Si pubblica di seguito un appunto relativo alla inammissibilità del referendum abrogativo promosso dal Comitato Promotore “Eutanasia legale” in data 20 aprile 22 e annunciato nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 95 del 21 aprile 2021, sull’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p., concernente l’omicidio del consenziente. Su di esso si è pronunciato l’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di Cassazione con due ordinanze del 30 novembre e del 16 dicembre 2021. 

Tale appunto è stato redatto per contribuire alla formulazione della memoria con la quale l’Unione Giuristi Cattolici Italiani e l’Associazione Scienza&Vita si sono costituite, con separati ma identici atti,  nel procedimento innanzi la Corte Costituzionale, relativo all’ammissibilità del referendum con la richiesta di essere ascoltate nella Camera di Consiglio del 15 febbraio 2022. 

Le circostanze relative alla redazione dell’appunto ed i tempi stretti nei quali esso è stato elaborato danno ragione del tono particolarmente polemico di alcuni passaggi e dello scarso approfondimento della giurisprudenza della Corte Costituzionale. 

Va precisato, con soddisfazione, che nelle more della pubblicazione di questo appunto, la Corte Costituzionale si è pronunciata in data 15 febbraio 2022 per la inammissibilità del referendum in questione. 

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Damiano Nocilla

Direttore

Occorre preliminarmente soffermarsi sull’equivoco ( se non proprio sull’inganno), che ha viziato la raccolta delle firme ( in numero certamente molto inferiore a quello propagandato dai promotori e  sbandierato dai mezzi di comunicazione di massa) e che vizia tutt’ora la presentazione del quesito e vizierà in futuro l’intera campagna referendaria. 

La proposta di consultazione popolare non si propone di intervenire sull’eutanasia, legittimandola, ma depenalizza sostanzialmente l’omicidio del consenziente, fatte salve alcune vicende tassativamente elencate, in cui il consenso deve considerarsi invalido ( consenso espresso da un minore o incapace di intendere e di volere o manifestato in seguito a minaccia, inganno, violenza). 

In altri termini, quelle che erano quattro distinte fattispecie di reato: e cioè l’omicidio, l’omicidio del consenziente, l’aiuto al suicidio e l’istigazione al suicidio (per il reato di lesioni il consenso della persona offesa dal reato non esclude il reato stesso in forza dell’art. 5 cod. civ.) verrebbero a ridursi, con la nuova disciplina, a tre: l’omicidio, l’aiuto al suicidio, l’istigazione al suicidio, mentre l’omicidio del consenziente non potrebbe più costituire un fatto penalmente rilevante, a meno che il consenso debba giuridicamente considerarsi inesistente, nel qual caso la fattispecie rientrerebbe, però, nel reato di omicidio. Il semplice omicidio del consenziente, quindi, diventerebbe tutt’al più un fatto moralmente condannabile, ma non più un  comportamento umano che, a giudizio del legislatore, contrasta con i fini dello Stato e con lo svolgimento di una corretta vita di relazione, esigendo pertanto come sanzione “una pena (criminale)” (Antolisei). 

La conseguenza di ciò sarebbe che l’omicidio del consenziente (fatte salve le ipotesi tassative di consenso estorto o espresso da minore o persona incapace, rientranti invece nel reato di omicidio) non sarebbe penalmente sanzionato in una serie di vicende che vanno ben al di là dell’eutanasia così come generalmente definita. Quest’ultima, infatti, implica uno stato di sofferenza della vittima (pietatis causa), l’assistenza medico-sanitaria e l’uso di mezzi indolori per determinarne la morte, mentre, legittimando l’omicidio del consenziente, si finirebbe per ammettere ipotesi omicide addirittura ripugnanti: spettacoli che prevedano, con l’incondizionato e ampio consenso dei partecipanti, la morte certa di uno o più di essi; la vendita del proprio corpo per consentire al trapianto dei propri organi dietro compenso alla famiglia della vittima, che vivrebbe altrimenti in condizioni di miseria; la scommessa sulla propria vita; disposizioni relative alla propria incolumità in caso di incidente sul lavoro; la c.d. eutanasia quando fosse attuata con mezzi cruenti o violenti; etc

Attraverso l’affermazione del diritto di porre fine alla propria vita e della relativa libertà si attuerebbe un regresso della civiltà di molti secoli. Quando a questo proposito si cita un suggestivo scritto di Seneca, si dimentica che quest’ultimo si esprimeva in un’epoca, in cui la vita non aveva il valore, che oggi le viene universalmente riconosciuto, e si aveva una sensibilità verso la crudeltà di gran lunga inferiore a quella odierna. 

