Ragionare col secolo senza adularlo. La lezione di Antonio Rosmini
Mario Cioffi
Nella Filosofia del diritto, introducendo la trattazione della società teocratica e del diritto che ad essa presiede, Rosmini denuncia l’abuso di quegli scrittori, anche cristiani, che avendo in odio il termine teocrazia, ne avevano travisato il concetto, servendosi delle cose divine per volgere a loro profitto le cose umane.
Il concetto di secolarismo aveva avuto un antesignano nel Cousin, il quale, secondo il Roveretano, aveva dissimulato il problema vero della relazione tra il ragionamento filosofico e la fede per spostare l’attenzione su quella da lui chiamata scuola teocratica e aveva coniato l’espressione secolarizzazione del pensiero, definita da Rosmini “parola di partito, insensata, e indegna di un filosofo” . Il capo della scuola eclettica francese riconosceva che la teocrazia era la culla legittima delle nascenti società, ma non le accompagna nel progresso del loro necessario sviluppo, che riteneva dovuto alla natura delle cose. Questo assunto del Cousin è per l’Abate una “proposizione manifestamente falsa e contraddittoria” se per teocrazia intende un’autorità divina.
Rosmini pensa che per prima cosa occorre risolvere la questione dei rapporti tra ragione e fede, “i due elementi indivisibili dei popoli civili”: la fede non tarpa la ragione, e questa non sopravanza i postulati della fede. Razionalismo e fideismo sono i due capitali errori della cultura moderna, che si annidano l’uno nel giudizio, l’altro nel sentimento. Il primo aveva assolutizzato la ragione sotto la spinta dell’Illuminismo che faceva a meno di Dio, il secondo faceva a meno della ragione, ed entrambi gli errori, assolutizzando ciò che è finito, rompono l’unità organica dell’uomo. Per Rosmini la fede resta sempre indipendente dalla filosofia e bastevole a se stessa e a tutti gli uomini, “ma non è per questo ostile alla filosofia”, la quale “non si stabilisce sopra alcuna autorità, neppur divina, non che umana; poiché la filosofia è ragionamento, non altro che ragionamento”.
Reagendo ai tentativi di fare a meno della fede o della ragione, il filosofo roveretano smaschera sia i sofismi della ragion critica che, chiusa nell’ideologismo, riduce l’uomo a funzione di struttura, sia quelli del fideismo che, sfociando nel pragmatismo, riduce il sapere a mera convenzione. Il secolo dei lumi aveva confinato la religione nella sfera della superstizione ed assolutizzato il finito, cosa che è l’essenza dell’idolatria. L’uomo, che con la sua superbia pretende di eliminare definitivamente Dio ed usurparne il posto, tende alla propria divinizzazione, ma limitato com’è per costituzione ontologica, non può mai raggiungere un’impossibile autosufficienza. L’antropolatria è la più funesta delle idolatrie, e la scienza che pretende di pronunciarsi sull’essenza delle cose è empietà, come lo è il tentativo dell’uomo di rendersi grande e felice senza Dio, salvo poi ricorrere di nuovo alla divinità attraverso varie surrogazioni. La storia dell’empietà dimostra che la natura umana, privata dell’elemento divino, si scopre depotenziata. Da qui la serrata polemica di Rosmini contro le “empie” teorie del Constant e dei sansimoniani.
1. Nell’introduzione alla Filosofa del diritto, opera volta a restituire al diritto individuale e sociale la dignità di scienza fondata sulla giustizia, Rosmini la definisce “la dottrina delle prime ragioni in opera di giustizia giuridica: e giuridica dico quella giustizia che si giace nei diritti”. Per lui era ormai giunto il tempo in cui la società, stanca e disillusa del lungo oblio dei principi fondamentali, chiedeva ai legislatori di riportare in luce i valori di ogni tempo. L’Abate era profondamente convinto che l’anelito alla verità e alla giustizia, anche se poteva andare smarrito lungo la storia, non poteva essere sradicato del tutto, perché il cuore umano cerca incessantemente ciò che è bene e ne ha nostalgia ogni qualvolta la società cerca di offuscarlo.
“Vi sono dei secoli di principi: in questi il pensare è sano, virile, ma poco sviluppato. Succedono dei secoli di conseguenze e di principi insieme: in questi il pensare è ancora sano, perché i principi non sono ancora obliati, è ancor virile e più svolto. Sono i secoli del maggior fiore delle nazioni. Vengono dei secoli di mere conseguenze: i principi già sono divenuti un vecchiume (…). In questi secoli il pensiero languente perdesi agevolmente nel sofisma e nella frivolezza, si fa connivente ai sensi: Sono i secoli lassi, leggeri, effeminati, corrotti, nei quali le nazioni precipitano, l’umanità dà di se stessa un triste spettacolo. E pure in fine ella è più inorgoglita che mai di se stessa, sdegna l’idiotaggine delle età precedenti, sdegna e spezza i vincoli coi padri suoi. Di vanto in vanto, di abisso in abisso, finisce col trovarsi già divenuta a se stessa intollerabile. Apre gli occhi, si mira e ne raccapriccia. A quell’ora, se il cielo l’aiuta, cui ella forsanco invoca umiliata, torna brancolando indietro a ricercare gli elementi perduti del sapere; ritrae l’attenzione sua di nuovo ai primi principi, di cui meglio sente l’immensa importanza, l’indeclinabile necessità, e li ritrova ogni dì più belli, più nuovi e freschi (…). Indi un secondo rivolgimento di tempi incomincia all’umanità, simile al primo, ma colle spire più ampie”.
Il pensiero moderno aveva preso le distanze dalla tradizionale visione cristiana della realtà. La fiducia assoluta che l’umanesimo ateo riponeva nella scienza aveva generato l’idea di un progresso inarrestabile dell’umanità, il contrasto tra scienza e fede era diventato radicale, e il distacco dalla religione si era trasformato in secolarismo. Persuaso che gli uomini devono essere condotti col ragionamento più che con l’autorità, Rosmini evita i condizionamenti storici e quelli dell’opinione corrente, rifugge da lusinghe e sollecitazioni anche a costo di perdere il favore dei lettori fino ad incorrere in sospetti, pregiudizi e condanne, e si affranca dall’utilitarismo sensista e dalla retorica sofistica del razionalismo e del soggettivismo. Egli accosta in modo critico la cultura secolarizzata del tempo, ne individua risorse e limiti, senza censure preventive e sempre attento ai contenuti e alle esigenze metodiche della modernità. Volendo aggiornare il pensiero cattolico rimasto fermo a San Tommaso, il prete roveretano assorbe il meglio della cultura moderna e a sua volta offre soluzioni rigorosamente logiche tratte dall’orizzonte epistemico della fede. Sottraendosi al fascino dei lumi che avevano oscurato quelli della religione e muovendo dall’idea dell’essere come fonte oggettiva del conoscere, della verità e dell’etica, egli realizza un’originale sintesi del pensiero cristiano, vera e propria enciclopedia fondata sull’unitarietà delle scienze e sul superamento della frammentarietà del sapere, segnando un nuovo punto di partenza anche per la metafisica e la teologia.
Dopo aver accennato ai fini che si era proposto, e cioè combattere gli errori, ridurre la verità a sistema, e dare una filosofia che potesse essere solida base delle scienze e della quale potesse valersi la teologia, il filosofo trentino indica i metodi da lui seguiti per conseguire questi fini, metodi che sono i suoi noti principi della libertà del filosofare e della conciliazione delle sentenze. Nell’ampia difesa del libero filosofare, l’Abate combatte l’errore di coloro che credono che esso sia impedito a coloro che professano la religione cattolica, e si dichiara favorevole alla conciliazione delle sentenze, “possibile e desiderabilissima fra i sistemi veri”.
