La condizione giuridica delle persone anziane nell’età della secolarizzazione
Pasquale Stanzione
1. In una mia risalente ricerca richiamavo la nota espressione di Terenzio: Senectus ipsa morbus; il monito antico travalica i secoli e giunge fino a noi carico di una non risolta inquietudine. Lo stesso legame che esso individua tra salute ed età avanzata è il connotato che da sempre ha contraddistinto, in una dimensione pressoché assorbente, la tematica degli anziani. Ora invece, i progressi della scienza medica, le mutate condizioni di vita, l’incidenza della solidarietà sociale propongono il fenomeno – anche all’attenzione del giurista – in una diversa, più articolata prospettiva, che non si limita a predicare il superamento del motto di Terenzio, ma afferma decisamente che la senescenza non consiste in un’età, in un dato fisso, ma è un processo e dunque un concetto relativo.
Né è estraneo a tale risultato l’aumento quantitativo delle persone che si sogliono collocare nella categoria degli anziani: questa, secondo le proiezioni demografiche, è destinata sempre più ad espandersi, raggiungendo così una notevole percentuale dell’intera popolazione.
In proposito, le ricerche sociologiche hanno scisso ed analizzato, disaggregato e riaggregato in più guise il dato statistico, ricavandone interessanti studi. Ne è derivata, talora, una visione complessiva che, nell’analisi del problema e nell’individuazione dei rimedi, preferisce il ricorso a soluzioni globali, affidandosi in una scelta che è prima metodologica e poi anche terminologica – ad espressioni quali “condizione anziana”, “questione anziana”.
La tendenza va, a mio avviso, respinta. Già a livello sociologico non è dato incontrare l’anziano come il prototipo della persona che, nell’immutabilità della sua condizione, racchiude in sé le caratteristiche e le esigenze di un’intera categoria. Esistono, invece, gli anziani, in una variegata serie di posizioni che manifestano di volta in volta differenti bisogni, aspirazioni, necessità, inclinazioni. Tant’è che si ama discorrere, in proposito, di una “galassia policroma”.
Un pur sommario sguardo alla tipologia da tempo individuata induce a tenere distinti la condizione e i problemi dell’anziano autosufficiente e non bisognoso da quelli posti dall’anziano autosufficiente e bisognoso. Così come non comparabili sono le questioni prospettate da un anziano non autosufficiente e non bisognoso.
Altre e più attente considerazioni merita l’anziano non autosufficiente e cronico, là dove si rifletta che all’interno di questo stesso raggruppamento bisognerebbe ulteriormente distinguere tra cronici riabilitabili e irrecuperabili, stabilizzati ed evolutivi, lungodegenti e sempre degenti. D’altro canto, la stessa non autosufficienza non è connotazione che si riannoda costantemente ad un’unica causa: essa infatti può essere di natura economica oppure abitativa; può risiedere in difficoltà relazionali, sociali e culturali o consistere nell’inaccessibilità dei servizi o nella carenza di informazioni ovvero, più frequentemente, trovare la propria origine in motivi di salute.
2. Non è certamente questa la sede per delineare le differenziate soluzioni – di ordine assistenziale, previdenziale, medico – alle ipotesi ora elencate e ad altre possibili partizioni. Al giurista di diritto positivo, invece, compete d’interrogarsi sull’esistenza oppur no di un apparato normativo che affronti, con una tutela specifica o generale, il problema degli anziani.
Il compito non è semplice. Il civilista, in particolare, avverte la gravità e l’urgenza di una richiesta che si esprime in termini di garanzia e che si colora inevitabilmente di solidarietà sociale: ed egli si china sul codice, sulle leggi speciali, sulla costituzione alla ricerca di indici normativi adeguati. Ma di là dall’esito che una siffatta indagine può sortire, a me pare che il passaggio essenziale dell’intera materia sia costituito dall’età: dal discorso che in generale si può imbastire introno ad essa e, più specificamente, dalla qualificazione giuridica che alla stessa bisogna assegnare.
