Secolarismo e diritto penale. La deriva del diritto penale nell’età post-secolare
Vincenzo Vitale
1. Prima di sviluppare il tema che mi è stato assegnato sul diritto penale nell’età secolare, appare necessario muovere da alcune premesse prodromiche allo scopo di delineare in modo rapido la cornice culturale e teoretica all’interno della quale inscrivere ed interpretare le proposte di lettura che avanzerò.
Chiedendo perciò venia per queste necessarie messe a punto preliminari, ne assicuro la rapidità.
2. Si dice età “secolare”, ma forse dovrebbe dirsi, con maggior correttezza dovuta all’adesione al dato storico e sociologico, età “post-secolare”.
Infatti, è frutto di un’osservazione anche sommaria notare come ormai da diversi anni la temperie culturale sembri aver definitivamente superato i confini all’interno dei quali tradizionalmente veniva individuato il processo di secolarizzazione nelle più accreditate lezioni sul tema.
Quella tradizione non poteva ignorare come, pur mancando alla lingua latina un termine aggettivale come quello normalmente oggi adoperato – appunto, secolare – essa ben conosceva e utilizzava invece il correlato sostantivo, secolo – ancorché nel senso generico e tuttavia pregnante di tempo della storia, di contesto specifico legato a circostanze date e come tali identificabili e circoscritte – almeno a partire da Cicerone, il quale, nelle Filippiche, formulate contro Marco Antonio, si preoccupa di chiarire, con un’immagine non priva di risonanze poetiche, che Servio Sulpicio disprezzava “l’insolenza del tempo “ ( seaculi insolentiam ) .
E tuttavia appare chiaro come in questa sede non sia per nulla possibile soffermarsi ad esaminare le varie teorizzazioni che nel corso degli ultimi secoli – quelli successivi alla pace di Vestfalia del 1648, la quale, come è noto, inaugurò la valenza semanticamente giuridica della secolarizzazione – hanno pensato in vario modo il fenomeno qui considerato.
Mi limito perciò a ricordare come probabilmente sia a partire da Kant che la secolarizzazione ha assunto la sua fisionomia teorica poi tramandata nel pensiero dei secoli successivi.
Intendo alludere qui non tanto e non solo al notissimo scritto che si pone lo scopo di rispondere alla domanda circa la reale consistenza dell’illuminismo, ove il filosofo di Konigsberg annota parole ormai celebri: “ Ho posto il punto principale dell’illuminismo, l’illuminismo dell’uscita dell’uomo dalla minorità di cui ha colpa egli stesso, soprattutto in cose di religione…” .
Ma a far comprendere fino in fondo come il principio della secolarizzazione vada individuato nel superamento della fede storicamente intesa – propria della religione rivelata – a favore della fede basata soltanto sulla ragione, è un altro testo di Kant, parimenti celebre : “ …la fede storica ( basata sulla rivelazione, come esperienza ), ha validità particolare, cioè solo per coloro ai quali è giunta la storia su cui essa si appoggia;…La fede storica allora può bastare, sì, per la fede di chiesa ( di cui si possono avere molte forme); ma solo la fede religiosa pura, interamente fondata sulla ragione, può essere riconosciuta come necessaria e, per conseguenza, come la sola che caratterizzi la chiesa vera” .
Come si vede, Kant ci permette di affermare che la secolarizzazione consiste nella liberazione della ragione umana dall’ipoteca della religione storicamente determinata e perciò nella fondazione della fede universale di quella che il filosofo chiama la vera chiesa, cioè l’umanità nel suo complesso.
Questo, dunque, lo statuto che potrei definire benefico della secolarizzazione, utilizzando uno schema concettuale di Hermann Lubbe , in quanto essa conferisce valore al mondo in quanto tale, proprio perché è in linea di principio profano, vale a dire fuori dal recinto sacro del tempio, secondo l’etimo del termine: fuori sì, ma comunque davanti allo stesso.
Se il principio della secolarizzazione – sia pure declinato in varie forme e concettualizzazioni – assegna infatti al mondo un valore intrinseco, non per questo costruisce fra sacro e profano un muro invalicabile, ma, al contrario, propizia la necessità di un continuo e salutare confronto.
La riprova di quanto affermato si ha proprio sul versante religioso, che qui intendo brevemente richiamare esclusivamente per il pregnante significato filosofico che possiede, ben al di qua di quello strettamente teologico.
Da un lato, è quasi obbligatorio citare il notissimo passo evangelico “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Ma amo molto ricordare anche un altro passo, forse meno conosciuto, di sicuro meno frequentato e certo molto significativo da questo punto di vista, in cui Gesù, per arginare il tentativo di irretirlo in questioni giuridiche puramente mondane, lapidariamente risponde : “ E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto ? “
In questi casi, e in diversi altri che qui ovviamente si omettono, è addirittura la seconda persona della Trinità a raccomandare con particolare perentorietà e forza che i problemi del mondo vanno risolti attraverso gli strumenti messi a disposizione dell’uomo dal mondo medesimo.
Insomma, filosoficamente, è l’elemento divino per definizione che valorizza quello mondano come dotato di un suo senso specifico che all’uomo spetta individuare e interpretare in tutto il compendio delle sue implicazioni.
Da questo punto di vista, il momento senza dubbio più alto in cui pare dispiegarsi il principio della secolarizzazione così intesa – cioè quale imprescindibile dialettica sacro/profano – è quello della incarnazione del Logos, ancora una volta considerata in chiave strettamente filosofica: e ciò fonda, detto per inciso, il cristianesimo come fatto storico e non come mera espressione di carattere spirituale.
Due aspetti complementari credo vadano qui evidenziati.
Per un verso, va infatti notato che se il mondo in quanto tale non fosse da prendere sul serio, perché dotato di un valore intrinseco che si tratta di cogliere e far fruttare, l’incarnazione non avrebbe senso alcuno, in quanto sarebbe stata destinata ad incidere su una realtà alla quale soltanto essa medesima avrebbe potuto attribuire un ruolo.
In un mondo del tutto insensato, l’incarnazione si sarebbe limitata a sovrapporre a quel mondo il proprio senso totalizzante: il mondo ne sarebbe rimasto oscurato, perfino paralizzato, perché la incommensurabile libertà divina avrebbe come schiacciato quella umana.