Solo il ritorno all’oggettività poteva recuperare la fiducia nell’uomo nella propria capacità di raggiungere la verità, una verità oggettiva per essenza, inalterabile da parte del soggetto conoscente, una verità che “lungi dall’imporre per se stessa una servitù agli uomini, è l’unica causa della loro libertà, della qual libertà essi non rimangono privi se non allora che la ricusano, col ricusarne la causa”. Rosmini dà anche prova di onestà intellettuale, come attestano queste parole: “Sono persuaso che per gli ingegni forti e che non vacillano nella fede riesca a vantaggio incredibile la lettura delle opere di Kant, Fichte, Schelling ed Hegel; innalzano veramente lo spirito, ma facilmente ancora lo insuperbiscono”.
2. Per il filosofo roveretano la cultura ha ragione di bene solo “quando è diretta ad accrescere nell’uomo la morale perfezione”. Egli sa che, quando cielo e terra si separano, lo spirito si trasforma in ideologia e la scienza in mera astrazione, ma “l’uomo, nell’avvicinarsi alla scienza, non si volge ad astratte speculazioni, né se n’appaga ove altri gliele presenti (…). L’uomo è realtà, e vuol accrescere la realtà propria, e non può accrescerla colle pure astrazioni”.
Rosmini denuncia l’operato delle scienze che volevano ridurre l’uomo alla fisicità e al senso, e reagisce a questa lacerazione dell’umano attraverso l’impiego nel campo sociale della nozione di persona, che la Scolastica aveva relegato al piano metafisico. Dotata del lume della ragione che la costituisce intelligente, la persona è fine mai riducibile a mezzo: “I fisiologi ed i psicologi si sono bipartito l’uomo senza pietà; e ognuno credette d’averlo tutto: i primi l’hanno sovente fatto un bruto; i secondi un angelo. Noi vogliamo riunire quest’uomo così miseramente ammezzato”.
La riscoperta e valorizzazione della persona, assieme alla prospettiva antropologica del diritto, sono i maggior titoli di originalità della Filosofia del diritto. L’Autore combatte sia l’idea sensistica di misurare l’uomo iuxta principia naturae che lo riduce all’individuo, sia l’idea che lo assume iuxta principia subiecti riducendolo alla dimensione storica e mondana. Per Rosmini niente può stare sopra la persona che, creata libera, è così eccellente che “non può sottomettersi a nulla, fuorché alla verità”.
Per rimediare ai guasti del sensismo e soggettivismo, e a quelli dello scetticismo teoretico e dell’a-moralismo pratico che avevano generato la secolarizzazione dei valori, occorreva una riforma della filosofia e un rinnovamento delle scienze, non di semplice facciata, ma da attuarsi con quel “buon coraggio che libera la filosofia da inutili restrizioni ed ingiusti vincoli, e nasce nella mente di chi prende a filosofare mosso dall’amore della verità”. Dalla riforma della filosofia l’Abate fa dipendere la restaurazione di tutte le altre scienze, specie delle morali, che assieme al diritto e alla politica avevano maggiormente sofferto la devastazione del pensiero operata dal sensismo, dottrina pervasa dall’errore di anteporre l’utilità alla giustizia, e malattia dell’anima che disgrega e annienta ogni coscienza.
Contrariamente ai dettati del naturalismo, Rosmini non si limita all’analisi dell’esperienza umana, ma punta alla sua piena e totale comprensione, impegnandosi per una filosofia contraddistinta dai caratteri dell’unità e totalità.
“Dalla sovversione anzi dall’annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo (…) derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Medicina, e di tutte le altre scienze, della quale noi siamo testimoni e vittime (…). Da quell’ora sembra essersi in molti quasi perduto nelle cose morali il senso comune; le passioni e l’ignobile calcolo degli interessi materiali sono divenuti l’unico consigliere, l’unico maestro delle menti: e queste aperte a tutte le prevenzioni (…), intolleranti di ogni legge, frenetiche dei propri diritti, immemori dei propri doveri (…), sembrano aver perduto ogni coscienza della virtù e della verità (…). Il sensismo e il soggettivismo, che non è, propriamente parlando, una filosofia, non può avere una morale, perocchè niuna morale deriva dall’umano soggetto, il quale è bensì colui che viene obbligato dal dovere, ma non è e non può essere colui che obbliga. Coll’avere i sofisti trasformato l’obbligato nell’obbligante, scambiando il passivo con l’attivo, fecero fare un capitombolo alla Morale. Acciocché questa disciplina si raddrizzi, è d’uopo dimostrare che vi è un oggetto degno di riverenza ed amore (…): questo oggetto è l’essere per sé oggetto, che non può mai non essere oggetto. Per la stessa ragione il sensismo e il soggettivismo rovesciò la scienza del Diritto sul quale si reggono non meno le relazioni dell’umana convivenza, che quella delle umane società. Poiché il Diritto nella sua parte materiale è una facoltà soggettiva che ha per fine l’utilità di chi la possiede e l’esercita: all’opposto della morale, che tutta si racchiude nel riconoscimento volontario e riverenziale dell’oggetto, senza che le conseguenze eudemonologiche formino o accrescano l’inflessibilità dell’obbligazione, assoluta come la verità. E quella facoltà soggettiva, che è come la materia del diritto, rimane, anche rimossa a morale; ma colla rimozione di questa, che è come la forma del diritto medesimo, la facoltà soggettiva, che è la materia del diritto, essa perde incontanente la dignità e l’essere formale del diritto. La quale dignità morale (…) le viene dal di fuori, cioè dalla morale, che la consacra proteggendola coll’imporre a tutti gli altri uomini l’obbligazione di lasciarla intatta e libera ai suoi atti. Laonde ristabilita la morale, fermatane immobilmente la base, è con questo stesso salvato anche il diritto, e la doppia eccellenza delle azioni umane, cioè l’etica e la giuridica”.
L’oggettività dell’essere permette di uscire dal circolo della soggettività generata dalla filosofia della sensazione. Sensismo e soggettivismo avevano fatto sì che la mente non può più riconoscere l’esistenza né di doveri né di diritti, influenzando negativamente tutta la sfera sociale. Volendo rigenerare la realtà frammentata e disorientata del tempo, l’Abate punta ad unire uomini e società intorno a principi comuni, che individua nel riconoscimento dell’essere, che è moralità e giustizia, nel primato e centralità della persona, e nella distinzione e correlazione tra ciò che è sostanziale e ciò che è accidentale. Profondamente convinto della rilevanza del fattore religioso anche in politica, Rosmini pensava fosse “assurda e mala cosa” considerare le dottrine politiche astratte da quelle giuridiche:
“Se col sensismo e col soggettivismo la mente, coerente a se medesima, non può riconoscere l’esistenza né di doveri né di diritti; coll’annullamento poi di questi, ella non può più concepire alcun’altra politica che quella che si consuma in frodi e violenze, e che come il principe ideale del Machiavelli, è biforme, cioè mezza volpe e mezzo leone, quella che ha per suo necessario effetto procacciar l’odio a tutti i governi, quell’odio universale che li rende tutti impossibili, e che purtroppo vediamo diffuso in Europa a guisa di un diluvio, in cui affogano i governanti, con esso tutte le forme governative. Solo quando sia restituita la morale (e con questo dico la religione, che è la vita della morale) e colla morale il diritto (non una larva ingannevole di diritto), allora è possibile una scienza politica, custode della giustizia, tutrice della libertà di tutti, promotrice di ogni bene, autrice della concordia dei cittadini, fortissima madre della pace”.