Dell’assurdità delle conseguenze si rendono conto alcuni dei sostenitori del referendum in questione e, per evitare di incorrervi, ricorrono ad argomentazioni che lasciano invero perplessi. 

La prima risibile argomentazione è che, nell’interpretare la normativa di risulta dal ritaglio operato dal referendum, si dovrebbe tener conto di tutta la campagna a sostegno della richiesta referendaria, che sarebbe stata (in modo menzognero, si potrebbe aggiungere!) costruita sulla legittimazione dell’eutanasia (Donini). Forse la lettura di un manuale elementare di teoria dell’interpretazione avrebbe dovuto insegnare che la c.d. teoria dell’interpretazione basata sulla volontà soggettiva del legislatore è ormai ampiamente e da più di un secolo superata dalla dottrina italiana e straniera  (cfr. Betti, Antolisei, etc). Inoltre non va dimenticato che molti di quanti hanno appoggiato la richiesta di referendum, lo hannno fatto anche e soprattutto per affermare l’esistenza di un diritto soggettivo di ogni individuo, di scegliere se, come e quando morire (Padovani), intendendo con ciò superare “ la non punibilità (anche dell’aiuto al suicidio, andrebbe aggiunto!) quale apparente concessione” per affermare, invece, “un vero diritto civile” (Donini). 

L’altro argomento, invece, merita che si spenda qualche parola in più. Esso consiste nel ritenere che il campo referendario sia limitato dalla conservazione dell’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio), in ordine al quale la Corte Costituzionale ha consentito (con sent. 242/2019) che esso debba essere considerato non punibile in presenza delle quattro condizioni individuate dalla Corte stessa. 

Anche questo argomento è tuttavia privo di fondamento per le ragioni che seguono: 

Gli artt. 579 e 580 c.p. prevedono due ipotesi di reato distinte e separate e nulla dice che facciano tra loro sistema, tanto è vero che molti ordinamenti, che in certo qual senso tendono a legittimare l’eutanasia, mantengono l’omicidio del consenziente come ipotesi di reato (Olanda, Germania, Portogallo, Michigan, etc.).

Se fosse vero che i due articoli del codice penale costituiscono sistema,  non si capirebbe perché mai debbano essere le limitazioni, stabilite dalla Corte perché il suicidio assistito sia dichiarato non punibile, a circoscrivere la nuova formulazione dell’art. 579 c.p. sull’omicidio del consenziente, e non piuttosto la sopravvenuta, libera possibilità di uccidere il consenziente a travolgere i limiti posti dalla Corte sull’ammissibilità dell’aiuto al suicidio. E che quest’ultimo sia l’esito sperato dai promotori è testimoniato dal fatto che si afferma (Donini) che vero fondamento “culturale” della richiesta referendaria è il riconoscimento del diritto a  morire e la disponibilità del diritto alla vita (Padovani) e che il vero intento dei promotori è quello di travolgere gli argini imposti dalla Corte con sent. 242/2019, giudicata risalente ad una prospettiva angusta (Padovani). 

Del resto, dopo aver sostenuto che “la indiscutibile connessione funzionale e teleologica tra la fattispecie dell’aiuto al suicidio e quella dell’omicidio del consenziente dovrebbe anzi imporre l’estenzione analogica della scusante introdotta nell’art 580 c.p. anche all’art. 579 c.p…”, si aggiunge, con evidente contraddizione, che “ se l’art 579 c.p. venisse parzialmente abrogato nei termini proposti il problema non riguarderebbe affatto la sopravvenienza del testo modificato, quanto, semmai, la sopravvivenza stessa dell’art. 580 c.p.” 