Per altro verso, va rilevato che ad incarnarsi è il Logos ( si pensi all’incipit del Vangelo di Giovanni) e non un’altra persona fra quelle divine. Non credo sia un caso se l’inserzione del divino nell’umano sia opera di quella dimensione discorsiva che di questo è una sorta di cifra costitutiva. Come dire, insomma, che l’incarnazione, sollecitando, fra l’altro, l’attivazione di quella capacità razionale propriamente umana, destinata ad essere utilizzata per comprendere ed interpretare il mondo, col mondo entra in una sintonia tanto misteriosa quanto efficiente .
Illuminanti, in proposito, le parole di Ratzinger : “ E’ un evento immane quello per cui Dio si fa davvero uomo. Quello per cui Dio non veste i panni di un uomo, non recita solo un ruolo per un certo periodo della storia umana ma si fa davvero tale – e crea, con le sue braccia divaricate inchiodate alla croce, uno spazio aperto in cui noi possiamo entrare” .
Teologicamente, è infatti la chenosis a permettere e garantire la secolarizzazione: “l’incarnazione costituisce il modello supremo di qualsiasi secolarizzazione” .
La conclusione di questo discorso preliminare è dunque abbastanza chiara: la secolarizzazione, lungi dal porsi, da un lato, come ostacolo effettivo e fastidioso nei confronti di una visione religiosa del mondo o, dall’altro, dal depauperare l’uomo delle sue capacità razionali, costituisce un nuovo ed impensabile “spazio aperto”, un fecondo elemento di confronto costitutivo del cristianesimo e che sollecita e propizia – del mondo umano – la valorizzazione e la messa in opera delle sue migliori e più efficienti capacità ( razionali, fabbrili, sociali ) : nell’ambito della secolarizzazione, il mondo ha senso, ma anche il sacro ha senso. Debbono dialettizzarsi.
3. Detto questo, bisogna però aggiungere che non si può dimenticare o sottovalutare la lezione di Friedrich Gogarten e di tutti coloro che, con lui e dopo di lui, hanno sottolineato come – storicamente – la secolarizzazione, quale fenomeno culturale, sia degenerata nella sua sterile controfigura, il secolarismo.
Qui basti ricordare – per intenderne la portata storica e filosofica – le sagaci considerazioni svolte in modo assai efficace da due eminenti studiosi che sono stati – non a caso – a lungo e con grande prestigio Presidenti della nostra Unione: Francesco D’Agostino e Giuseppe Dalla Torre.
Il primo rileva come il secolarismo sia costituito dalla “pretesa di costruire una filosofia intenzionalmente indifferente alla dimensione del religioso ( quindi dominata dal principio: etsi Deus non daretur )” .
Il secondo aggiunge che “se il diritto di libertà religiosa è (…) prodotto della secolarizzazione, la sua eclisse è frutto del secolarismo” .
Come dire insomma che mentre nell’ambito della secolarizzazione il mondo è dotato di un senso oggettivo che l’uomo è chiamato a scoprire ed interpretare – ma sempre all’interno della dialettica con il senso del sacro – invece nell’ambito del secolarismo, ogni riferimento al sacro scompare senza residui.
Nell’ottica del secolarismo, il mondo ha un senso e non c’è altro senso se non quello del mondo: ciò che è fuori del mondo è per definizione insensato.
Inoltre, come era fatale accadesse, lo spazio lasciato vuoto dal sacro – espulso in modo radicale – è stato presto occupato, per una sorta di horror vacui di taglio culturale, da diverse mitologie che si costituiscono in forma parareligiosa.
A notarlo è stato, fra gli altri, in modo molto persuasivo, George Steiner, il quale ha individuato almeno tre forme di mitologia sostitutiva della religione che il secolarismo ha propiziato: il marxismo, la psicoanalisi, l’antropologia culturale .
Esse costituiscono, per Steiner, tre forme di religione laica che, prendendo il posto del cristianesimo e dimostrando “l’inadeguatezza dell’illuminismo e della ragione laica” , hanno proposto – quasi scimmiottandolo – culti, riti, fedi, aspetti tutti sui quali evito accuratamente di soffermarmi.
Tuttavia, oggi mi pare si possa affermare con una buona dose di credibilità come già da alcuni anni il clima culturale sia in buona parte mutato, aprendo la strada ad una fase storica nuova e diversa, che appunto può forse essere definita post-secolare.
Non si tratta qui di dar seguito ad una sorta di moda lessical-concettuale, quella che individua nel post-qualcosa ( post-moderno, post-illuminista, post-metafisico, ecc. ) i tratti caratteristici di un nuovo segmento storico e culturale al quale assegnare i contorni opportunamente deformati di quello che lo abbia preceduto.
Si tratta invece di prendere atto di come in effetti sia possibile ravvisare, se non una frattura, quanto meno una linea di discontinuità con il modello della precedente fase storica – il secolarismo – da un punto di vista fondamentale.
Infatti, mentre il secolarismo – per restare fedeli alla lettura di Steiner – esibiva comunque un surrogato dell’istanza religiosa, coagulandolo intorno ad un elemento unitario ed immediatamente riconoscibile – rispettivamente, l’ideologia (il marxismo), la psiche (la psicoanalisi), la cultura ( l’antropologia culturale) – invece l’età post-secolare si mostra priva di qualunque elemento unificatore, acefala, policentrica, priva di qualunque senso unitario e perciò levatrice di forme di potere tanto inafferrabile quanto pericoloso.
Non si tratta di una differenza di poco conto o da sottovalutare.
Si pensi per esempio alla tecnologia e alle pervasive e tentacolari colonizzazioni da essa e tramite essa poste in opera. Dalle articolazioni biologiche della ricerca, alla mutazione genetica, alle utilizzazioni informatiche a quelle militari, è tutto un ventaglio tendenzialmente infinito che conduce, attraverso adeguati condizionamenti della sfera politica, alla tecnocrazia.
Oppure si pensi all’ecologia, che esibendo oggi i suoi celebranti, i suoi riti, i suoi interdetti, insomma un vero armamentario sociale post-religioso, conduce al completo predominio dell’ambiente, fideisticamente inteso, sulle istanze proprie dell’uomo: l’uomo per l’ambiente e non l’ambiente per l’uomo, in virtù di una compiuta e temibile ecocrazia.
O, ancora, al globalismo economico di stampo neoliberista che, negando ogni differenza sociale o semplicemente personale, investe selvaggiamente il mondo umano, asservendolo al dominio assoluto di impenetrabili fondi di investimento e di accumulo capitalistico, anonimi ed irraggiungibili, che conducono ad una autentica e mondialista plutocrazia.