E’ un dato di comune riferimento che l’età, nell’impostazione tradizionale, si atteggia a fattore di suddivisione, dando luogo a classi di soggetti caratterizzate da una notevole diversità di diritti, obblighi, oneri e prerogative. Tant’è che la Carta universale della protezione giuridica degli anziani vulnerabili, firmata a Roma il 28 ottobre 2011 ad iniziativa della FIAPA, prevede un articolo unico che afferma: “L’avanzamento dell’età non modifica in nessun caso né i diritti né i doveri né la libertà di qualsiasi persona, né i principi che sono a fondamento della dignità dell’uomo”.
E la scansione della vita in classi di età immediatamente pone il problema del passaggio dall’una all’altra che sul piano psicologico e sociale si trasforma di frequente in crisi generazionale, specialmente allorché – per una serie concomitante di altre circostanze – la cesura con il passato è ancora più netta, come accade per le persona anziane.
A ben riflettere, la stessa espressione “terza età” con la quale – in maniera diffusa e talvolta esclusiva – si preferisce designare la posizione degli anziani è funzionale all’indirizzo ora descritto. Terza età, in effetti, è quella che segue ad una prima età infantile e ad una seconda della maturità: ovvero, se si predilige il linguaggio della società tecnologica tutta incentrata sul momento della produzione, ad un’età prelavorativa succede un’età lavorativa e ad entrambe la terza che è un’età postlavorativa o di pensionamento.
E proprio in quest’ultima prospettiva si scopre la tendenza della società odierna a prediligere l’homo oeconomicus, facendo leva sui criteri di utilità, funzionalità, efficienza. Una sorta cioè di empirismo pragmatico che privilegia e spinge l’uomo in un’unica dimensione, ancorandolo alla categoria dell’avere e trascurando quella dell’essere.
E tuttavia, il processo di secolarizzazione avanzato che contraddistingue la società attuale potrebbe registrare un vistoso rallentamento proprio nei confronti delle persone anziane, sì che alla prima si contrappone, per dir così, l’età della contemplazione. Sono determinanti qui un fattore generazionale, ma anche uno di ordine esistenziale. Mi spiego. La persona anziana è solita porsi, più frequentemente rispetto agli altri, domande di senso: l’origine della vita; il destino finale dell’uomo; è solita, ancora, riprendere o svolgere una maggiore sensibilità per i dati fondanti di ogni esperienza umana nonché del messaggio religioso.
Non interessa, per ora, registrare la lenta, ma sicura tendenza – confermata per di più dai dati statistici – all’espansione, come durata cronologica, della prima e della terza età e alla conseguente restrizione dell’età lavorativa. Né importa, per altro verso, interrogarsi sulla differenziazione tra anzianità e vecchiaia, indicando come elemento distintivo di quest’ultima la totale mancanza di capacità lavorativa, se poi il nodo centrale rimane sempre collegato all’età.
3. Sulla natura dell’età predomina in dottrina la tendenza ad esaurire la trattazione in una dimensione descrittiva, fornendo talora definizioni che, in mancanza di ampio svolgimento e di adeguata dimostrazione, rischiano di apparire apodittiche. Né si ottengono migliori risultati allorquando le definizioni si colorano di accenti naturalistici, nell’intento di circoscrivere la nozione dell’età ad uno dei numerosi profili dai quali è possibile contemplarla: così, taluno la fa consistere nell’avverarsi di un fatto puramente naturale. Ma anche chi recupera il momento della giuridicità, discorrendo dell’età come di un “attributo della persona integrante un (semplice) fatto giuridico”, sembra rifugiarsi in un’immagine che, riannodandosi ad una “qualità” riconosciuta all’individuo, si alimenta di un concetto orientato a porne in risalto i caratteri della staticità e della definitività.
L’età, invece, è elemento perennemente in movimento, dinamico, che proprio nella continua mutevolezza scopre la sua ragion d’essere: essa identificandosi con il divenire e con il trascorrere del tempo, rifiuta i connotati della fissità, della datità.
Più adatta a cogliere la funzione primordiale che si può assegnare all’età si rivela la teoria che, pur attribuendole la natura di qualità dell’individuo, di elemento dello stato civile, ne sottolinea l’idoneità a stabilire, con il concorso di altri requisiti, l’identità di una persona. E’ indubbio che l’età si presenta come unità di misura, come trasposizione nel linguaggio chiaro delle cifre di un fenomeno altrimenti indefinibile. Del resto, se il ciclo della vita si organizza in un inizio, in uno svolgimento e in una fine, è proprio l’età che consente di collocare l’uomo in un punto preciso di tale evoluzione, contribuendo inoltre all’esatta ricostruzione e valutazione di ogni evento prodotto dalla sua attività.
