cogliere un elemento centrale, nell’impianto della monografia, vale a dire la volontà di far emergere la ragione ispiratrice del memorandum redatto dal padre Rosa. Appare chiara la delimitazione del tema, quando si vuole determinare «esattamente l’oggetto della protesta pontificia» (p.148). Infatti, non ci troviamo di fronte ad un pamphlet polemico, semplice risposta ad una querelle legata alla lesione di norme internazionali, ma, abbiamo un documento organico, che ricalca specifiche ragioni giuridiche e pastorali. In questo senso l’opuscolo risponde, sia nella forma che nella sostanza, al modello delle istruzioni ai Vicari Apostolici in Asia, redatte alla metà del XVII secolo dal primo segretario di Propaganda Fide, divenute, in seguito, prassi usuale del governo delle missioni. In effetti lo strumento dell’istruzione o comunque di qualsiasi memoria programmatica, si pone in relazione diretta al momento istituzionale della dinamica diplomatica, nell’effettivo coordinamento della Chiesa con le realtà secolari. Il caso dell’esercizio del governo missionario, sembra abbia anticipato, attraverso i protocolli vicariali, certe soluzioni fornite in età contemporanea, alle controversie insorte tra la Chiesa e il potere secolare. Allo stesso modo, le indicazioni formulate dal padre Rosa, non costituiscono una risposta concreta alla decisione politica dello Stato italiano, ma rappresentano un utile strumentario giuridico e diplomatico, in forma di piccolo trattato, in cui viene richiamata anche la dottrina. Il testo definitivo, inviato dal Segretario di Stato ai Nunzi apostolici, efficace ricostruzione dell’identità giuridico-amministrativa della Santa Sede, dopo un excursus storico sulla storia del Palazzo Venezia, si sofferma su temi cruciali come quello della extraterritorialità, delle prerogative degli agenti diplomatici, della loro immunità personale e locale. Tutto questo per dimostrare che il fondamento giuridico della protesta pontificia, è da porre in relazione alla necessaria sussistenza del diritto nativo di legazione della Santa Sede, a fronte del formale riconoscimento disposto dall’art.11 della Legge delle guarentigie. Il nucleo centrale del documento è il diritto di legazione della Santa Sede «ossia il diritto alla rappresentanza estera, sia attiva che passiva, con tutte le prerogative e immunità riconosciute dal diritto internazionale ai Rappresentanti diplomatici delle Nazioni» e, si rileva «se un tale diritto si negasse alla Santa Sede, evidentemente, la protesta di cui si tratta mancherebbe di qualsiasi fondamento» (p.182).
La configurazione teorica, dei rapporti tra le due potestà sovrane e autonome, a cui si rifà la concezione del padre Rosa, è in linea con il presupposto oggettivo del dualismo cristiano, così come era stato elaborato dalla scienza del diritto pubblico ecclesiastico esterno. L’intervento predisposto dal redattore della Civiltà Cattolica, desta interesse, poiché nella ricostruzione giuridica metodologica, non solo vengono riassunte le istanze dogmatiche del diritto pubblico ecclesiastico esterno, ma ci si apre a presupposti che, avrebbero costituito l’impianto della lezione romaniana del pluralismo ordinamentale. Del resto, sotto questo aspetto, la visione del padre Rosa, è debitrice a due coordinate ecclesiologiche. Da un lato vengono richiamati gli apporti del magistero di Pio IX, circa la concezione universalistica della Chiesa, tertium genus rispetto ai conflitti e alle guerre. Dall’altro si tiene conto degli effetti del sinergico dualismo bilanciato, intravisti da Leone XIII, in un’ottica che precorre la parità tra ordinamenti primari, in una rappresentazione della comunità degli Stati che si rifà ai presupposti della societas populorum. Non a caso il comportamento seguito da Gasparri rispetto ai fatti della nazionalizzazione del Palazzo Venezia, riprende l’articolata visione leoniana sulla separazione delle competenze tra Stato e Chiesa e gli effetti di quest’ultima sul diritto internazionale, inserendosi in un percorso evolutivo più generale e di lungo periodo che aveva riguardato il farsi della sovranità ecclesiale. In tale ambito la Santa Sede, soggetto giuridico nella comunità degli Stati, tralasciava, anche se non in modo definitivo, l’esercizio della funzione mediatrice tra i governi secolari.
L’intento era quello di approdare ad una soggettività giuridica internazionale rinnovata, che verrà definitivamente sancita nel Trattato con lo Stato italiano del 1929. Era evidente, dal punto di vista storico, la volontà della Santa Sede, durante e dopo il primo conflitto mondiale, tesa a riaffermare la propria (a volte contestata) sovranità e capacità di agire pleno iure, in quanto soggetto giuridico pienamente attivo nell’agire apostolico e in quello diplomatico, sia nella dimensione internazionale che in quella inter-individuale. Tutto questo, riferito al primo ventennio del Novecento, non faceva che rafforzare l’immagine e l’autorità morale della Santa Sede, organo centrale della Chiesa cattolica, in quanto ordinamento sovrano e indipendente. In questo senso, la ricerca storica condotta dall’Autore, ci fornisce ulteriori elementi, per cogliere pienamente il significato giuridico-diplomatico della risposta elaborata dalla Santa Sede, di fronte al comportamento dello Stato italiano. Questo non solo in ossequio al richiamato principio ne impediatur legatio, ma allo stesso tempo per riflettere sull’evoluzione che stava interessando, tra il XIX e il XX secolo, il ruolo specifico della Chiesa nella politica internazionale e nel progressivo ampliamento delle relazioni con la comunità degli Stati.