Sono tutte espressioni anonime e ambivalenti, per mezzo delle quali la tecnica, l’ambiente, il denaro, in modo spesso antitetico e, appunto, policentrico giungono a forme di dominio planetario difficilmente controllabili.
Ecco dunque lo specifico dell’età post-secolare: non più l’espulsione del sacro, surrogato da mitologie sostitutive – come il secolarismo ancora permetteva – bensì la sua definitiva soppressione senza alcuna surrogazione.
Il sacro – per usare una terminologia calcistica – sia pure espulso, non si trova più a bordo campo, in attesa di rientrare in gioco dopo esser stato surrogato. Qui è stato del tutto soppresso e non è sostituito da nulla. Oggi a prevalere è soltanto il dominio, il puro potere dell’uomo sull’uomo.
Tragicamente – e in modo simmetrico alla scomparsa del sacro – il senso del mondo svanisce, evapora.
4. Si giunge così finalmente al diritto penale, il quale non può che risentire pesantemente – come altre numerose forme culturali – del contesto contemporaneo post-secolare in cui viene chiamato ad operare.
Ci si dimentichi in proposito quello che tutti o quasi abbiamo studiato sui libri dei giuristi che oggi definiamo classici: per citarne solo alcuni, Carnelutti, Carrara, ma neppure Antolisei o Mantovani e, oso aggiungere, neanche Coppi o Ronco. Si ripongano pure nel cassetto i principi generali della scienza del diritto penale come consacrati dalla dottrina o da decenni di accurata giurisprudenza della Corte Costituzionale o della Corte di Cassazione.
Da molti e fondamentali versanti il diritto penale appare oggi gravemente deformato nei suoi stessi principi costitutivi, al punto da renderlo quasi irriconoscibile.
Non intendo certo indulgere al catastrofismo penalistico, in forza del quale la condizione del diritto penale – come lo abbiamo conosciuto e frequentato fino ad oggi – sarebbe divenuta impossibile ; neppure intendo seguire il percorso, peraltro suggestivo e recentemente delineato, sulle tracce del simbolismo penale , che ne mette in luce una serie di funzioni oggi assunte – pedagogica, morale, socializzante ecc. – estranee al suo autentico statuto.
Mi limito invece ad alcune osservazioni critiche che purtroppo sono destinate ad evidenziare come, in coerenza all’ecclissi del senso propria dell’età post-secolare, il diritto penale di oggi presenti diversi tratti insensati.
Vediamone alcuni.
A ) Il primo aspetto che pongo all’attenzione riguarda una vicenda molto nota e risalente almeno di alcuni decenni: alludo alla legislazione che, allo scopo di promuovere un efficiente funzionalismo investigativo e repressivo, prevede benefici di vario genere per i criminali che, fornendo utili informazioni agli inquirenti, vadano a rivestire il ruolo di collaboratori di giustizia.
Qui, il prezzo che il diritto penale deve pagare, per piegarsi a divenire docile strumento nelle mani di un legislatore poco avvezzo a pensarne fino in fondo la consistenza ontologica, è duplice e alto in entrambi i casi.
Da un lato, infatti, il diritto penale viene a disporre, in modo diretto, della colpa del collaboratore e, indirettamente, della sua libertà, facendo di entrambe le dimensioni un elemento di un calcolo mirato fra costi e benefici sociali nell’ottica di un inedito mercantilismo giuridico.
E’ appena il caso di notare come la colpa e la libertà non siano a disposizione di nessuno, neppure del loro portatore, trattandosi di dimensioni fondative del diritto, il quale, appunto, non sarebbe neppure pensabile a prescindere dall’una o dall’altra .
Eppure, oggi va registrata l’indomabile disinvoltura usando la quale il legislatore riduce o, in certi casi, annulla la colpa e perciò anche la pena, in cambio di informazioni utili alle indagini.
Dall’altro lato, va stigmatizzato l’effetto deteriore che si produce quale esito nefando di questo modo di legiferare: una volta ridotte colpe e libertà – dimensioni che attengono all’essere dell’uomo – ad oggetti del mondo, cose in mezzo ad altre cose – simili a tutti gli altri che lo affollano e del tutto inserite in quella utilizzabilità intramondana tanto criticata da Heidegger – nulla può più sottrarsi alla logica del patto mercantile: si dispone dell’indisponibile.
Non dico nulla di nuovo infatti rammentando come alcuni si siano chiesti in cosa si differenzi il fenomeno sopra brevemente descritto da quello che viene comunemente inteso dalle cronache recenti quale “patto Stato-mafia” e che invece viene stigmatizzato come esecrabile moralmente e punibile penalmente.
Forse perché, invece che nelle chiuse stanze dei pubblici ministeri, il patto sarebbe stato concluso in altre sedi non da tutti conosciute ? O perché, invece che i magistrati, sarebbe stato direttamente il Ministro di Grazia e Giustizia allora in carica – il compianto ed illustre giurista Giovanni Conso, cosa peraltro mai dimostrata – a darvi corso? Che forse ci sia un monopolio dei patteggiamenti con la criminalità ?
Mi fermo qui.
Aggiungo soltanto che in questa prospettiva – lo si sappia o no – il diritto penale perde se stesso, perché, intraprende una deriva pericolosa, divenendo altro da se, divenendo cioè compiutamente diritto premiale.
E’ un esempio di ciò che si potrebbe definire – per la pretesa di disporre di tutto, anche dell’indisponibile – diritto penale dell’onnipotenza : una nuova cratocrazia.
B ) Il secondo aspetto riguarda la congerie di norme e di pronunce anche della Cassazione in tema di misure di prevenzione.
Come è noto, si tratta di misure patrimoniali o personali che varie leggi, poi trasfuse nel codice antimafia, hanno previsto come autentiche sanzioni ante delictum ( a differenza delle misure di sicurezza, previste invece post delictum ).
Che siano sanzioni a tutti gli effetti non si può dubitare, dal momento che – pur se amministrative – sono connotate da sicura afflittività o perché limitative della libertà personale o perché incidono su beni patrimoniali anche di rilevante valore attraverso il sequestro e la successiva confisca: prova della loro qualità è il fatto che il più delle volte esse sono, alquanto ipocritamente, giurisdizionalizzate.
Tuttavia, si tratta di sanzioni senza illecito, alle quali il sistema penalistico italiano ricorre, unico e solo fra tutti i paesi occidentali, quelli in cui ci si fregia di aver realizzato lo Stato di diritto.