Tuttavia, l’indirizzo che ipotizzasse di sussumere nel mondo del diritto l’età singolarmente presa, considerandola cioè scissa da qualsivoglia rapporto con l’individuo, al fine di meglio realizzarne la traduzione nel linguaggio giuridico e verificarne l’influsso sulle umane vicende, dovrebbe essere immediatamente respinto. In effetti, anche a voler designare l’età come un aspetto della persona – più correttamente, espressione numerica di uno stadio del suo sviluppi psico-fisico – essa costituirebbe sempre parte integrante della realtà unitaria in cui consiste l’uomo. Cosicché, già da questo punto di vista non è lecito staccare dalla persona, se non forse per comodità espositiva, soltanto un attributo e farne l’oggetto di un’autonoma indagine.
Ma l’età, inserendosi nella vasta tematica del tempo, più che aspetto della persona o, in generale, fatto, è – così come accade per le nozioni che attengono allo spazio – modalità, relazione, alla cui stregua la persona è destinata a muoversi e senza la quale non è concepibile un discorso intorno alla sua esistenza ed alle sue azioni. Così, se non pare ammissibile che dell’uomo siano assunti nel diritto gli isolati contegni, atomi colti e cristallizzati nell’irripetibile momento del loro verificarsi, non sembra neppure proponibile un trasferimento sul piano normativo dell’uomo astratto, ossia disgiunto dalle categorie spaziali e temporali.
In realtà ogni essere umano vive e descrive la sua parabola nella dimensione giuridica, immerso nella relazione fondamentale del tempo che, attraverso le tappe dell’età, ne registra la lenta evoluzione.
4. Che poi, in tale prospettiva, l’età interferisca con i fenomeni disciplinati dal diritto è osservazione agevole e non contrastata: basti qui richiamare soltanto il tema della capacità giuridica e della capacità di agire per averne immediata conferma. Semplicistico apparirebbe tuttavia il tentativo di indirizzare l’argomento dell’età nella problematica del principio di eguaglianza, specialmente se s’invoca una parificazione livellatrice delle persone che non tenga conto dei bisogni e degli interessi innegabilmente variabili secondo l’età di chi li manifesta. Ma non è certamente da sottovalutare la sostanziale sconfessione del principio di eguaglianza – e sia pure, ma non sempre, sul piano formale – allorché, a parità di tutte le altre condizioni, l’età assurge ad elemento discriminante la posizione di uno o di altro soggetto.
Si pensi, ad esempio, al fenomeno della c.d. commorienza, in cui una tradizione legislativa e dottrinale fa derivare conseguenze non di poca importanza, in tema di sopravvivenza o di morte dei soggetti, dall’essere compreso oppur no in una certa classe di età. Com’è noto, nell’ordinamento italiano già con l’art. 924 c.c. del 1865 e poi con l’art. 4 c.c. del 1942 si era abbandonato il sistema tradizionale delle varie ripartizioni di età. Non così, invece, nell’ordinamento francese dove gli artt. 720 e 721 c.c., almeno fino alla riforma del 2001 (l. n. 2001-1135) continuavano a collegare le presunzioni di sopravvivenza alle differenti classi di età, in più adoperando nell’art. 720 una espressione: force de l’âge che sembra risentire di un’impostazione esclusivamente fisica di tale elemento. Si pensi altresì all’istituto del maggiorasco, ora definitivamente tramontato: e tuttavia l’art. 741, comma 1, c.c. francese avvertiva, fino alla riforma citata del 2001, anche l’esigenza di precisare che i figli succedono ai genitori e agli ascendenti “sans distinction de primogéniture”.
Bisogna peraltro rilevare che talvolta nello stesso diritto positivo l’età non assume alcun rilievo al fine di qualificare in un modo o nell’altro una determinata situazione. Esemplare, in proposito, è l’art. 315 c.c. nella formulazione anteriore alla l. 19 maggio 1975, n.151, dove il figlio, “di qualunque età sia”, deve obbedienza e rispetto ai genitori. L’equivalente espressione (“à tout âge”) è ancora presente nell’art. 371 c.c. francese.