Ma, se fosse vero quanto scrive l’illustre penalista da ultimo citato, ci troveremmo di fronte a una situazione di totale incertezza normativa: o ritenere che le limitazioni volute dalla Corte all’aiuto al suicidio si estendono alla nuova disciplina dell’art 579 c.p., oppure concludere che le cautele volute dalla Corte sull’aiuto al suicidio in difesa della vita debbano essere disapplicate per irragionevolezza rispetto al ben più ampio e dirompente principio introdotto dal referendum. Tutto ciò con buona pace del principio di legalità delle pene (art. 25, comma 3, Cost.)! Le considerazioni appena svolte dimostrano, invece, che la distinzione tra omicidio assistito e omicidio del consenziente è nei fatti e che frutto di ipocrisia è proprio la posizione di chi, come Zagrebelsky, vuole strumentalmente fare di tutt’erba un fascio. 

1. Se sono vere le considerazioni più sopra esposte, è anche vero che il referendum in questione mira in realtà a rendere irrilevanti le cautele chieste dalla Corte per il suicidio assistito nella sentenza 242/2019, dovendo paradossalmente domandarsi se sia possibile, a questo punto, sottoporre a referendum quanto sancito da una sentenza interpretativa della Corte Costituzionale.

2. A conferma dell’indubbia incertezza normativa che si determinerebbe in caso di esito positivo del referendum in questione, va ricordato che la nuova formulazione dell’art. 579 c.p.  (la quale peraltro manterrebbe la rubrica, che suona ancora “omicidio  del consenziente” ) e l’affermazione di un diritto di disporre della propria vita implicherebbero un’esenzione dal reato di omissione di soccorso di cui all’art. 593, secondo comma, c.p., per chi dovesse assistere inerte e passivo al suicidio altrui (non si capirebbe, infatti, perché lo Stato sia tenuto a non contrastare l’omicidio del consenziente, impedendo l’attuazione della sua libera volontà, mentre il privato cittadino o il pubblico ufficiale debba essere punito per non aver impedito l’attuazione della volontà suicida di un altro soggetto) e che sono gli stessi fautori della richiesta referendaria a ritenere che “ una volta che il consenso abbia assunto un ruolo scriminante in una materia così delicata, quale quella del diritto alla vita, la sua prestazione e la prova della sua piena e persistente validità non possono ragionevolmente prescindere da una disciplina legale consentanea all’importanza delle scelte da assumere (Padovani). In conclusione non vi sono ragioni per sostenere che il referendum in questione riguardi l’eutanasia, in quanto esso riguarda esclusivamente l’omicidio del consenziente: ipotesi quel’ultima ben più ampia della semplice eutanasia, che a sua volta, da un lato, richiede il ricorrere di ben altre condizioni (pietatis causa, procedure medicalmente assistite e indolori) e, dall’altro, può anche prescindere al limite dal consenso della vittima (si ricordi il tentativo nazista di contrabbandare per eutanasia la camera a gas per i portatori di gravi handicap). Questa lunga premessa era necessaria per illustrare le ragioni di inammissibilità del referendum in questione e per poter controbattere – pur ricorrendo alla ripetizione di taluni concetti  – le argomentazioni che sono state avanzate per affermare che quelle ragioni non sussisterebbero. 

II

Il referendum sarebbe inammissibile perché la disciplina, che risulterebbe dalla disposizione referendariamente modificata, sarebbe priva di indicazioni circa la regolamentazione di forme e tempi per la prestazione del consenso all’azione omicida da parte della vittima. É necessario un consenso esplicito o sarà sufficiente un consenso presunto? Basterà che la vittima abbia espresso un consenso generico, oppure occorrerà un consenso puntuale? Ed in qual momento questo consenso dovrà essere espresso: nell’immediatezza dell’azione omicida, oppure sarà sufficiente allo scopo una manifestazione di volontà anche risalente nel tempo? 

In senso contrario alla sussistenza di queste cause di inammissibilità sono state avanzate due considerazioni: si è detto, infatti, che la disciplina di tempi e modi per il consenso andrebbe ricercata nella scarsa giurisprudenza formatasi in ordine alla sussistenza del consenso stesso per l’applicazione dell’art. 579 c.p. nella formulazione esistente prima del referendum, dimenticando però, che tale giurisprudenza (particolarmente restrittiva) si è sviluppata all’interno di un sistema che in modo assoluto, non prevedeva la disponibilità della propria vita, mentre il referendum in oggetto mira ad introdurre – a detta dei suoi sostenitori – esattamente l’inverso principio della piena disponibilità della vita da parte del singolo individuo. Onde quei criteri elaborati in un contesto giuridico-culturale del tutto diverso perderebbero, nello stesso momento in cui nella consultazione dovessero prevalere i “sì”, ogni attualità.