3. Per come è costituita, la persona deve uscire dal buio dei sensi per elevarsi alla luce e al bene dell’intelletto. Nella persona divenuta morale Rosmini pone il principio del diritto, che trova la sua giustificazione nella libertà morale che “nasce nell’opposizione dell’oggetto al soggetto” e lo precede e fonda nella verità della persona umana. Ed è nella libertà morale, incardinata nella legge oggettiva, che “il diritto comincia ad apparirci”. La persona è soggetto ed oggetto, senso e ragione, e attraverso l’energia morale che erompe dalla lotta tra l’istinto e la legge, gli uomini si affacciano al mondo del diritto, nella cui unità organica, sintetica, si compone lo scontro tra ciò che anela a rimuovere l’istinto e la necessità che sommerge la natura umana. La libertà, che è essenzialmente giustizia, è la sussistenza stessa del diritto, e tutto ciò che viene positivamente posto come giuridico può essere riconosciuto come diritto solo in rapporto alla persona e alla sua libertà.
Il diritto nasce nell’istante in cui diventa fonte di obbligazione per le altre persone, che sono tenute a riconoscerlo: non può esserci diritto senza che esista chi deve rispettarlo. In quanto “potenza di affermare tutto l’essere“, sentire il giusto e l’ingiusto, volontà intelligente e libera, principio di azione ed entità in cui si realizza la perfezione dell’essere, la persona umana è per Rosmini “il diritto sussistente, quindi anche l’essenza del diritto“. La persona, quale sostanza concreta di giustizia e libertà e misura dell’ordine sociale, è la sussistenza del diritto, dunque “la realtà di fatto del diritto“. Nella persona, dotata di intelligenza e volontà libera, si trova la sede di ogni diritto, ed essendo essa per sua natura libertà sostanziale e diritto sostanzialmente costituito, ne viene che anche la libertà si identifica nel diritto.
Il diritto è “una facoltà di operare ciò che piace, protetta dalla legge morale, che ne ingiunge ad altri il rispetto“. Esso nasce dal dovere morale che impone di non far male a persona. Esiste un diritto “ogni qualvolta esiste una persona atta almeno a patire, nel qual caso esiste nelle altre persone il dovere morale di non cagionarle dolore“. Poiché il diritto discende dalla legge morale, non può esservi un diritto all’immoralità: “un mero capriccio non può mai essere l’oggetto di alcun diritto“.
Dall’essere viene la lezione del non nuocere, dal dovere morale ed estensivamente giuridico nasce l’inviolabilità della persona. Come derivazione della legge morale oggettiva, il diritto conserva sempre tutta la sua autorevolezza, anche e soprattutto quando viene violato, come afferma Rosmini in un celebre passo degno di stare accanto a quello di Aristotele sulla giustizia:
“Quando la forza bruta opprime l’uomo che ha per sé il diritto, allora questi eccita un interesse straordinario di sé negli altri uomini: il suo diritto pare che brilli da quel momento di uno splendore insolito: esso trionfa, perché si sottrae all’azione della violenza come un’entità immortale, inaccessibile a tutta la potenza materiale che non giunge pur a toccarlo, rimanendosi tutti i suoi sforzi esclusi da quella sfera alta e spirituale in cui abita il diritto“.
La negazione del diritto mette in luce la genesi e il carattere ideale: se staccato dall’etica e non più retto dalla necessità morale, il diritto si riduce a mera forza e perde la sua dignità di entità fondata sulla giustizia. Il dovere morale, prescrivendogli limiti, rende onesto il diritto in via negativa, e allo stesso tempo lo rende inviolabile, operando positivamente con l’obbligo di rispettarlo entro quei limiti. Il diritto è la persona, e attentare alla persona o violarla equivale a violare il diritto e la legge morale, che continua a splendere sull’uomo che la nega.
Per sua stessa essenza, il diritto è personale o non è, e non può mai essere contro la persona. Ledere la persona è ledere una sussistenza, e il dolore per la violenza subita dà luogo a ciò che Rosmini definisce risentimento giuridico, che è un effetto dell’idea di giustizia strutturalmente presente nella coscienza e che manifesta la violazione del diritto. La persona è un essere razionale e morale, il cui atto morale la impegna sinteticamente nella sua intelligenza e volontà, ed è proprio alla luce dell’attività morale che i principi del diritto e della giustizia si ergono a valori universali e necessari.
Per sua natura, il diritto prescinde da ogni formazione storica ed è cosa diversa dalla forza, come testimonia anche il senso comune. La sua forza morale “è al tutto indipendente dallo spazio, dal tempo, e da quanto avvi di esterna e materiale potenza“. Pur se il suo esercizio implica la forza, il Roveretano non include la coazione nella definizione del diritto, in quanto l’uso della forza è per lui soltanto un accidente che si manifesta nell’esercizio del diritto: “Quella sola forza coattiva è inerente al diritto, che si ritrova di fatto nell’attività del soggetto del diritto; ma non gliene è essenzialmente inerente alcun’altra. Quindi non è punto necessario a costituire un diritto che esso abbia annessa una forza bastevole a difenderlo, come irragionevolmente taluni sostennero. Costoro sacrificano il diritto dei deboli“.
Egli ha idee molto chiare sui diritti dei fanciulli e degli anziani, dei minorati fisici e psichici, e dell’uomo appena venuto alla luce, che sono tutti persone e come tali inviolabili. Ad ogni uomo competono dei diritti in virtù della sua dignità personale: “Non v’ha né pazzo, né imbecille, né ubriaco, né bambino che sia privo dell’atto essenziale dell’intelligenza. Tali infelici non cessano di essere uomini“. Come afferma decisamente Rosmini, “i diritti connaturali nell’uomo non si possono impugnare“.
Contro il male che aggredisce l’individuo, il diritto è l’unica difesa nel mondo storico, il solo che induce a non violare l’intangibilità della vita umana in ogni sua forma. L’idea della persona come diritto vivente protetto dalla legge morale evita la sua riduzione alla mera dimensione naturalistica. Se all’uomo viene sottratta la persona, egli resta chiuso nelle angustie del soggettivismo che lo lega alla natura. Se si perde il valore della persona, è possibile ogni nefandezza contro l’uomo, che può essere salvato solo se riportato alla dimensione ontologica di persona: “Salvata la persona è salvato l’uomo, perita la persona è perito l’uomo“.
4. Ciò che rende inviolabile il diritto è il dovere morale, ed estensivamente giuridico, che impone di non far male a persona: “Il diritto – afferma Rosmini – è diritto perché è inviolabile: non sarebbe diritto se nelle altre persone non esistesse prima il dovere di lasciare intatta quella porzione di potere, o sia di attività, che poi si chiama diritto“. Il diritto è essenzialmente etico in quanto dipende da un preesistente dovere, appreso dall’uomo nell’atto del conoscere, allorché vede l’oggetto, ossia l’essere ideale intuito. Il dovere giuridico spiega dunque il diritto che, in quanto espressione della morale, nasce dalla protezione che la essa accorda al bene utile di cui può fruire la persona. L’uomo ha il dovere di non nuocere al suo simile nel bene che questi possiede, e colui che ha questo bene protetto dalla legge morale ha un diritto, che deve essere riconosciuto e rispettato da tutti. La persona dunque è ed ha il diritto, il che vuol dire che in essa diritto oggettivo e diritto soggettivo coincidono, sono la stessa cosa.