In definitiva, nell’affrontare il problema della persona umana contemplata sotto l’aspetto dell’età, al fine d’individuare l’influenza che quest’ultima ha sul diritto, si dovrebbe evitare ogni ricorso a schematizzazioni, del tutto incompatibili con tale materia. La soluzione ottimale consiste nel ricercare in ciascuna ipotesi gli interessi e le condizioni cui, rispettivamente, s’ispira e da cui è determinata l’attività del singolo uomo. Questi deve essere di volta in volta collocato nella sua concreta dimensione temporale per comprenderne meglio e soddisfare le effettive esigenze: l’homme situé, la persona concreta, la persona in situazione come canone metodologico da utilizzare anche nella tematica degli anziani.
5. Per tornare al nostro argomento, anche sul piano delle scienze sociologiche e mediche non sembra che si registri accordo alcuno in ordine alla suddivisione dell’età. Così, per richiamare soltanto qualche esperienza, in campo sociologico si è contrapposta all’età biologica l’età funzionale, collocandosi quest’ultima tra cinque anni prima e cinque anni dopo l’età cronologica. Mentre, in campo medico, ad un periodo contrassegnato dalla ripartizione della vita umana in varie età è succeduta la più recente convinzione che essa si riduca a due cicli soltanto: età evolutiva ed età involutiva.
Comunque sia, di estrema e forse insuperabile difficoltà si presenta la determinazione del preciso momento in cui avviene il passaggio dall’una all’altra ovvero si completa un ciclo e se ne inizia uno nuovo: tant’è che le più moderne ricerche sulla salute e gli studi di psicometria sono orientati a rilevare che “ le persone , dotate già in partenza di potenziali differenti, invecchiano anche differentemente”. In sostanza, “ il ritmo dell’invecchiamento biologico e intellettuale è lungi dall’essere uguale per tutti”. Esso “non segue neppure il decorso cronologico degli anni”.
Alla luce di tali acquisizioni, diventa probabilmente innegabile che la vita di ogni uomo si manifesta come un continuum che si svolge tra la nascita e la morte dell’uomo. Anzi, proprio in questo divenire si scopre il tratto distintivo dell’età nella sua funzione di qualità essenziale dell’uomo. “Die Existenz des Menschen ist Geschehen in der Zeit: Sie beginnt mit einem Werden und endet mit einem Vergehen: Was dazwischen liegt, das Leben, hat vom Werden wie vom Vergehen”.
6. Se poi si passa sul piano giuridico, in particolare alla regolamentazione apprestata dal diritto civile, si riscontra immediatamente la peculiarità che il limite massimo di età sancisce sempre la fine di un’incapacità o, in termini meno tecnici, di una limitazione e giammai l’inizio: infatti, dalla piena capacità non si decade mai, almeno per motivi dipendenti dall’età.
Così, per esemplificare, alla persona ultracentenaria è consentito riconoscere un figlio naturale: il che, invece, è notoriamente vietato a chi non è ancora pervenuto al sedicesimo anno di età (art. 250, comma 5, c.c.). Del resto, limiti massimi di età come decadenza non esistono neanche per il matrimonio (cfr. art. 84 c.c.) e per il testamento (art. 591 c.c.). E’ scomparsa, inoltre, dal nostro ordinamento la norma – ma vedi l’art. 36 c.c. del 1865 – secondo cui l’età di cento anni costituiva il limite massimo presuntivo di vita, ai fini dell’immissione nel possesso definitivo dei beni dell’assente: nell’ordinamento francese la disposizione equivalente (art. 129 c.c.) è rimasta in vigore fino alla riforma introdotta con l. n. 77-1447 del 28 dicembre 1977.
Né giova ribattere che, in compenso, si rinvengono alcune norme – come, ad esempio, l’art. 352, n. 5, c.c. – che potrebbero essere invocate a sostegno della tesi incline a scorgere nell’età avanzata la causa dell’eliminazione di un diritto. Ma la dispensa dall’ufficio tutelare, che fra l’altro è concessa soltanto su domanda di chi ha raggiunto il sessantacinquesimo anno di età, non rappresenta un’ipotesi di decadenza né, meno che mai, ha attinenza con il problema della capacità.