Il diritto penale commina dunque sanzioni limitandosi a richiedere venga formulato un giudizio di pericolosità sulla base di fatti del tutto generici, la valutazione sui quali a volte sconfina nella pura arbitrarietà o, peggio, in forme di pseudo-ragionamento, tanto oscure quanto pericolose, in quanto a mio avviso incomprensibili.
Si consideri per esempio una recente sentenza della Cassazione, la quale afferma che “…il giudice della prevenzione deve individuare il momento iniziale della suddetta pericolosità…sulla base non della constatazione di condotte genericamente indicative della propensione al delitto, ma dell’apprezzamento di condotte delittuose corrispondenti al tipo criminologico della norma che si intende applicare, individuando il momento in cui le stesse abbiano raggiunto consistenza e abitualità tali da consentire, già all’epoca, l’applicazione della misura di prevenzione”.
Confesso che dopo aver letto, riletto e meditato, non son riuscito a comprendere senza incertezze cosa intenda la Cassazione parlando di “condotte delittuose corrispondenti al tipo criminologico della norma che si intende applicare”: infatti, trattandosi di un giudizio di pericolosità che viene formulato prima che si commettano delitti, non vi sarebbe spazio per apprezzare condotte già delittuose, corrispondenti o no ad alcun tipo criminologico.
Resta poi oscuro cosa si voglia significare per “tipo criminologico” ( si fa forse criminologia pura in Cassazione ? ) e per “norma che si intende applicare”. Quale norma ? Non debbono forse applicarsi qui le norme dettate in tema di misure di prevenzione ? O ce ne sono altre di applicazione incerta o solo possibile ? E, in caso affermativo, quali ? Quelle forse di una inesistente criptoimputazione ?
Quanto sopra soltanto allo scopo di far comprendere l’elevatissimo grado di incertezza e di perplessità logica e giuridica che accompagna l’orizzonte di un temibilissimo giudizio di pericolosità, ove il sospetto spodesta la prova e dove – come è stato precisato – “il giudice dispone di sconfinati poteri officiosi…non di rado, sebbene le prove debbano essere assunte in udienza, nel contraddittorio delle parti, esse entrano nel fascicolo, senza avviso ai difensori: materiali documentali della più disparata natura ed origine vengono acquisiti a seguito del deposito in cancelleria da parte di organi pronti a contrastare, con elementi dell’ultima ora, le difese del proposto o a correggere il tiro con note informative ove spunta spesso la formula “è stato accertato che”, non raramente senza alcun sostegno dimostrativo: il verbale è redatto in forma riassuntiva…” .
In alcuni casi poi si attinge e forse si supera la soglia del comico, come quando, la Cassazione, nel confermare una decisione della Corte territoriale, giunge al punto di predicare una sorta di pericolosità “ad intermittenza”: il soggetto in esame sarebbe stato “pericoloso” dal 1989 al 1994, per poi cessare di esserlo; ma per poi tornare ad esser giudicato “pericoloso” dal 2010 al 2012 .
Ovviamente, dal 1994 al 2010, costui non può esser valutato tale: e verrebbe quasi voglia di chiedere – per amor di precisione – quale giorno ed a che ora esatta di quel giorno questa pericolosità sia cessata, se non altro allo scopo di poter prendere insieme un caffè al bar, senza tema di essere accusati di frequentazione di individui “sospetti”.
Come si vede subito, siamo in presenza di una – questa sì pericolosa – assenza di pensiero, dal momento che solo un pensiero errabondo o latitante può predicare una grottesca pericolosità intermittente come attributo avventizio del soggetto – quasi si tratti di un soprabito che prima si indossa e poi si appende alla gruccia – e non come corredo specifico della personalità, impossibile da dismettere o da riassumere a piacer proprio o altrui.
A tacere poi di quando la pendenza del processo di prevenzione viene considerata indice di colpevolezza a carico dell’imputato di un certo reato e – reciprocamente – la pendenza del processo penale viene valutata come prova di pericolosità: un diabolico circolo vizioso in forza del quale processo penale e processo di prevenzione si alimentano a vicenda, ma che seppellisce definitivamente ogni aspettativa di giustizia appena abbozzata.
L’assurdità di tali impostazioni, per nulla rare, testimonia esaurientemente come il sistema intero della prevenzione in Italia poggi su una impalcatura logica e giuridica del tutto priva di senso, espressione di una conoscenza falsa e addirittura inutile.
Siamo in realtà in presenza di un diritto penale della falsa onniscienza, in quanto, credendo di sapere tutto, non sa e non comprende nulla: una pericolosa pseudo-panta-epistemocrazia.
C) Da un terzo versante, non posso non ricordare la recente vicenda della prescrizione, della quale molti mostrano di non sospettare neppure lontanamente l’autentico statuto giuridico.
E’ noto che un recente provvedimento, che dovrebbe aver vigore dal prossimo gennaio, blocca il decorso della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado, senza peraltro neppure distinguere fra decisione di condanna e di assoluzione.
Si inaugura in tal modo una nuova sovranità del legislatore esercitata addirittura sul decorso del tempo, il quale – secondo i normali ma oggi negletti principi del diritto, che ancora si preoccupavano delle esigenze della giustizia – può essere sospeso ( per riprendere da dove era stato fermato), interrotto ( per riprendere da capo), ma non bloccato ( per non decorrere mai più in eterno ) .
Si dimentica tuttavia che il tempo – ancora una volta – non è nella disponibilità di nessuno, neppure del legislatore, e che perciò ipotizzare una trasformazione della dimensione temporale nel verso della completa stasi ad infinitum equivale a porsi addirittura oltre il sacro, la celebrazione del quale conosce certo il tempo liturgico, ma come tempo che si affianca a quello ordinario, senza in alcun modo violarlo: anzi, valorizzandolo.
Inoltre, la prescrizione si pone in sintonia con la presunzione di non colpevolezza, di cui costituisce una sorta di sintesi finale, nel senso che il diritto riconosce che se entro un determinato tempo – commisurato alla gravità del resto contestato – la pubblica accusa non è riuscita ad ottenere una decisione di condanna, allora a prevalere è il favor libertatis : l’imputato – per ragioni di giustizia – non potrà più essere perseguito.