Il diritto è la potenza morale per la quale l’uomo può fare tutto ciò che non gli è proibito dalla legge morale, e conseguentemente non si potrebbe mai formare e restringersi entro la sfera della realtà sensibile, perché gli si para innanzi, come necessità morale, la legge obbiettiva della verità evidente ed essenziale dell’essere. Nessuno può dissentire da questa legge senza sentirsi ingiusto e colpevole, e l’uomo sente di venire da essa sempre incondizionatamente obbligato, senza necessità di coazione fisica.
Diritto e morale hanno la stessa fonte, che è là “dove si trova la volontà e la legge“, e tuttavia sono autonomi l’uno dall’altra, distinti ma non separati. Per l’abate roveretano solo la distinzione dei due elementi, che preserva la loro specificità senza separarli, assicura all’individuo la garanzia pubblica della propria libertà, mentre la loro identificazione apre la strada allo Stato etico e totalitario. Il bilanciamento tra la sfera morale e la dimensione dell’utile esclude la necessità del fendente del Thomasius, strenuo sostenitore della separazione tra diritto e morale. Il diritto non può mai prescindere dalla morale, che è “l’inconcusso fondamento di tutta la scienza del diritto“, ma non può essere ridotto alla sola morale. Nella radice eudemonologica, che è la materia del diritto, sta dunque il tratto della sua distinzione dall’etica.
Il diritto non può essere confuso con la carità e la beneficenza, che sono doveri estranei alla sfera giuridica. Chi possiede un bene non può, secondo diritto, essere obbligato a farne elemosina, che tuttavia è moralmente doverosa. Il ricco che non fa l’elemosina – osserva Rosmini – compie un atto che non è moralmente lecito, ma ciò non autorizza il povero a spogliarlo dei suoi averi. Il povero non ha un diritto alla beneficenza, che resta un obbligo morale. Le opere di beneficenza, che relativamente agli uomini non sono obbligatorie, in relazione a Dio diventano tali ed esprimono la perfetta giustizia. Avendo intuito che lo Stato assistenziale tende al totalitarismo, Rosmini si dichiara contrario alla beneficenza pubblica, necessariamente svolta con mezzi e procedure burocratiche, la quale “può riuscire, anzi che di vantaggio, di grave danno non solo alla nazione, ma alla stessa classe indigente che si pretende beneficiare“, anche perché “dissecca le fonti della beneficenza privata“. Ed allora “il maggior beneficio che può farsi all’uomo non è dargli il bene, ma fare che di questo bene egli sia autore“.
Il Roveretano critica il giusnaturalismo moderno anche per le sue teorie egualitarie eccessivamente astratte. Egli è d’accordo sull’idea che il diritto debba essere rispettato per se stesso e non in relazione alla persona alla quale esso appartiene, e dunque relativamente al diritto tutte le persone si devono considerare uguali, a prescindere dalle condizioni personali, e in questo senso è vero che tutti gli uomini sono uguali, però “non è già che siano tali realmente, ma questa è un’astrazione che si fa colla mente (…). L’errore è consistito nel proclamare come assoluta questa eguaglianza delle persone e non come relativa ai diritti: nel prendere quest’astrazione per una realtà, che è il carattere da noi assegnato a tutti i sofismi moderni“.
Fondato sulla natura relazionale dell’uomo, il diritto pone precisi confini atti a proteggere la persona da indebite invasioni, dando origine anche un salutare antagonismo. Nota realisticamente Rosmini:
«Il diritto in una persona, l’obbligazione corrispondente di rispettarlo nell’altre, pone una certa maniera di divisione fra persona e persona; l’una si oppone all’altra, come l’attivo s’oppone al passivo; l’una possiede esclusivamente un diritto, l’altra è astretta di rispettarlo anche malgrado della pena che gliene può venire, anche a costo di qualsiasi privazione o sacrificio che far dovesse: il comando della legge giuridica è inflessibile, e, se si può dir cosí, immisericorde. Tale inflessibilità del diritto rende spesso grave agli uomini questa relazione: ella si presenta alla immaginazione loro non che come una separazione fra essi e i loro simili, ma come una vera cotale ostilità. E tuttavia ella è giusta; anzi è ciò in cui consiste la giustizia presa in senso stretto. Chi ha il diritto può esigere che gli altri glielo rispettino: chi possiede un bene può esigere che gli altri glielo lascino godere in pace: con ciò egli vuole, è vero, la propria utilità, ma un’utilità giusta; ben potrebbe per generosità donare altrui ciò che possiede, ma non ne ha obbligazione, o certo gli altri non ne hanno diritto».
Come “parola della ragione morale“, il diritto sta nel dovere giuridico che impone di non far male a nessuno, quello stesso dovere che, applicato alla proprietà naturale, la fa assurgere alla condizione di diritto. Anche se di natura essenzialmente etica, il diritto è un’entità non esclusivamente etica, ma etica ed economica insieme, dove morale ed utilità coesistono come coesistono nella persona, che è la realizzazione sostanziale del diritto. Scrive Rosmini:
“Noi siamo partiti da un punto luminoso, cioè dal dovere morale evidente che ‘la persona umana non deve essere offesa, danneggiata, afflitta’ Stabilito un principio così semplice, abbiamo esaminata la persona umana, e trovato il fatto che (…) ‘la persona umana ha congiunto a sé alcune cose per natura, ed altre per un atto suo proprio, atto fisico-morale, le quali non possono venire contro suo volere da lei staccate, senza dolore’. Applicato quel principio etico a questo fatto psicologico, è venuta dirittissima la conseguenza, che ‘niuno deve staccare dalla persona umana ciò ch’ella ha lecitamente attaccato a se stessa’; il che è quanto dire in altre parole che “ciascuno deve rispettare l’altrui proprietà”; giacchè abbiamo definito la proprietà: ‘ciò che è unito con nesso fisico morale alla persona umana’ ” .
5. Nel brano appena riportato si possono cogliere le caratteristiche formulazioni incentrate sul binomio persona-proprietà, che sta alla base del personalismo rosminiano. Per l’Abate la proprietà è “un sentimento (un amore) che lega le cose alla persona“. Se, come essenza del diritto, la persona è il principio supremo dei diritti (principium essendi), la proprietà è il principio della derivazione di tutti i diritti particolari (principium cognoscendi) che sono l’attuazione dell’umanità, principio che egli oppone al corrispondente principio kantiano della possibile coesistenza. Nata dalla sintesi tra persona e natura umana, la proprietà è <>.
Alla proprietà afferiscono diritti personali inviolabili ed indisponibili, che lo Stato non può ledere senza trasformarsi in uno Stato assoluto. I diritti non possono essere ridotti alla legge positiva senza aprire la strada alla loro usurpazione, dal momento che i diritti dei cittadini sono trascendenti perché incardinati nell’essere che è nella persona. Il dispregio della legge morale, che impone di conoscere intellettivamente l’essere nel suo ordine e riconoscerlo con la volontà, riduce l’uomo a mezzo. Una scienza del diritto che confonde fini e mezzi può sfociare solo nel relativismo etico e nel positivismo giuridico.