7. D’altro canto, andrebbe anche verificata l’ipotesi dell’esistenza di una specifica normativa che, prendendo in considerazione le persone anziane, le trasformi in categoria protetta a decorrere da un certo limite di età. La proposta s’ispira sempre alla visione che descrive l’età, organizzandola in classi, come fattore discriminante in ordine al grado di protezione giuridica delle persone. E’ accaduto per il passato in negativo con riferimento ai minori di età, lo schema si ripropone in positivo per gli anziani.
Ma qui è opportuno ripetere che l’età non è né può essere, nel disegno costituzionale e nella vigenza dei diritti fondamentali, elemento che divide gli uomini in classi: si è meno o più protetti a seconda che il passare degli anni si collochi al di sotto o al di sopra di un limite prefissato di età. Ciò non toglie che il giurista non debba valutare e tener conto delle imprescindibili esigenze di tutela e di protezione che si prospettano, nelle ipotesi concrete, nei confronti di singole persone, siano esse minori o anziani. La protezione e la tutela della singola persona non collide con l’affermazione – di sicuro rilievo costituzionale – che l’esistenza di questa è anch’essa scandita sui ritmi della dignità della persona umana e dello sviluppo della personalità (artt. 2 e 3, comma 2, cost.).
Le sparse norme che si rinvengono qui e là nel sistema ordinamentale e che sembrano dedicate agli anziani: cito, a titolo esemplificativo, l’art. 540, comma 2, c.c., sulla riserva al coniuge dei diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano; l’art. 352, n. 5, c.c. (già richiamato) di dispensa su domanda dall’ufficio tutelare dell’ultrasessantacinquenne; gli artt. 438 e 443 c.c. in tema di alimenti; l’art. 2, comma 2, lett.f, l. n. 833 del 1978, sulla tutela della salute degli anziani per prevenire e rimuovere le condizioni di un’emarginazione; l’art. 163 c.p., sulla sospensione condizionale della pena per gli ultra settantenni e altre ancora: ebbene, queste disposizioni mi pare che non soltanto prescindano da una situazione generalizzata di peculiare protezione accordata a chi abbia raggiunto una certa età, ma non si organizzano affatto a sistema di tutela dell’anziano. Infatti, esse non fondano la giustificazione dell’intervento esclusivamente sull’elemento dell’età; al contrario, a tale fattore – molto spesso soltanto presupposto – si accompagnano sempre altre condizioni: ora, ad esempio, il bisogno economico (artt. 438 e 443 c.c.); ora, la salute (artt. 404 ss. c.c. e art. 2, l. 833/1978); ora, l’incapacità d’intendere e di volere (art. 428 c.c.) e via enumerando.
Con particolare cautela, pertanto, vanno valutate le proposte, finora molto generiche e di certo pericolose, di istituire un ufficio di pubblica tutela che prevede forme di aiuto, di assistenza (anche nei rapporti patrimoniali), di sostegno all’anziano, con fissazione di limiti alla capacità sia pure definiti caso per caso. La prudenza si trasformerebbe poi in preoccupazione, se non in decisa contrarietà, allorché ci si muovesse nella prospettiva di raccordare un’incapacità, quand’anche limitata, all’indice esclusivo dell’età.
Per fortuna, com’è noto, in tutt’altra direzione si è mossa la normativa che, intitolata all’amministrazione di sostegno, opera fin dal 2014 nel nostro ordinamento.
Pertanto, la senilità, essendo espressione di un aspetto fisiologico della vita umana – in assenza di altre condizioni personali che incidendo sulla salute si sostanziano in uno stato patologico – non può comportare una riduzione o attenuazione della capacità: si finirebbe, altrimenti, con il “giustificare in applicazione del principio di eguaglianza sostanziale uno statuto particolare di deroga all’eguaglianza formale”. Da tempo poi è avvenuto il distacco dell’età avanzata dal paradigma della salute: sì che non si ha necessaria equivalenza tra persona anziana e persona vulnerabile.