La seconda considerazione, della cui inconsistenza ci si è già dati carico, riguarda la supposta estensibilità dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sent. 242/2019, in ordine alla manifestazione della volontà di metter fine alla propria vita nell’ipotesi di aiuto al suicidio. Ma questa estensibilità non soltanto appare assai dubbia, trattandosi di fattispecie del tutto diverse e di dare efficacia normativa generale a principi che emergono dalla motivazione di una sentenza della Corte Costituzionale di accoglimento in parte qua, relativamente ad altra disposizione del codice penale, che prevede un reato sostanzialmente diverso. 

Non è casuale che anche sostenitori dell’ammissibilità del referendum (Pugiotto) escludono un trasferimento delle limistazioni previste per l’aiuto al suicidio alla nuova formulazione dell’art. 579 c.p., perché altrimenti il referendum assumerebbe un signifcato di mera attuazione della sentenza n. 242/2019; il che sarebbe da escludere. Come si è visto, è proprio l’inverso procedimento interpretativo quello cui puntano i promotori: quello, cioè, per cui dovrebbe essere l’affermazione della libera disponibilità della propria vita a condizionare lo sfondamento dei confini posti dalla Corte Costituzionale alla non punibilità dell’aiuto al suicidio.

Non sembra dubbio, che il ritaglio dell’art. 579 c.p. operato dal referendum lascerebbe un vuoto normativo, che sarebbe tollerabile soltanto ipotizzando un’ampia discrezionalità del giudice in ordine alla configurazione del reato, discrezionalità che appare assolutamente inimmaginabile nel diritto penale, senza violare il principio della legalità delle pene e la riserva di legge in materia penale. 

                             

                                                                                    III

A parte le suddette lacune legislative risultanti dalla nuova disposizione dell’art. 579 c.p., va sottolineato che l’ambiguità e l’incertezza della normativa di risulta ridonda certamente in una causa di inammissibilità del referendum in questione. 

Se, come si è messo in rilievo, il giudice ordinario si troverà, in caso di abrogazione parziale dell’art. 579 c.p., di fronte al bivio se interpretare tale abrogazione come se fosse limitata dalle condizioni espresse nella motivazione della sent. 242/2019 della Corte Costituzionale o intendere, piuttosto, tali condizioni travolte dal voto popolare; questa alternativa radicale – si diceva – avrà una portata tale da contrastare con il ridotto ambito di discrezionalità, che la Costituzione vuole sia lasciato al giudice penale e soprattutto lascerebbe indeterminato il fine intrinseco della richiesta abrogativa (C. Cost. sent. n. 29/1987 e n. 6/1995).

In altri termini, la decisione del giudice ordinario se imboccare l’una o l’altra strada, si risolverà in una decisione che dovrà superare la riserva della previa legge in campo penale: la legge penale cioè, la farà il giudice caso per caso, ora decidendo che le condizioni richieste dalla Corte per la non punibilità dell’aiuto al suicidio non abbiano più alcuna ragion d’essere, ora, invece, ritenendo che il consenso necessario, perché l’omicidio del consenziente non costituisca reato, debba sottostare alla condizioni di cui alla predetta sentenza n. 242/2019. 

Tale incertezza si risolve – lo si voglia o no –  in una vera e propria lacuna nella disciplina sia dell’omicidio del consenziente che del suicidio assistito e – come si vedrà – di altre ipotesi di reato. Tale lacuna non potrebbe essere colmata che da un successivo intervento del legislatore, le cui statuizioni dovrebbero esser poi sottoposte al vaglio di costituzionalità della Corte. Medio tempore (cioè tra l’esito del referendum, l’intervento del legislatore e l’eventuale sentenza della Corte) si vivrebbe nella più totale incertezza. 

                                                                             

                                                                                  IV

Alla luce di una giurisprudenza della Corte risalente al 1981, assai criticata (Luciani) e non esente da qualche ripensamento (sent. n. 28/1987), potrebbe postularsi l’inammissibilità del referendum in questione, in quanto esso non investe tutte le disposizioni che dovrebbero contestualmente esser corrette in seguito al parziale intervento ablatorio sull’art. 579 c.p. 