Poiché il diritto è la persona, la società e lo Stato non possono creare i diritti, ma solo regolarne la modalità rendendola obbligatoria per i consociati, lasciando intatto il valore dei diritti. Rosmini definisce con precisione il concetto della modalità dei diritti: “Tutto ciò che si può fare d’un diritto o intorno a un diritto, senza scemare punto il bene che esso contiene (…) ma o rimanendo il bene contenuto nel diritto uguale, o venendo accresciuto, chiamasi da noi modalità del diritto”. Entrando in società, gli uomini non rinunciano ai propri diritti, ma solo alla loro regolazione, consentendo che se ne faccia carico una sola mente, individuale o collettiva che sia. La stessa società civile, una delle tante società nate dalla facoltà di astrarre, è stata istituita al solo scopo di regolare la modalità dei diritti: essa “è un puro mezzo, un complesso di mezzi, e non un fine”, e non deve estendere la sua azione fuori del regolamento più equo e più utile della modalità dei diritti. Solo se si limita alla tutela dei diritti, la società civile mostra che il suo scopo è il bene comune fondato sulla giustizia, concetto introdotto dal cristianesimo che ha sempre combattuto il principio del bene pubblico o dell’utilità che prevaleva nelle società pagane.
Il primo progresso della società civile sta nel restringersi alla regolazione dei diritti, che è il fine stesso della società capace di eliminare ogni dispotismo. Il secondo progresso consiste nell’estendere il governo civile a tutta la sfera della modalità in funzione del crescere dei bisogni sociali, sfera “che si presenta angusta alle società primitive, immensa alle società già pervenute a grande perfezione”. Per Rosmini tutte le ingiustizie della società e del governo si riducono al trapassamento della linea della modalità per entrare nei diritti delle persone, e solo se questo confine non viene superato si ha la pienezza della libertà civile. La limitazione del potere è il problema principale della politica, e la determinazione precisa della modalità dei diritti è il solo rimedio radicale al dispotismo.
La teoria del regolamento della modalità dei diritti come funzione propria della società e dello Stato, inedita prima di Rosmini e trascurata da quasi tutti gli studiosi, presenta una visione moderna e aggiornata del potere e delle istituzioni sociali. La legge fondamentale del governo civile consiste nel “non disporre menomamente del valore di alcun diritto, limitandosi a regolare la modalità di essi per guisa che tutti possano coesistere, svolgersi liberamente, prosperare”, ma il Roveretano è realisticamente consapevole che distinguere il diritto dalla sua modalità è operazione che richiede “molto sviluppo della facoltà d’astrarre“.
6. La cultura illuministica era mossa da una sincera fede nell’avvenire e da un grande slancio verso il progresso, ma era inficiata da una visione astratta e antistorica della realtà. Il romanticismo aveva poi recuperato il passato e la tradizione, dando vita ad un movimento di pensiero che auspicava una più ampia libertà dopo l’esperienza del dispotismo napoleonico e della Restaurazione. Alla fiducia assoluta nella ragione era subentrato infine lo scetticismo, per il quale la ragione individuale, non credendo più a nulla, si autosvalutava e si automutilava, e la libertà era degenerata in arbitrio.
La cultura del Settecento aveva assolutizzato anche la dogmatica giuridica, riducendola a mera astrazione e scienza dei mezzi a scapito dei fini. La natura era considerata una realtà governata da leggi matematiche, fisiche e chimiche (la res extensa di Cartesio). Iniziava così il processo di secolarizzazione della legge naturale, che veniva fatta consistere nell’obbedire a se stessi, come pensavano Rousseau e Kant. Di fronte a queste aberrazioni del pensiero, Rosmini assume la finalità di combattere la falsa idea dell’individuo come oggetto, idea funesta che rende possibile ogni nefandezza contro l’uomo e la manipolazione della sua persona.
Il tema antropologico è alla base, oltre che del diritto, anche della politica, concepita da Rosmini come scienza umana per eccellenza al servizio del fine morale della società. Egli accetta il metodo geometrico-matematico per la trattazione del diritto e della politica, che sono scienze ausiliari, ma lo respinge quanto alla filosofia del diritto e della politica, scienza unitaria e totale volta alle ragioni ultime.
“La Filosofia applicata alla Politica si solleva ad investigare quei principi immutabili, universali, dai quali aiutata la mente del savio, giudica rettamente di tutto ciò che può influire a bene o a male della civil società“. Così il prete roveretano inizia la sua riflessione nel saggio La società e il suo fine, parte della sua Filosofia della politica, l’opera che si propone di ricercare la ragioni ultime, ossia i supremi criteri dell’arte del governo civile. La filosofia della politica individua i criteri politici che debbono orientare i mezzi politici determinati dalla scienza politica, mezzi che devono essere in armonia con le leggi del movimento naturale delle società civili.
Rosmini pensa la politica in modo rigoroso: perché possa esserci una società, “è d’uopo che vi abbia intelligenza: di più la società suppone un diritto, una giustizia, e delle virtù morali“. Egli critica la sostituzione del principio di giustizia con quello dell’utilità, persuaso che la politica debba sempre sottostare alla giustizia, la sola che può dare al governo civile la dignità morale che non possono dargli la potenza e la forza. La politica è autonoma solo strumentalmente, ed è falsa e ingannevole se non è dedotta dalla giustizia: “La politica cerca l’utilità, ma l’utilità vera e compiuta nasce dalla giustizia applicata rigorosamente fino alle sue ultime conseguenze a tutti gli accidenti sociali“. Compito della politica è determinare la distribuzione del bene utile all’uomo senza violare la giustizia, salvaguardando la libertà personale dalla preminenza dello Stato. Conseguentemente, il primo dovere del governo sociale è conservare la società rispettando la giustizia in tutta l’estensione e l’altezza della parola.
“Il governo civile, instrutto della dottrina della giustizia nelle sue tre parti (…) e dotato di una perfetta coerenza di ragionamento, può e deve dedurre tutte le regole della prudenza politica dalla sola giustizia: conclusione che può sembrare un paradosso perchè veramente è una sentenza fuor d’opinione, non potendo essere di molti la coerenza della mente (…). Ora quello che prima di tutto insegna la giustizia sociale (…) si è che il civile governo coi suoi atti e colle sue disposizioni non deve uscire giammai dai naturali confini della sua autorità (…). Laonde sino a tanto che non si riconosca sinceramente il supremo impero della giustizia, nessun governo può avere un confine, oltre il quale il suo potere non voglia trapassare“.
L’Abate ritiene che le società, per la compresenza in esse di beni eudemonologici ed etici, siano guidate simultaneamente da due forze opposte, la ragion pratica delle masse, tesa ai beni immediati e particolari, e la ragione speculativa degli individui, propria di pochi e tesa alla conservazione della società. Convinto della rilevanza del fattore religioso nella politica, egli ritiene che sia stato l’annuncio evangelico, “con la sua natura essenzialmente morale“, a sottrarre dalla perdizione le società, e lo ha fatto rivolgendosi agli individui e non alla masse, sicché “giustamente può dirsi che il cristianesimo salvò le società mediante la ragione degli individui, e non mediante quella delle masse“.
7. Il dispregio della legge morale del riconoscimento dell’essere nel suo ordine riduce l’uomo a mezzo. Considerare i cittadini in funzione dell’utilità che arrecano allo Stato, significa abbassarli dalla condizione di persone con qualità di fine a quella di cose strumentali. Secondo il criterio dell’utilità, osserva Rosmini, “un branco di pecore può valere più di un branco di uomini. Questo calcolo non può aver luogo che là dove è in vigore la schiavitù“. La moralità è il fine formale ed essenziale di tutte le società, e perciò egli vuole riportare al centro della vita sociale e politica il tema della giustizia, che era stato accantonato dal sensismo a favore dell’utilità. Ciò che il Roveretano contesta non è l’utilità in se stessa, ma la sua erezione a principio e criterio di valutazione dell’agire umano e, convinto che l’assolutizzazione dell’utile si ritorce contro l’uomo, arriva a scrivere: “L’utilità non ha limiti: perciò se il principio del Governo è quello dell’utilità, il Governo neppure può aver limiti. Resta dunque il dispotismo in tutta la sua pienezza, in tutta la sua esagerazione, in tutta la sua nudità“.