A livello di norma fondamentale, mentre non è dato discorrere in maniera puntuale di costituzionalizzazione della tematica degli anziani – diversamente da quanto è avvenuto in alcune più recenti esperienze : ad esempio, nelle costituzioni del Portogallo e della Spagna (rispettivamente artt. 72 e 50) nonché nell’art. 25 della Carta di Nizza -, non si possono neppure avallare indirizzi dottrinali che riconoscono “diritti” soggettivi, più o meno perfetti e azionabili, riservati esclusivamente agli anziani, come categoria individuata con una classe di età e perciò particolarmente protetta. Tali pretesi “diritti”, meglio situazioni giuridiche soggettive soprattutto esistenziali, sono, né una di più né una di meno, quelle da ricollegare all’uomo assiologicamente guardato nella sua dimensione di persona concreta (arg. ex artt. 2 e 3, comma2, cost.).
8. Alla luce delle precedenti considerazioni soddisfano poco le variegate e numerose tutele che, anche in campi non strettamente giuridici, pure sono individuate e ampiamente descritte a difesa delle persone anziane. Così, è noto il riferimento alla tutela assistenziale che rinviene il proprio fondamento nell’art. 38, comma 1, cost., nonostante la mancanza di ogni espresso rinvio al tema dell’età che pur dovrebbe sovrintendere alla materia.
Altrettanto conosciuto è il richiamo della tutela previdenziale che, a differenza dell’altra ipotesi, scopre nell’art. 38, comma 2, cost., più solidi legami con l’età avanzata, dal momento che la previsione di mezzi adeguati alle esigenze di vita è direttamente collegata, fra l’altro, con la vecchiaia. In questo caso, tuttavia, più trasparente diventa l’utilizzazione del criterio produttivistico come discriminante delle categorie di persone: gli anziani, osservati in una fissità innaturale che riecheggia tramontati schemi della sociologia dei ruoli, diventano da produttori ex-produttori e forse, se dotati di mezzi adeguati, reinseriti nel mercato come consumatori.
Non solleva contrasti, invece, il rilievo che un profilo di idonea protezione degli anziani sia costituito dalla tutela sanitaria che incentra il proprio caposaldo nella disposizione dell’art. 32 cost. e poi nella normativa di attuazione (cfr. specialmente art. 2, l. n. 833 del 1978). Se non altro perché con questa indicazione si rafforza l’indirizzo che propende a rapportare una protezione specifica non all’anziano in quanto tale ma all’anziano se ed in quanto persona bisognevole di cure. In questa prospettiva, scade a luogo comune la precisazione che la salute – com’è ormai a tutti evidente – non consiste soltanto nell’assenza di malattie, ma nello stato di benessere fisico, psichico e sociale della persona: il richiamo assume, per gli anziani, una particolare valenza.
Non priva di suggestione è la soluzione che si affida totalmente alla tutela lavoristica: la tendenza, che prende le mosse dall’art. 2 cost, non intende avvalersi di strumenti previdenziali ma fa leva esclusivamente sul riconoscimento e sulla piena attuazione del diritto al lavoro. Insomma “anche l’anziano, se lo vuole e non vi ostano le sue condizioni di salute, ha diritto ad un lavoro, libero e dignitoso, oltre che socialmente utile (arg. ex comb. disp. artt. 4, 36, 41, comma 2, cost.), magari nella forma del part-time” ovvero nello stesso settore dei servizi sociali. La proposta, a tacer d’altro, sconta i limiti intrinseci e quelli esterni che derivano dal collegamento della tutela al rapporto di lavoro.
Né di maggior forza persuasiva mi sembrano dotate le tutele, come ad esempio quella urbanistica e quella, per così dire “ludica”, tese l’una ad eliminare le barriere architettoniche e a progettare case-riposo, alloggi integrati, comunità-alloggio, case-albergo, centri residenziali e case protette; l’altra ad organizzare viaggi, svaghi e, in genere, la c.d. terapia del tempo libero.
9. In tutte queste forme di tutela, ed in altre pur ipotizzabili – di là dalle singole obiezioni che possono essere mosse a ciascuna di esse -, accade sovente che la figura dell’anziano ne risulti spezzettata, segmentata: quasi che la risposta parziale, la soddisfazione di uno dei bisogni costituisca la soluzione del problema.