Sicché depotenziare o addirittura privare di effetto giuridico la prescrizione equivale a ledere in modo irreversibile la presunzione di non colpevolezza, a prescindere dalla circostanza, di sapore kafkiano, di un essere umano che, dopo la sentenza di primo grado, potrà rivestire la qualifica di imputato in servizio permanente effettivo anche – in linea di principio – per tutto il resto della propria vita.
Il processo penale in questo modo non sarà più di durata eccessiva: sarà eterno.
Siamo così in presenza di un diritto penale del dominio sul tempo e sulla giustizia : una ingiustificabile iper-cronocrazia .
D ) Altri ha invece rilevato come ormai di tipicità della fattispecie incriminatrice sia sempre più difficile parlare, in quanto all’oggettività della condotta punibile – qualsiasi essa sia – si viene lentamente a sostituire la modalità della percezione attraverso la quale quel comportamento viene ad incidere sul soggetto destinatario.
Come ha notato Filippo Sgubbi, “la condotta dell’agente può essere oggettivamente neutra, ma se viene percepita come lesiva dall’interlocutore diventa reato”.
Fra gli esempi forniti da Sgubbi, assai significativi, mi limito a richiamarne tre.
Le molestie sessuali. Siano esse verbali o non verbali, qualora indesiderate dal destinatario, innescano immediatamente la tipicità del fatto punibile, che scaturisce unicamente dal gradimento o dal non gradimento della condotta tenuta.
Da questo punto di vista, anche una non del tutto accorta scelta di parole, indipendentemente dal riferimento sessuale, può essere percepita dal destinatario come lesiva. Per esempio – come ha notato Holmes – oggi, in America chiedere ad un asiatico “Sei un americano?” può bene essere visto come un interrogativo illecito e violento, in quanto esso implicherebbe che l’interrogato non è un americano.
La c.d. “mafia silente”. Secondo la recente giurisprudenza infatti “…la esteriorizzazione della forza di intimidazione ha valenza costitutiva del reato e può manifestarsi anche attraverso la percezione del prestigio criminale del sodalizio, cioè anche dal compimento di atti che, pur di per se non violenti e non di minaccia, richiamino e, al tempo stesso, siano espressione della capacità attuale del gruppo di intimidire “ .
Ne viene che il reato sarà commesso oppure no a seconda dell’attitudine soggettiva del destinatario della eventuale intimidazione a percepirla o meno: insomma, un esprit fort probabilmente non percepirà una intimidazione implicita, mentre al contrario, un soggetto facilmente impressionabile, immaginando anche in atti in se neutri la presenza di una intimidazione, darà vita al reato.
La mancanza di rispetto. Questa non viene più considerata semplice maleducazione. Infatti, se tale mancanza venga consumata verso un soggetto che faccia parte di minoranze o di gruppi considerati discriminati, allora potrà pure esser considerata penalmente illecita, riconducendola alla fattispecie di cui all’art. 604 bis, comma 1, lett. a) c.p.. la quale prevede e punisce “gli atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
In tutti i casi sopra menzionati, la consumazione del reato dipende non più dalla realizzazione di una condotta – commissiva o omissiva – già configurata nella fattispecie incriminatrice, ma, di volta in volta e perciò occasionalmente, dalla percezione che della identica condotta abbia il destinatario.
Il reato si consuma non perché qualcuno di fatto assuma il comportamento descritto dalla norma, ma in forza della circostanza che altri soggetti ritengano – o non ritengano – di esserne stati lesi.
Come scrive incisivamente Sgubbi, “…in questa congerie intricata, capricciosa, impenetrabile, imperscrutabile, e indeterminata di incriminazioni, nonché di fronte a un’alluvione di notizie di reato, la selezione dei fatti illeciti – non più effettuata in astratto dalla legge – è compiuta in concreto dalla prassi delle Procure, con la scelta di quali notitiae criminis promuovere e quali tralasciare. La libertà perde il suo primato e tende a diventare eccezione a fronte del vasto e indefinito campo della illiceità”.
Siamo così di fronte a un diritto penale della mera percezione soggettiva: una pericolosissima aistesicrazia.
E ) L’attenzione dovuta alla vittima del reato è poi sfociata insensibilmente ma progressivamente nell’assegnazione alla stessa di un ruolo preminente e sottratto ad ogni limitazione giuridicamente significativa, specialmente se essa appartenga ad una classe minoritaria o, per definizione, più debole.
Da un lato, si costruiscono così precetti modellati specificamente sulla fisionomia della vittima ( si pensi al femminicidio: a quando il gheronticidio ? E il fratricidio ? E che dire, specificando ancora, di un possibile migranticidio ? ), mentre, dall’altro lato, si fa convergere la responsabilità finale – a prescindere dalle prove – sul soggetto patrimonialmente più dotato, in modo da assicurare alla vittima il massimo del risarcimento possibile.
Inoltre, si intensificano i casi di responsabilità penale per contatto sociale, nozione alquanto indeterminata e sprovvista di sicuri referenti concettuali e perfino lessicali sul piano delle disposizioni incriminatrici.
Si alimenta insomma una sorta di protagonismo delle vittime, capace di condizionare la formulazione dei precetti, il cui contenuto – anche lessicale – viene predisposto in funzione delle aspettative e degli interessi delle stesse .
Si dimentica, così operando, che le oggettive ed equidistanti ragioni di giustizia vengono a dissolversi nelle soggettive e squilibrate ragioni di parte, a tutto danno, peraltro, di un soggetto imputato che dovrebbe godere della presunzione di non colpevolezza, che tuttavia a volte rimane del tutto ignorata se non rovesciata.
Quando infatti chiunque appartenente ad una classe per definizione più debole – una donna ( si pensi al movimento me too ) o un migrante – accusi un determinato soggetto di illeciti consumati venti o trent’anni prima, spetterà a questi – in piena inversione dell’onere della prova – addurre prove della propria innocenza, senza le quali verrà dichiarata la sua responsabilità sempre in sede sociale, se il reato non risulti prescritto anche in sede penale ( e si capisce qui il ruolo giuridico insostituibile della prescrizione ).
Sgubbi aggiunge poi una inquietante notazione in relazione alle categorie individuate sociologicamente dei puri e degli impuri .