Infatti, se si ritiene che tale abrogazione significhi l’affermazione del principio della libera disponibilità della propria vita, il quesito dovrebbe estendersi all’art. 5 cod. civ., che proibisce gli atti di disposizione del proprio corpo, dai quali possa derivare “una diminuzione permanente dell’integrità fisica”, visto che la morte costituisce evento paradigmatico di tale evenienza. 

Oltre che ad estendersi alla disposizione civilistica, la parziale abrogazione dell’art. 579 c.p implica – se non si vuole dar vita a una legislazione incoerente – l’abrogazione anche dell’art. 580 (sull’aiuto al suicidio), mentre, invece, tale abrogazione non è stata indicata nel quesito referendario. 

In altri termini, stando alla su accennata giurisprudenza della Corte il quesito referendario mancherebbe di omogeneità, mancando di coerenza-completezza. 

V

Altra ragione di inammissibilità è data dal fatto che il quesito referendario, dopo le correzioni apportate – respingendo le richieste dei promotori – dall’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione con ordinanza del 16 dicembre 2021, risulta solo formalmente chiaro, mancando ad esso quella chiarezza sostanziale data dalla convergenza del fine perseguito dai promotori con l’effetto derivante dal ritaglio dell’art. 579 c.p. Tale effetto – si è detto – è dato dalla non punibilità dell’omicidio del consenziente, fatte salve le ipotesi di consenso invalido tassativamente elencate nella nuova disposizione. 

Il fine dichiarato dai proponenti può ricavarsi dallo stesso sito dell’Associazione “Luca Coscioni”, che recita “il referendum vuole abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale in Italia. L’omicidio del consenziente, previsto dall’art. 579 c.p. infatti non è altro che un reato speciale (rispetto a quello di portata generale di cui all’art. 575 c.p. sull’omicidio), inserito nell’ordinamento per punire l’eutanasia. Con questo intervento referendario l’eutanasia attiva, previa valutazione del giudice in sede processuale, potrà essere consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato ed il testamento biologico, ed in presenza dei requisiti introdotti dalla sentenza della Consulta sul “caso Cappato”, ma rimarrà punita se il fatto è commesso contro una persona incapace o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni. Dunque l’esito abrogativo del referendum farebbe venire meno il divieto assoluto di eutanasia e la consentirebbe limitatamente alle forme previste dalla legge 219/2018 in materia di consenso informato”. 

A parte l’evidente errore di ritenere che il codice Rocco abbia costituito un arretramento rispetto al Codice Zanardelli, mentre è vero esattamente il contrario, perché il Codice Zanardelli equiparava l’omicidio del consenziente tout court all’omicidio in senso proprio, l’evidente iato tra effetti indicati dai promotori e quelli realmente prodotti dalla parziale abrogazione dell’art 579 c.p. e la non coincidenza tra forma e sostanza del referendum, tra la sua dimensione oggettiva e quella soggettiva, grava il referendum in questione di una carica di ambiguità ed induce a ritenere che gli effetti del referendum –  come già implicitamente rilevato dall’Ufficio centrale della Cassazione – eccedono le finalità postesi e dichiarate dai promotori. 

Ora, la Corte Costituzionale già nella sent. n. 1/1995 e nella sent. n. 30/1997 ha dichiarato inammissibili quelle richieste referendarie, i cui effetti eccedano quelli che i promotori si sono proposti e hanno esplicitamente dichiarato. Analogamente si sono espresse le sentenze n. 39 e 40 dello stesso 1997 e, più di recente, la sent. n. 43/2000. 

Del resto, al fine di determinare l’oggetto del referendum, dovrebbe ritenersi irrilevante e priva di giuridico rilievo la finalità politica, che implicitamente i promotori si sarebbero proposti, e cioè quella di introdurre nel nostro ordinamento il principio della disponibilità della vita (Luciani). 