Costantemente preoccupato che la rimozione dell’Assoluto potesse essere sostituita con la divinizzazione dello Stato, Rosmini pensava fosse necessario sostituire la giustizia alle teorie sensistiche dello scientismo moderno, sottoponendo la politica al giudizio della filosofia, da cui la scienza politica riceve la propria legittimazione.
“ ‘Le sommità del secolo scorso perdettero di veduta la giustizia, quest’essenza della perfezione delle leggi; l’attenzione si rannicchiò nell’utilità: fu un passaggio dai principi alle conseguenze. La giustizia è un principio, l’utilità è una conseguenza. Fino a che questa conseguenza della utilità si considera nel suo nesso col principio della giustizia, il pensare non è pervertito (…). L’utilità è un fatto, come è un fatto la sensazione; la giustizia è un’idea: vedere in questa idea della giustizia i fatti è vedere “nel generale i particolari”: ecco l’umana sapienza: tale è lo scopo altresì della Filosofia del diritto. La giustizia non è cosa manufatta dagli uomini, ella è l’essenza di tutte le leggi: né alcuna autorità esiste se non quale ministra della giustizia’, quella giustizia che ‘entra prima d’ogni altra cosa nella costruzione di ogni umana società, e a stessa società dunque è un effetto, un’opera della giustizia (…). La Filosofia del diritto adunque, quale scienza della giustizia sociale, ha in verso la Filosofia della politica il rispetto di fine; e questa in verso di quella il rispetto di mezzo (…). Laonde la Filosofia della politica segue la Filosofia del diritto come la scienza dei mezzi segue e prende ordine e direzione dalla scienza dei fini (…). Assurda e mala cosa è il considerare le dottrine politiche, come fece prima il Machiavelli e poi tanti dopo di lui, astrazion fatta dalle dottrine giuridiche: quasi che quelle possano andarsene scompagnate da queste, a cui debbono, siccome ancelle, umilmente servire’ “.
L’uomo politico, usando i criteri elaborati dalla filosofia della politica, deve condurre la società al suo fine prossimo, che è il regolamento della modalità del diritto, curando di sott’ordinarlo al fine remoto della società, che è il conseguimento del bene morale. In ciò sta la parte più eccellente della politica, che in tal modo può “partecipare della nobiltà del Diritto. È certo – aggiunge Rosmini – che ogni principio di diritto è un’eccellente regola da seguirsi in politica”.
Il politico accorto bada alle esigenze sostanziali o primarie della società, subordinando ad esse tutto ciò che è accidentale o secondario. I massimi errori politici “sono quelli pe’ quali chi governa una società perde di vista quanto costituisce la sussistenza di essa società, sollecito soverchiamente di ciò che forma il suo accidentale perfezionamento”.
Il sensismo aveva dunque trascurato l’idea di giustizia per concentrarsi sui fatti e sull’utilità, distogliendo l’interesse dai principi e dall’essenziale per spostarlo sull’accessorio e le conseguenze. Il giusnaturalismo del secolo dei lumi aveva originato un gran numero di codificazioni estremamente particolareggiate, che nella loro sistematica costruzione deduttiva regolavano nei minimi dettagli gli istituti giuridici, deducendo da mere astrazioni una società ideale supposta valida per tutta l’umanità senza considerare le situazioni concrete. Tutti i codici civili erano tratti dai principi generali della ragione, in base alla tesi che nulla vi è di assoluto nel diritto, e che tutto sta nella sola ed illimitata volontà dello Stato.
Molti si erano illusi che bastasse un codice per risolvere ogni problema di diritto, un codice ritenuto perfetto per definizione, a prescindere da ogni riferimento reale alla giustizia. Rosmini guarda con favore ai codici, ma vuole che le leggi siano anzitutto giuste e non mero comando del legislatore. Per lui la perfezione delle leggi sta solo nella giustizia, e ogni altro loro pregio è accidentale, accessorio e derivato. L’Abate respinge l’idea che il solo diritto degno di meritare questo nome sia quello dello Stato che nega qualsiasi ruolo alla legge naturale. Egli vuole un codice basato sulla giustizia, che è l’unica garanzia di oggettività in quanto non manipolabile dall’uomo.
8. “Voce di molti oggidì si leva a dimandare ai governi una legislazione certa, unica, universale, ovvero ad applaudir loro perché colla formazione dei Codici tale la resero (…). Pochi tuttavia si ricordano di darle a bel principio apertamente l’epiteto di giusta”. L’amara constatazione che dà inizio alla Filosofia del diritto mette in luce la dimensione fondamentale della giustizia che attraversa tutta l’opera rosminiana. La diffusa richiesta di una legislazione certa, unica ed universale rappresenta sicuramente un passo avanti nel progresso, ma ciò che non persuade Rosmini è l’eccessiva fiducia posta nei codici, quasi bastasse una normativa uniforme raccolta in un unico volume per ottenere leggi perfette. Il positivismo giuridico aveva creato l’illusione che un codice potesse essere perfetto a prescindere da ogni riferimento alla giustizia e al diritto naturale, tanto che Napoleone riteneva talmente definitivo e vincolante il suo codice da escluderne ogni interpretazione. “Ciò che noi riproviamo – scrive Rosmini avvertendo il rischio dell’assolutizzazione del legalismo – è il grido che dicesi emesso da Napoleone alla vista del primo commentario del suo codice civile: Mon Code est perdu! Ciò che riproviamo è che la legge dell’uomo tenti di soggiogare sacrilegamente la legge della natura e di Dio”.
Per il Roveretano un governo è perfetto se rende giustizia a tutti, se tutela la libertà di tutti e se promuove l’utilità di tutti garantendo la proprietà. L’assetto migliore della società civile si risolve “in un’armoniosa conciliazione fra le libertà private e l’autorità del governo, di modo che sotto la più ferma autorità si conservi a ciascuno l’esercizio della maggiore possibile libertà giuridica. Tale è il vero e sano liberalismo, che gli utopisti si travagliano di sovvertire dalle fondamenta”. Rosmini vuole che ognuno possa esercitare liberamente i propri diritti dentro la sfera della moralità e della giustizia. Il liberalismo è da lui inteso come “un sistema di diritto e insieme di politica, il quale assicura a tutti il prezioso tesoro di loro giuridiche libertà, il più desiderabile bene dell’umana vita e della sociale”.
La società civile deve sottostare alle stesse leggi che obbligano l’individuo. “In relazione al diritto un corpo collettivo non è che una persona giuridica uguale a qualsiasi altra individuale”, e tutte le controversie “si debbon decidere dagli stessi principi d’universale giustizia”. La prevaricazione della politica sul diritto, dell’economia sulla politica, di ciò che accidentale su ciò che è sostanziale, degenerando assolutismo ed anarchia, sono le tappe fondamentali della dissolutezza della società che porta irrimediabilmente alla sua dissoluzione.
Il filosofo trentino è convinto che per il benefico influsso del cristianesimo, “religione eminentemente sociale” che “sollevando immensamente il diritto sopra il fatto tolse a quest’ultimo l’ingiusto dominio del mondo”, la società avverte sempre di più l’esigenza della giustizia, quella giustizia che prevarrà sulle ingiustizie politiche quando si raggiungerà “l’uniformità del pensare nazionale circa le leggi della sociale giustizia”. L’uniformità di opinioni ha anche l’effetto di ridurre al minimo la necessità dei partiti politici, fino a determinare il loro annientamento.