I puri appartengono a tre categorie: puri da illegalità ( occupanti abusivi di immobili, gli immigrati clandestini, i nuclei antagonisti ) ai quali nulla può essere addebitato e che anzi si vedono riconoscere diritti nuovi scaturenti dalla loro posizione illegale ( per es. il diritto all’allacciamento delle utenze, mentre nessuno si sogna di elevare un’accusa di favoreggiamento a carico dell’ente allacciante); puri da debolezza sociale ( coloro che ricoprono posizioni socialmente marginali, come gli immigrati che gestiscono rivendite al dettaglio ), ai quali mai sarà opposto un accertamento fiscale o saranno effettuate verifiche sulla regolarità dell’ambiente di lavoro o delle contribuzioni previdenziali per i dipendenti; in questa categoria rientrano pure gli omosessuali e gli islamici, considerati in linea di principio “buoni”, di contro all’uomo occidentale, per definizione, “malvagio”; puri per creazione normativa ( gli stranieri benestanti o i grandi investitori ), che raggiungono lucrose intese con il Fisco: costoro, dopo il lavacro rituale, rivestono la candida veste della verginità sociale e divengono praticamente intoccabili.
Impuri sono invece coloro che abbiano la sorte di occupare ruoli decisionali di vario genere ( presidi, sindaci, presidenti di enti, amministratori delegati ecc. ), in quanto – macchiati da questa colpa originaria – saranno sempre ritenuti accusabili di un danno che sarà sempre e per definizione annunciato e perciò evitabile sol che costoro avessero usato la necessaria diligenza.
Si ricordi come alcuni anni fa, la Procura de L’Aquila pensò bene di accusare diversi scienziati della Commissione Grandi Rischi della protezione civile per non aver previsto con il necessario anticipo il terremoto che veniva considerato appunto – non si sa perché – annunciato: condannati in primo grado a sei anni di reclusione, tutti assolti poi in appello e in Cassazione ( tranne uno ma per un reato diverso).
Qualcuno – anche a causa dello sbigottimento della comunità scientifica internazionale – parlò di un inedito e grottesco processo alla scienza, colpevole di non saper ancora fare ciò che dovrebbe fare.
Nei casi accennati, siamo dunque in presenza di un diritto penale pregiudizialmente sbilanciato a favore delle vittime: una incredibile adicumenocrazia.
F ) In altri casi, la legge o la giurisprudenza impongono obblighi palesemente contrari ai principi dello Stato di diritto, generando vere ed inaccettabili nuove servitù.
Propongo solo un esempio.
Se l’operatore economico che abbia subito minacce e intimidazioni non le abbia denunciate, sarà escluso dalle procedure della gara d’appalto .
Qui il coraggio viene preteso quale onere giuridico ai confini dell’obbligo, non assolvendo il quale ne verrà una sanzione di carattere economico-giuridico, a volte molto penalizzante.
Siamo in presenza di un diritto penale impositore di oneri illegittimi per violazione degli artt. 2 e 41 della Costituzione: un’inammissibile deontocrazia.
G ) Per finire, poche parole per evidenziare come la funzione di supplenza del giudice penale ormai abbia superato ogni limite immaginabile.
Il tema, già notissimo, non richiede qui se non una rapida menzione relativa alle attuali vicende di cronaca.
Il caso ILVA è emblematico. La magistratura di Taranto ha assunto il ruolo di vero gestore della crisi dell’acciaieria, spodestando di fatto tutte le autorità amministrative che invece ne avrebbero piena ed esclusiva competenza. Negli ultimi giorni, è poi intervenuta la Procura di Milano: facile immaginare un sovrapporsi di competenze fra Procure, il che certo non facilita la soluzione del problema.
Questo è probabilmente uno dei motivi più reali che induce l’Arcelor a migrare altrove. E ciò nonostante la Corte Costituzionale con una sentenza da qualche anno emessa, proprio su sollecitazione dei giudici tarantini, abbia stigmatizzato, in termini molto chiari, la inaccettabilità di una tale forma di invadenza istituzionale .
Siamo in presenza di un uso distorto dei poteri del giudice, quelli di un diritto penale del governo dei giudici: una inaccettabile diacrinocrazia.
4. Registrata così la pericolosa deriva di cui il diritto penale è ormai inconsapevole preda, occorre chiedersi quale possa essere una praticabile via d’uscita, capace di ricondurlo nel perimetro della sua consistenza ontologica.
Lo dico subito senza perifrasi. La via da battere mi sembra essere quella di recuperare il diritto penale a quella dimensione della grazia che da tempo sembra esser stata del tutto dimenticata.
So bene che affermando questa necessità, non faccio che ripercorrere una via molto conosciuta ed abituale nell’ambito della cultura giuridica e politica cattolica, la quale ha sempre saputo – traendone un venerando insegnamento ormai tralatizio – che la grazia, come insegna S. Tommaso, rappresenta la perfezione, la completa pienezza della giustizia , senza per nulla menomarne le istanze ( si pensi alla notissima parabola evangelica del lavoratore dell’ultima ora che percepisce la stessa mercede di coloro che lavorano dall’alba: la misericordia verso di lui usata, nulla toglie, in termini di giustizia, agli altri ed alle loro legittime spettanze ) .
So bene perciò di non dire nulla di nuovo in proposito e tuttavia mi pare addirittura necessario ribadirlo, sia perché l’epoca contemporanea sembra essere divenuta culturalmente sorda rispetto alla tradizione sopra menzionata, sia perché la prassi , in tale direzione, a volte supera la teoria.
Da questo secondo versante, si pensi a quando, nel 1999, l’allora Ministro Diliberto pensò bene di eliminare dalla denominazione ufficiale del Ministero ogni riferimento alla grazia, lasciando, per così dire, “orfana” la giustizia .
Come se appunto la presenza della grazia – secondo l’opinione di alcuni – potesse in qualche oscuro modo menomare l’integrità della giustizia .
Dal punto di vista teorico, invece, anche se molti possono essere considerati i padri della posizione qui criticata ( si pensi, per tutti, ad Hobbes), prendo qui in esame soltanto le perentorie e radicali conclusioni cui giunge Nietzsche, perché mi sembrano esemplari.
Secondo il filosofo prussiano, infatti, la grazia altro non sarebbe che l’autosoppressione della giustizia, in quanto – egli osserva – con il lievitare della potenza e della ricchezza di una comunità, il diritto penale va sempre più mitigandosi : “ via via che è divenuto più ricco, il ‘creditore’ si è fatto sempre più umano: alla fine l’entità dei danni che egli può sopportare senza soffrirne è persino la misura della sua ricchezza”.