VI

Posto che l’intenzione dei promotori si limiti alla mera legalizzazione della eutanasia attiva, la nuova disposizione dell’art. 579 c.p. verrebbe ad inserirsi in un sistema normativo assolutamente eterogeneo rispetto alla disposizione stessa. Infatti, mentre il sistema derivante dagli artt. 575, 580, 582, 593 c.p. e dall’art. 5 cod. civ., parte dall’idea che sia compito della Repubblica scongiurare il pericolo, che coloro che decidono di porre in atto il gesto, estremo ed irreversibile, del suicidio, subiscano interferenze di ogni genere, nonché dall’idea che il suicidio stesso assume – lo si voglia o no – un rilievo sociale, la nuova formulazione dell’art. 579 c.p. risulterebbe assolutamente disomogenea rispetto alla ratio sottesa al sistema complessivo delineato dalle altre  disposizioni. Onde tale incoerenza di fondo esigerebbe, inevitabilmente, un intervento del potere legislativo che ridesse alla stessa nuova disposizione dell’art. 579 c.p. coerenza  con il sistema delineato dai codici, dal quale i promotori, invece,  sembrano apparentemente di non volersi discostare, anche se, poi, affermano un diritto soggettivo alla morte in tutta la sua carica dirompente. 

VII

Ma anche se si volesse ritenere che lo scopo oggettivo del referendum non sia quello dichiarato dai promotori, di legittimare, cioè, l’eutanasia, ma invece, quello di affermare la sussistenza di un diritto del cittadino di decidere se, quando e come morire (va sottolineata in questa sede la parola “come”), non soltanto si determinerebbe un’incompletezza della normativa di risulta, ma ancora una volta una sua incoerenza. 

Soffermiamoci in questa sede sulle lacune di disciplina dell’omicidio del consenziente, che in qualche modo  determinerebbero, nel tempo che dovrebbe trascorrere tra l’esito del referendum e l’eventuale intervento legislativo, una sorta di terra di nessuno, in cui tutto ciò che avviene in questo settore dovrebbe essere penalmente lecito: dall’indiscriminata vendita e commercio di organi ai cd. mortal kombat. 

Si dice che, in fondo, il referendum affermerebbe la sussistenza di un diritto soggettivo che non avrebbe bisogno di ulteriori disposizioni per poter essere esercitato: i limiti discenderebbero dallo stesso concetto di “consenso”, perché, ad esempio, il consenso alla propria uccisione di una persona sana nel corpo e nella mente sarebbe irragionevole e quindi nullo: una sorta – si direbbe – di diritto razionale che determina una nullità al di là del diritto positivo.

Ma il consenso in ogni caso ci sarebbe ed il giudice penale, che deve attenersi alle fattispecie di reato così come descritte dalle norme di legge, non potrebbe non tenerne conto a favore dell’omicida, che abbia invocato il consenso della vittima: in dubio pro reo!

Qualcuno ha addirittura ritenuto che in questo caso il referendum comporterebbe la votazione in ordine ad un principio generale, all’affermazione del quale dovrebbe seguire una normativa che disciplini l’esercizio del diritto affermato e sancito con il voto popolare. Si paragona perciò, questa votazione a quelle relative al  divorzio e all’aborto, dimenticando, però, che in questi due casi si trattava di un procedimento assolutamente inverso, in quanto i contrari ai due istituti chiedevano l’abrogazione della normativa che li regolava, introdotta dal Parlamento, e non proponevano, come si fa con il referendum in questione l’introduzione di un principio sinora assolutamente estraneo alla tradizione giuridica di questo paese.

L’affermazione di un diritto al di là della regolamentazione dei suoi limiti e delle condizioni che ne regolano l’esercizio, si risolve o in un’affermazione politica di principio (cioè in una norma programmatica avente, sì, in qualche modo effetti precettivi, ma ben più limitati di una norma pienamente precettiva) o nella prescrizione di un diritto assoluto e illimitato, con tutte le conseguenze contrarie a ogni senso di civiltà ripetutamente messe in evidenza. 

Si incorre, perciò, in un’altra ipotesi d’inammissibilità del referendum già per tempo indicata dalla Corte Costituzionale (sent. n. 16/1978): e cioè l’uso di un referendum abrogativo che manca della propria sostanza per assumere quella di referendum propositivo (v. sent. n. 36/1997; n. 50/2000; n.10/2020). 

VIII

Altro e diverso problema è quello riguardante il fatto che la normativa di risulta, presa nel suo tenore letterale, contrasterebbe con il diritto alla vita previsto e tutelato dalla Costituzione, così come tale diritto è stato sinora interpretato dalla Corte Costituzionale. 