Ma affinché l’idea della giustizia sociale possa diventare opinione comune e generalizzata, è necessaria una
“lunga, pubblica, libera discussione: gli individui non si possono intendere se non parlano molto fra loro; se non si comunicano a lungo di continuo i propri individuali sentimenti; se non contrastano insieme con calore; se gli errori non escono dalle menti e manifestati a pieno sotto tutte le forme, non vengano anche a pieno e sotto tutte le forme combattuti; se le idee imperfette dei singoli non ricevono perfezione dallo scontro colle idee di tutti; se dall’abbattersi insieme delle idee non si giunge distinguere quella parte che è ammessa da tutti, e dal suffragio di tutti riceve autorità immensa, da quell’altra parte che è meramente individuale, e che suol essere agevolmente abbandonata dagli individui che la sostengono tostochè si veggano soli a mantenerla; se finalmente a forza di ragionare insieme non si giunge a convincersi che in molte cose già si conviene senza saperlo, le sole espressioni, le sole forme variando, non il pensiero intimo che è uguale; ond’è che spesso per trovarsi d’accordo basta si uniformi o si accomuni il linguaggio, al che gli uomini presto arrivano , e pur s’avvedono, che in questo solista la discrepanza che li divide, massimamente che l’esercizio del ragionare insieme conduce tutti ad imparare il linguaggio di ciascheduno, e il linguaggio di ciascheduno diventa un solo linguaggio di tutti”.
9. Nato in anticipo sui tempi, Rosmini non fu compreso da molti dei suoi contemporanei, ai quali ha porto verità spesso inintelligibili anche a uomini di Chiesa fermi al linguaggio “perenne” della Scolastica. Oggi di lui si apprezza particolarmente l’opera di rinnovamento culturale tesa a raccogliere i valori pratico-sociali nell’unità della persona, ed anche il tentativo di applicare la moralità all’area del diritto e della politica, discipline da lui fondate su giustizia e persona. Le sue idee sono viste come anticipatrici di nuove forme di convivenza concrete e non utopistiche, con l’utile integrato nel giusto e il bene comune sostituito a quello pubblico e all’utilitarismo.
Il filosofo roveretano ha teorizzato un diritto fondato sulla giustizia e una politica subordinata al diritto, una società libera con più giustizia e meno Stato. Ha ricondotto nei giusti limiti lo Stato che la modernità aveva reso infallibile ed onnipotente, ed ha posto nella libertà personale il limite etico alla preminenza di questa entità che è solo qualcosa di particolare, non assoluta e con funzione di servizio. Tutte le ingiustizie della società e del suo governo si riducono al trapassamento della linea della modalità per entrare nei diritti delle persone individuali e collettive, e solo se questo confine non viene superato si ha la pienezza della libertà civile.
La stessa società civile è stata istituita solo al fine di regolare la modalità dei diritti: essa “è un puro mezzo, un complesso di mezzi, e non un fine”, e pertanto deve limitare la sua azione al regolamento più equo e più utile della modalità dei diritti, e ogni volta supera la linea della modalità commette ingiustizia:
“Il governo civile opera contro il suo mandato quando si mette in concorrenza coi cittadini, o colle società che essi stringono insieme per ottenere qualche utilità speciale: molto più quando, vietando tali imprese agli individui o alle loro società, ne riserva a sé il monopolio. Le società civili per contro s’avvicinano al loro ideale più che esse si scaricano di tali imprese, abbandonandole all’attività privata che esse debbono tutelare e promuovere; e si può con sicurezza asserire che fece maggiori progressi nell’incivilimento quel governo che ottiene più di ben pubblico mediante l’opera spontanea d’individui e di società private da lui protette, e meno si mette alla testa di tali imprese”.
Coerentemente, il primo dovere del governo sociale “è quello di giudicare nel caso di contenzione fra i suoi membri: quindi a lui è ingiunto di stabilire leggi, tribunali, procedura legale sì fatta che colla maggiore celerità, colla minima spesa, col minimo incomodo, e colla massima rettitudine sia resa a tutti giustizia”. Affinché la società possa rendersi immune da ogni ingiustizia, Rosmini dà la formula atta a regolare l’azione sociale: “La società civile mantenga inviolato il principio della libera concorrenza universale secondo il Diritto di ragione”.
Con queste formulazioni, l’Abate anticipa la nozione di ciò che più tardi sarà chiamato principio di sussidiarietà, principio da lui ritenuto il solo rimedio radicale al dispotismo in tutte le sue forme.
“La libertà è “l’esercizio non impedito dei propri diritti”. I diritti sono anteriori alle leggi civili. Il fondamento della tirannia è la dottrina che insegna il contrario. Le leggi civili possono essere giuste, ovvero ingiuste, e in questo caso sono tiranniche. Se le leggi civili non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne l’esercizio, acciocché da niuno ostacolo esso venga impedito, sono giuste, e il popolo che vive sotto queste leggi è libero. Se pretendono di essere superiori a quei diritti che esistono prima di esse, pretendono d’esserne esse le fonti, d’esserne il padrone, sono ingiuste, e il popolo che ha un Governo fondato su una tale teoria dell’onnipotenza delle leggi civili è schiavo (…). Il Governo centrale deve esse forte, e in pari tempo tutti i governati devono godere della maggiore libertà. Saper distinguere ciò che appartiene alla forza del Governo, e non alla libertà dei governati, e ciò che appartiene alla libertà dei governati, e non alla forza del Governo: nulla cedere di questa, e nulla usurpare di quella: ecco una delle parti principali e della più difficili della sapienza politica”.
L’idea del diritto e della politica fondata nella giustizia dista anni luce dai criteri illuministici sui calcoli del piacere e dell’utile. Volendo restituire all’uomo l’orizzonte etico e metafisico di cui era stato privato, Rosmini pone nella giustizia il principio basilare e conduttore del progresso verso una società di uomini liberi. La realizzazione della giustizia sociale è la sua prima preoccupazione, il valore primo e fondante di tutto il suo costituzionalismo, massimamente espresso ne La costituzione secondo la giustizia sociale, “dedotta dalla natura della società civile e dal diritto che ad essa presiede”, desunta dalla giustizia sociale e basata sulla libertà e sul riconoscimento dei diritti naturali dell’uomo, inviolabili e garantiti da un apposito Tribunale politico. Il Roveretano non si limita a mostrare l’ideale della giustizia, ma concepisce anche un sistema di giustizia politica atto a realizzarlo e a rimediare al rischio, sempre incombente, che la giustizia venga violata anche nella formazione delle leggi. Solo un organo di giustizia politica può conferire allo Stato il vero carattere di giustizia, solo il giudizio di costituzionalità delle leggi può sancire il primato della giustizia sulla politica e del potere giudiziario su quello esecutivo. In aggiunta al suo progetto di costituzione, Rosmini ha proposto, nel saggio Sull’unità d’Italia, un modello federalistico tra i vari Stati della Penisola, fondato sul massimo rispetto per l’autonomia di persone, gruppi e organizzazioni sociali, atto a realizzare una unità organica senza omologazione e accentramento livellatore.