Il parallelismo con il “creditore” non è una forma metaforica. Poco prima infatti Nietzsche, nell’introdurre le riflessioni sulla pena e sul diritto penale, fa espresso riferimento al “diritto delle obbligazioni” quale “focolare d’origine” dei concetti morali di colpa, di coscienza, di dovere.
Ma proprio qui si palesa un errore di prospettiva. Il filosofo, peraltro spesso manipolato e conosciuto solo attraverso imprecise “vulgate”– sia pure allo scopo di stigmatizzarne la inaccettabilità – erra nel costruire questa parallelismo, in quanto mette sullo stesso piano beni disponibili, oggetti del mondo e quindi di obbligazioni giuridiche, e beni indisponibili, che non possono mai e in nessun caso venir annoverati fra gli oggetti del mondo e delle obbligazioni, quali la colpa, la coscienza, il dovere.
Senza ovviamente pensare in modo esplicito alle riflessioni di Nietzsche sul punto, è Heidegger a notare come non si debba cadere in quell’errore, occorrendo invece tenere ben distinti il piano dell’”avere dei debiti” ( Schuldenhaben) da quello dell’”essere in debito” ( Schuldigsein ) .
Come dire insomma che la dimensione della colpa va inscritta nel perimetro strettamente personale, che non può confondersi in alcun modo con il debito scaturente da una obbligazione: la stessa cosa dice Vittorio Mathieu – benchè in altro modo – quando rileva che “la legge penale non è fatta per difendere lo Stato, ma viceversa” , proprio per segnalare come il diritto penale concerna l’assoluto della libertà e della colpa, al quale anche lo Stato deve cedere il passo.
E dunque l’assunto nietzscheano di un diritto penale che si autosopprime attraverso la grazia va rifiutato, perché infondato: il diritto penale – al pari della grazia – riguarda l’essere dell’uomo e non l’avere .
Detto questo, allora, che ruolo potrà mai svolgere la grazia nel diritto penale ?
6. Non essendo pensabile una trattazione completa sul punto, mi limito ad alcune osservazioni di carattere preliminare, senza alcuna pretesa di esaustività, non senza chiarire che qui per grazia intendo in modo ampio e generale :
ogni tipo di gratuità, vale a dire
– il non-dovuto ( dare o fare ciò che non si è tenuti a dare o a fare );
– l’oltre-dovuto ( dare o fare più di ciò che si è tenuti a dare o a fare) ;
– il non-ancora-dovuto ( dare o fare prima ciò che si dovrebbe dare o fare dopo).
Una gratuità che sia inattesa in quanto largamente imprevedibile .
Una gratuità alla quale in alcun modo si possa vantare diritto.
Una gratuità che sia oggetto soltanto di speranza.
Se queste accennate sono le caratteristiche generali della grazia, bisogna aggiungere due osservazioni sulle dinamiche che le sono proprie:
la grazia – come lo Spirito – va dove vuole;
la grazia – come lo spirito – si manifesta nelle forme che preferisce;
la grazia – come lo Spirito – orienta l’esistenza umana.
Tutte le determinazioni che precedono non sono ovviamente nuove o sconosciute, essendo tutte rinvenibili nel perimetro concettuale della Summa e in essa disseminate.
In questa prospettiva, il primo aspetto da rilevare è che la nostra esistenza quotidiana si trova costantemente intrisa dalla grazia che opera senza essere quasi mai riconosciuta: a partire dalla nascita al pulsare costante della vita dentro ciascuno di noi, alla bellezza della natura in cui siamo immersi, agli affetti più cari che ci circondano e che vengono profusi – per usare una efficace espressione di Jean Starobinski ( che tuttavia sottolinea l’ambivalenza del dono ) – “ a piene mani” .
Di tutto ciò, nulla ci è dovuto; eppure ci viene elargito come puro dono, a profusione.
Non solo. La grazia, probabilmente proprio per questa sua diffusività, opera nell’esistenza come inevitabile e salutare orientamento dell’azione umana in ogni sua articolazione.
Lo mostra con impareggiabile maestria, un testo leggendario di Heinrich von Kleist, definito da Thomas Mann “una gemma di estetica filosofica”, noto come “Sul teatro delle marionette”.
Kleist, in questo raffinatissimo apologo di sapore metafisico, ci fa vedere come mentre la grazia si fa presente “dove i due estremi dell’anello del mondo si ricongiungono” ( wo die beiden Enden der ringformigen Welt in einander griffen ) – vale a dire negli animali e perfino nelle cose, da un lato, e in Dio, dall’altro lato – al contrario, l’uomo è costretto a faticare per tutta la sua esistenza per ritrovarla, senza riuscirvi mai in modo completo e definitivo: ma da essa viene orientato nel suo cammino.
Nulla più ricolmo di grazia, e perciò perfetto – ci dice von Kleist – di una marionetta o di un orso – che sono ciò che devono essere. Nulla di meno ricolmo di grazia, e perciò di meno perfetto, di un essere umano – che non sarà mai come deve essere.
Solo l’uomo, infatti, abita l’intervallo del “già e non ancora”. Solo l’uomo cerca di ricomporre questa frattura fra essere e dover-essere, che lacera la sua esistenza. E forse l’uso che della libertà ciascuno sappia fare può anche leggersi come il dipanarsi nella storia di questo tentativo. E ciò l’uomo fa in molti modi: uno di questi è la via offerta dal diritto penale, il quale, a suo modo, viene orientato dalla grazia nel tentativo di essere se stesso, nel tentativo, mai interamente soddisfatto, di pervenire alla giustizia.
7. Va innanzitutto notato come nell’ambito del diritto penale, la grazia assuma propriamente la veste della misericordia, cioè di quella virtù teologale attraverso la quale dispiegarsi.
Pare che il diritto penale sia interamente intriso di misericordia in ogni sua parte.
Propongo soltanto alcuni esempi che mi sembrano significativi.
Si pensi alla commisurazione della pena che avviene sempre fra un minimo ed un massimo edittale. La previsione di un tale ventaglio, a volte anche abbastanza ampio, non risponde soltanto all’esigenza di commisurare la pena, con la lente di ingrandimento dell’entomologo, alla gravità del fatto commesso e alla personalità del colpevole, come pretendono le ragioni di stretta giustizia.
E’ noto infatti come l’individuazione della “pena base” sulla quale poi edificare gli eventuali aumenti o le possibili diminuzioni, in forza del gioco delle aggravanti o delle attenuanti, sia rimessa in larga misura ad una discrezionalità non altrimenti argomentabile se non a partire da una sensibilità del giudice che opera tutta su di un piano che non è quello della stretta giustizia.