Si perde di vista, in tal modo, l’unitarietà della persona umana e quindi anche di quella anziana. Ne deriva che, per fare un solo esempio, la visione unitaria della persona soprattutto nei profili del rispetto della dignità umana e dello svolgimento della personalità non richiede l’organizzazione di case-riposo, alloggi integrati e così via, bensì esige – fin dove è possibile e anche oltre – il mantenimento dell’anziano nell’ambiente familiare, sociale, economico ed urbanistico dove egli è solitamente vissuto.
Così come non convince una soluzione, per così dire, panassistenzialistica dei problemi degli anziani: il grosso rischio che si corre consiste, fra l’altro, nel ridurre questi ultimi a categoria protetta, passando da una marginalità congiunturale ad una strutturale.
La stessa prospettiva giuslavoristica, protesa com’è nell’esclusiva direzione di occuparsi dei problemi, certamente rilevanti, delle pensioni e della sicurezza sociale non sembra offrire elementi di completa definizione e di appagante soddisfazione. Tanto più che finanche la proposta più suggestiva e che fa leva sulla piena attuazione del diritto al lavoro potrebbe esaurirsi in una dimensione unilaterale: quand’anche l’anziano si vedesse riconosciuto e in pratica attuato il diritto al lavoro, ma non fosse rispettato nella sua dignità e altrimenti venisse ostacolato nello sviluppo della sua persona, non si sarebbe perciò raggiunto l’obiettivo. Senza contare poi che quella indicata non sarebbe certamente la strada da percorrere, ad esempio, per anziani non autosufficienti.
E’ vero, per altro verso, che le tendenze più recenti della legislazione, almeno in sede di proposte di riforma, si muovono nel senso di utilizzare il lavoro part-time degli anziani. Tuttavia, tanto il ricorso a forme di lavoro a tempo limitato quanto il puro e semplice spostamento in avanti dei termini cronologici del pensionamento non mi sembrano destinati a superare definitivamente il problema, semmai a procrastinarlo.
In sostanza, il problema degli anziani non è contenuto tutto nel profilo sanitario, ma non si risolve neppure, con singolare cambiamento di prospettiva, in quello socio-assistenziale: in ogni caso, essenziale è che sia rafforzata la tendenza ad assicurare, là dove possibile, l’assistenza domiciliare.
Probabilmente, la soluzione non si rinviene, come si propende a sostenere, interamente nella famiglia, in cui peraltro la solidarietà giuoca un ruolo essenziale ed insostituibile o, come altri credono, totalmente nello Stato ovvero nel volontariato sociale, più o meno organizzato dagli enti esponenziali o ancora nella formazione professionale degli addetti ai servizi e nella riforma-quadro dell’assistenza.
In ordine a tali profili, la normativa regionale non si presenta del tutto adeguata, nonostante il tentativo di disegnare “un sistema di servizi sociali ed assistenziali”: nuoce, in proposito, la pretesa di tutto definire e classificare, dalla nozione di anziani a quella di servizi aperti, servizi residenziali e via elencando. Non è di aiuto la limitatezza del campo d’intervento delle regioni né si possono cancellare, d’un solo colpo, le differenze tra regione e regione che riproducono, anche nel settore dei servizi sociali, sperequazioni economiche e sociali.
Il problema è complesso e forse un avviamento verso la soluzione può provenire dalla valutazione globale del singolo anziano, nella prospettiva che distingue invece di assimilare. Ne consegue che ora la risposta risiede nel diritto alla salute, ora nell’attuazione della sicurezza sociale; talvolta, nel ricorso delle circostanze previste, sarà sufficiente la scelta di una modalità per la somministrazione degli alimenti (art. 443, commi 1 e 2, c.c.); talaltra, si renderà opportuno il ricorso al c.d. diritto di visita, meglio: diritto alle relazioni personali (ora regolamentato nell’art. 317 bis c.c.), ma soltanto se esso è conforme all’interesse soggettivo ed oggettivo del minore; altre volte sarà necessario affermare ed attuare la partecipazione dell’anziano ai servizi a lui destinati ovvero alla gestione delle comunità in cui si trovi inserito. Non è escluso che in alcune ipotesi tali tutele debbano concorrere tutte insieme, in altre una o più. Essenziale è che la molteplicità delle forme d’intervento non si traduca mai in negazione della sostanziale unitarietà della persona e sempre nel rispetto della sua dignità.