Quest’ultima, in alcune sentenze (da ultimo la sent. 242/2019, ma v. prima già la sent. 35/1997), ha affermato la necessità della  tutela di interessi ritenuti fondamentali dalla Costituzione e tra questi ha annoverato il diritto alla vita, riconducendo tale diritto all’art. 2 Cost., e , quindi, annoverandolo tra i diritti inviolabili. 

Con ciò ha (neppure troppo implicitamente) ammesso il rilievo sociale di tutti gli eventi, che in un modo o nell’altro investono la questione della vita umana. Mettere quest’ultima nella piena disponibilità dell’individuo significherebbe dimenticare che proprio l’art. 2, tutelando la vita, finisce per affermare che tale tutela rientra tra “ i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale” . 

Bollare alcune espressioni della sent. 242/2019 come “enfasi aggiunta” (Padovani), allorché essa afferma –  proseguendo nel suo dire, che esclude che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio sia di per se’ in contrasto con la Costituzione – che “alla luce del vigente quadro costituzionale” può scorgersi la necessaria “ tutela della diritto alla vita, soprattutto delle persone più fragili e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile come quella del suicidio”, aggiungendo che vi è uno scopo, “di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo ed irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere” (anche di carattere economico, si potrebbe dire!); oppure sottolinea che, vietando condotte che spianino la strada al suicidio si adempie al “compito della Repubblica di porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimuovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2, Cost.)”; bollare queste espressioni come puramente enfatiche – si diceva – appare veramente irrispettoso ed esagerato.  

La Corte ha affermato con chiarezza che dall’art. 2 Cost. (così come dall’art. 2 CEDU e – si dovrebbe aggiungere – dagli artt. 2, 3 e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) “discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo : non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi l’aiuto a morire”. 

Ad avviso della Corte (e della Corte europea dei diritti dell’uomo) non esiste un diritto costituzionalmente protetto di rinunciare a vivere (ordinanza 207/2018). 

Da queste chiare affermazioni, che configurano come valore esplicitato in un principio costituzionale, quello della tutela della vita, discende l’evidente incostituzionalità della normativa di risulta conseguente al taglio referendario, sembrando un mero artificio logico quello di chi (Pugiotto) sostiene che l’abrogazione dell’art. 579 c.p., per il solo fatto di esser parziale e di mantenere la punizione per omicidio puro e semplice di chi abbia ucciso in una delle circostanze, in cui il consenso sarebbe invalido, renderebbe il nuovo art. 579 c.p. conforme a Costituzione.  

Si dimentica, ragionando in quest’ultimo modo, l’ampiezza che è suscettibile di assumere l’omicidio del consenziente e le conseguenze gravide di sviluppi, che da tale ampiezza derivano, e che fanno orrore ad ogni persona civile. 

Si è consapevoli che la Corte ha ripetutamente distinto tra giudizio di ammissibilità del referendum e giudizio di costituzionalità della normativa di risulta, escludendo che nella prima sede possano venire in questione profili attinenti alla valutazione della conformità a Costituzione della normativa seguente al taglio referendario. Ma in questo caso il nuovo articolo 579 c.p. violerebbe in modo talmente evidente diverse disposizioni, che costituiscono parametro del giudizio di costituzionalità, da giustificare l’eccezionale intervento della Corte diretto ad evitare farraginose e pericolose lungaggini nell’assestamento di una normativa che dovrebbe operare un adeguato bilanciamento tra valori: quello del diritto alla vita e quello del rispetto della soggettiva volontà del suicida.

IX

Fonti del diritto di rango primario sono – fra l’altro – nel nostro ordinamento:

1) la legislazione, che costituisce atto di esercizio di una funzione normativa in senso, per così dire, positivo; 

2) le decisioni della Corte Costituzionale in sede di sindacato di costituzionalità delle leggi, che sarebbero         secondo la definizione kelseniana atti di esercizio di funzione legislativa in senso negativo: 

3) il referendum abrogativo, anch’esso atto di legislazione solo ablativa. 