Per quanto si rifletta e ci si sforzi, non si potrà in alcun modo intendere utilizzando quale criterio di razionalità il giudice prenda le mosse da quel punto archimedeo – definito appunto “pena base” – per irrogare poi concretamente la pena proporzionata al fatto di reato.
Il giudice si trova qui in uno spazio aperto e rischioso, ove navigare a vista senza punti di riferimento esterni ed oggettivi. L’unico punto di riferimento è invece interno, depositato nel fondo della coscienza giudicante, difficile da reperire ed esigente, ma è proprio quella coscienza il luogo elettivo in cui appare ed opera la grazia nelle forme della misericordia.
Sicchè, suona ipocrita affermare – come a volte accade – che non si può concedere al condannato la sospensione condizionale della pena inflitta, perché dopo il calcolo concreto della stessa vengono superati i limiti che la legge impone di rispettare: l’ipocrisia sta appunto nella piena consapevolezza della coscienza giudicante che la concessione di quella sospensione non dipende tanto dal risultato del calcolo – cioè dal punto di arrivo – ma piuttosto dalla individuazione della “pena base” – cioè dal punto di partenza. E nell’individuare tale punto di partenza, la coscienza giudicante gode di una discrezionalità insindacabile perfino in Cassazione. E ciò probabilmente perché una tale forma di libertà di giudizio rappresenta uno dei luoghi elettivi per una possibile epifania della grazia.
Una coscienza intrisa di misericordia saprà invece evitare tale ipocrisia, concorrendo in tal modo a realizzare quel tanto di giustizia dagli uomini esperibile.
B ) Le attenuanti generiche. Confesso che dopo la lettura di moltissime sentenze sul tema, non ritengo di esser certissimo nella individuazione della loro effettiva consistenza ontologica: in realtà, credo nessuno lo possa affermare con adeguata cognizione di causa.
Ma è proprio questa difficoltà – quella di non sapere con assoluta certezza cosa in effetti esse siano – a costituire il miglior esempio di come altro non possa dirsi se non che esse mostrano un ulteriore luogo elettivo di epifania della grazia nella forma della misericordia.
Il giudice penale gode qui di una delicata e notevolissima discrezionalità destinata a dispensare la grazia attraverso questo istituto dai contorni costitutivamente indeterminati, perché coincidono con quelli stessi della misericordia.
Ciò non impedisce tuttavia alla Cassazione di escludere che le attenuanti generiche possano negarsi sulla semplice presunzione di non meritevolezza delle stesse.
Deve essere cassata la decisione dei giudici di appello che, a fronte della specifica, dettagliata e motivata richiesta di concessione delle attenuanti generiche ed in mancanza di una norma che ne vieti l’applicazione nella specie (fattispecie anteriore all’introduzione dell’art. 62 bis c.p.), danno per scontata o presunta la non meritevolezza delle attenuanti generiche, non esaminando le circostanze che possono essere rilevanti a tal fine e specialmente gli specifici elementi e ragioni indicate con l’atto di appello.
C ) Il coacervo di norme che stabiliscono benefici per i detenuti condannati e in genere sono finalizzate a consentire soluzioni alternative alla detenzione intramuraria.
Si tratta in ogni caso di misure mitigatrici che si muovono a partire dall’ottica della compassione e della misericordia.
D ) Il progressivo affermarsi teorico delle ragioni della restorative justice, vale a dire di quella particolare visione del diritto penale che, superando il formalismo della pena, cerca di ricostituire il tessuto sociale infranto dall’illecito, propiziando forme di collaborazione e di riconciliazione fra le parti , autore del reato e soggetto leso.
Sulla stessa linea si pongono probabilmente le sentenze c.d. “pedagogiche”, sulle quali però non mi soffermo per motivi di brevità.
Parimenti per brevità, taccio di altre epifanie della grazia nell’ambito del diritto penale: si pensi ai principi del favor libertatis, del favor rei ecc.
8. Tuttavia, la dimensione di sicuro più importante è altra.
Alludo alla formazione della coscienza giudicante, la quale – allo scopo di rendere giustizia – va sempre orientata nel verso della misericordia.
Certo, non si tratta di una dimensione strettamente afferente al diritto penale, ma alla amministrazione che il giudice faccia della giustizia che esso dovrebbe poter assicurare e perciò mette conto comunque di parlarne brevemente.
A nulla varrebbe infatti un diritto penale ricondotto alle sue ragioni profonde dalla grazia, se non amministrato da un giudice dalla coscienza orientata alla misericordia: da questo punto di vista, appare perciò fondamentale il problema della formazione della coscienza – umana e professionale – del giudice.
In particolare, egli, nel giudicare, deve farsi carico sia dell’evangelico nolite iudicare, sia degli errori che pervadono potenzialmente ogni umano giudizio.
Per superare queste difficoltà, non resta che giudicare nella consapevolezza che il giudizio umano è sempre parziale, limitato, fallibile, imperfetto, ribaltabile, tutte dimensioni di cui la coscienza giudicante deve sempre essere avvertita e che sempre dovrebbero essere poste – e purtroppo non sono – come pietre miliari nel suo processo di formazione.
Anche perché la coscienza giudicante deve sempre rammentare che ciò che essa ignora è sempre di più ed oltre ciò che conosce. Come ha limpidamente annotato Maria Zambrano, “L’amore è ciò che scopre la realtà e l’inanità delle cose, ciò che scopre il non-essere e il niente…E chiunque porta in se un filamento di questo amore scopre ogni giorno il vuoto delle e nelle cose, perché ogni cosa e ogni essere che conosciamo aspira oltre ciò che realmente è”.
Proprio in questo senso forse, la riflessione che più ha meditato sulla grazia insiste ancora e sempre a riproporla quale via privilegiata per perfezionare la giustizia, impedendole di perdere se stessa, abbandonata lungo una via che – da sola – non è in grado di mantenere.
Per fuoriuscire dalle secche dell’età post-secolare, il diritto penale deve dunque ri-orientarsi nel verso della grazia, riconquistando il proprio statuto ontologico di un diritto munito di potere, ma non fondato sul potere.
Soltanto così potrà riconquistare il suo senso. Quello che gli consente di conoscere il mondo – secondo il profondo monito di S. Agostino – attraverso la forma più raffinata di conoscenza, quella della carità: “non intratur in veritatem, nisi per caritatem”.