Come voleva riformare lo Stato, così l’Autore delle Cinque Piaghe voleva aggiornare la Chiesa, bisognosa di essere affrancata dalla sudditanza politica ed essere restituita alla libertà e alla povertà delle origini. L’idea di libertà e giustizia sono i cardini comuni della riforma dello Stato e dell’aggiornamento della Chiesa, uniti nel ripudio della religione come instrumentum regni. Queste ed altre sue intuizioni, quali esaltazione del ruolo del laicato, rinnovamento del clero, risveglio dello spirito liturgico, sono diventate capitoli fondamentali del Concilio Vaticano II. Contro l’illusione di potersi sottrarre alle sfide della modernità attraverso un impossibile ritorno al passato, il filosofo e teologo roveretano si è impegnato a fondo per il dialogo tra fede e cultura, ricercando nuove modalità di radicamento del cristianesimo nella cultura moderna.
10. Persuaso che ogni discorso sul diritto ricade inevitabilmente sull’uomo, Rosmini ha teorizzato un diritto fondato sulla persona e una politica subordinata al diritto, auspicando una società con più giustizia e meno Stato, nella quale poter esercitare liberamente i propri diritti. Il fondamento personalistico del diritto supera il fragile principio di uguaglianza della Rivoluzione francese, la pretesa perfettistica delle costituzioni e delle codificazioni, le elusive ed inefficaci dichiarazioni illuministiche dei diritti dell’uomo, prive di validità erga omnes perché prescindono dallo statuto metafisico della persona.
Affermando il primato della persona rispetto al potere astratto ed assoluto dello Stato e ponendo in essa e nella sua libertà il limite etico alla preminenza dello Stato, l’Abate ammonisce che solo la persona può essere artefice del proprio appagamento, della propria felicità e perfezione, in definitiva del proprio destino, e da qui la critica alle degenerazioni totalitarie della Rivoluzione e della Restaurazione, il rigetto dello Stato etico, l’affermazione che esso non può mai surrogare la persona. Al diritto assoluto e astratto del positivismo, ha sostituito un diritto vivente nella persona e concepito entro il sistema della giustizia, innervato nell’essere e più forte delle creazioni artificiali dell’uomo, un diritto che può essere assunto per fondare, in modo condiviso, i diritti dell’uomo, “i veri diritti dell’uomo (che) – puntualizza l’Abate – non sono meramente qualità inerenti alla natura dell’individuo, ma sono relazioni morali fra più individui, risultanti dalla natura umana comune, in ciascuno di essi esistente”.
Rosmini, che aveva dovuto confrontarsi con lo Stato accentratore e laicista nato dalla Rvoluzione, con quello teorizzato da Hegel e quello socialista di Saint-Simon e Fourier, ha ridimensionato lo Stato che la modernità aveva reso infallibile ed onnipotente. Convinto che l’assolutizzazione del potere porta al dispotismo e riduce la politica a mera organizzazione di egoismi, ha combattuto, assieme al totalitarismo, anche l’egoismo politico, definito “un sofisma che si copre col nome bellissimo di liberalismo ed edifica sul dorso incurvato degli uomini la mole di un governo onnipotente”.
Ha condannato i principi della ragion di stato, ha rifiutato i monopoli e l’intervento statale nell’economia, ha anticipato il concetto di sussidiarietà. Ha combattuto la pretesa egualitaria come meta raggiungibile dalla politica, ricordando che le disuguaglianze, sebbene in contrasto con la giustizia, sono utili all’ordine dell’insieme. Ha avversato il baldanzoso pregiudizio dell’utopia perfettistica, portatrice dell’idea di un progresso inarrestabile dell’umanità, ma non ha negato la possibilità di un progresso vero, “sintetico”, tale cioè da investire tutto l’uomo nella sua dimensione reale, ideale e morale, un progresso capace di soddisfare le esigenze della modernità senza comprometterle con l’immanentismo soggettivistico. L’utopia, scrive Rosmini, “lungi dal felicitare gli uomini, scava loro l’abisso della miseria; lungi dal nobilitarli, li ignobilita al par dei bruti; lungi dal pacificarli, introduce la guerra universale, sostituendo il fatto al diritto; lungi d’eguagliare le ricchezze, le accumula; lungi dal temperare il potere dei governi, lo rende assolutissimo”.
Alla scissione kantiana della filosofia dalla legge morale, il Roveretano oppone l’oggettività dell’essere che spezza il circolo vizioso della soggettività e permette di attingere il bene oggettivo presente nell’uomo e afferrabile dalla ragione. Assesta un colpo decisivo alle teorie sensistiche che, attribuendo alla legge morale caratteri umani, la vanificavano, e al freddo ascetismo kantiano sostituisce la felicità quale bene supremo dell’uomo. All’individuo come ragione generale e a quello che si annulla nello Stato, oppone la persona come essenza e fonte della storia. Al socialismo utopistico di Saint-Simon e seguaci ricorda che “i beni temporali messi per fine conducono le nazioni a distruggere se stesse e l’uomo ad imbrutire”.
A Marx e Hegel, fautori di un progresso inarrestabile dell’umanità attraverso lo Stato, Rosmini rimprovera di aver sostituito il perfettismo alla perfettibilità, il primo assolutizzando la prassi rivoluzionaria, il secondo fondando tutto sulla razionalità senza morale. Egli sa che il male è ineliminabile, che la società perfetta è irrealizzabile perchè l’uomo non è perfetto, e che le leggi statali non possono promuovere tutto il bene ed impedire tutto il male, e da qui il suo monito a non aspettarsi una società libera da chi annulla la libertà individuale.
Il problema decisivo della filosofia sociale di Rosmini è l’apertura alla trascendenza come dimensione costitutiva dell’ordine politico e giuridico. La chiave ermeneutica della Filosofia del diritto sta nella volontà amorosa che restituisce a tutta la filosofia la sua originaria vocazione sapienziale. La legge della giustizia e dell’amore, che ha già perfezionato la società, la perfezionerà ancora fino a condurla alla compiuta giustizia, quella carità che è l’essenza della moralità ed il pieno compimento della legge. Alla Provvidenza divina, che ha già eliminato dalla società familiare, attraverso la società civile, il devastante egoismo in cui era rinchiusa, rimane da fare un’altra operazione, l’ultima, quella di togliere l’egoismo dalle nazioni. Così l’Autore conclude la sua opera:
“Ma ora la società civile è inorgoglita ella stessa di sua vittoria. L’egoismo è passato dalle famiglie nelle nazioni. Questo nostro è appunto il tempo dell’egoismo nazionale: egli vige questo egoismo, cresce, invade tutto, crede di poter tutto, s’irrita e innaspra ad ogni sospetto che gli sia messo alcun modo, alcun freno. E pure deve riceverlo cotesto freno, e lo riceverà dalla legge della giustizia universale propria della società teocratica, e dal progresso della carità universale predicata incessantemente dalla Chiesa di Cristo. La società teocratica non vuol distruggere la civile, ma vuol trarre a lei di seno il vizio dell’egoismo che la difforma rendendola ingiusta; come la società civile non volle distruggere la domestica, ma volle guarirla dallo stesso malore d’un egoismo ancor più ristretto, di cui andava viziata (…). La società civile, diciamol di nuovo, rimane a perfezionarsi, ingrandendosi, coll’amicarsi alla società universale, alla società teocratica perfetta, onde solo attingerà la compiuta giustizia e si purgherà d’ogni spirito d’ingiustizia. A fare la via ad un sì felice ringiovanimento della nazioni, noi togliemmo a determinare con precisione il fine, entro cui dee tenersi col suo governo la civil società, “il regolamento della modalità dei diritti”. È un piccolo seme, a dir vero, ma noi consegniamo questo seme alla logica del tempo ed alla carità dei cristiani”.