Tuttavia, mentre i primi due atti (legge e sentenze di accoglimento della Corte) sono chiamati ad operare  un bilanciamento tra i valori costituzionali (anzi, la Corte potrà anche a valutare l’operato del legislatore ordinario), il terzo  non è in grado di pervenire a tale bilanciamento, data la sua natura esclusivamente ablativa di disposizioni, mentre la Corte – attraverso il sindacato sulla ragionevolezza della legislazione e lo strumento delle sentenze parziali e interpretative – incide su norme, non limitandosi al mero ritaglio delle sole disposizioni, ed è in grado di imporre anche un proprio bilanciamento di valori costituzionali.

Il referendum in questione,  soprattutto se interpretato nel senso più radicale voluto da alcuni suoi sostenitori, opererebbe non nel senso di un bilanciamento di valori, ma in quello della soppressione di un valore (quello della tutela della vita), schiacciandolo su quello del più radicale individualismo. 

Salvo poi ad adombrare, però, l’ipotesi che il bilanciamento dovrebbe essere operato, in un incerto futuro, dal legislatore (cioè dal Parlamento). 

X

La verità è che non si è voluto seguire la strada maestra, per operare adeguatamente il bilanciamento tra valori costituzionali: e cioè quella di sollevare o, meglio, di far sollevare, questione di costituzionalità in parte qua delle disposizione dell’art. 579 c.p. 

Provocando lo scrutinio di costituzionalità di tale disposizione si sarebbe consentito alla Corte Costituzionale – pur nell’inerzia del Parlamento – di procedere al bilanciamento tra i valori indicati ed all’armonizzazione della propria pronuncia con il complesso della normativa scaturente dal codice penale e dal codice civile (il che la Corte avrebbe ben potuto fare utilizzando lo strumento dell’art. 27 legge n. 87/1953). Non si è voluto perseguire questa strada maestra, né si è voluto lasciare al Parlamento il tempo di ponderare,  assimilandoli, i diversi aspetti del problema per pervenire ad una normazione adeguata e correttamente formulata. 

In definitiva, non si è voluto alcun bilanciamento di valori costituzionali  ( ammesso e non concesso che sussista un valore costituzionale nel disporre a piacimento della propria vita, e non piuttosto un valore di dignità della vita che debba realizzarsi ed essere difeso anche al momento della morte) e si è voluto inammissibilmente travolgere con una pronuncia referendaria una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 242/2019), che si era incamminata sulla strada del bilanciamento di valori. 

Se il vero oggetto della richiesta referendaria è quello testé indicato, non pare ci possano esser dubbi sull’inammissibilità del referendum in questione. 

XI 

É evidente che ogni argomento pro o contro l’ammissibilità del referendum può essere discusso, poiché nessun argomento preso singolarmente può apparire, per  chi si ponga su uno dei due fronti avversi, decisivo in un senso o nell’altro. Quello che è certo, però, è che le due posizioni, nella loro radicalità, esprimono valori che rivendicano protezione. 

Ma il problema è che occorre guardare alle cose nel loro insieme. E se si vuole essere oggettivi, occorre riconoscere che il complesso dei dubbi avanzati sull’ammissibilità di questo referendum assume un peso tale da consigliare e giustificare – anche agli occhi di coloro che sostengono un diritto di scegliere se, quando e come morire – una pronuncia della Corte di inammissibilità della consultazione popolare. 

Non a caso anche autori, inclini a giustificare l’ammissibilità del referendum in questione (Romboli), hanno finito per argomentare che “solo circoscrivendo adeguatamente le ipotesi di eutanasia medicalmente riconosciuta si possono soddisfare i requisiti di certezza, tenendo in conto il dovere di protezione della persona umana e salvaguardando, però, il nucleo di autonomia inerente alla dignità di ogni persona” e – “ricordando le ipotesi in cui la Corte ha dichiarato inammissibili le richieste referendarie non perché contrarie ad alcuno dei limiti espressi o impliciti…, ma perché gli scopi percepiti avrebbero richiesto più complesse operazioni di trasformazioni dell’assetto legislativo, che attraverso l’istituto referendario non si potevano attuare” (sent. n. 35 e n. 50 del 2000) – hanno concluso che “questa motivazione, unitamente all’assenza di una tutela minima del diritto alla vita,……… sembra rappresentare il più serio ostacolo all’ammissibilità” di questa consultazione popolare.