Lo scritto anticipa i concetti che, con l‘aggiunta dei saluti di circostanza e con alcune modifiche peraltro poco rilevanti, costituiranno l’oggetto dell’indirizzo di saluto ed apertura del 70° Convegno nazionale di Studio dedicato a “Gli ultimi. La tutela giuridica dei soggetti deboli”

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Damiano Nocilla

Direttore

Chi segue da un certo numero di anni la nostra attività ricorderà certamente che molti, nostri precedenti convegni di studio sono stati dedicati all’esame della condizione giuridica di singole, specifiche situazioni di fragilità: i minori, le donne, i poveri, gli stranieri etc

Non vi è dubbio che questa tradizione è stata uno stimolo a concepire il Convegno odierno, che trova, però, la sua principale ispirazione nel Magistero dell’attuale Pontefice, il quale – sottolineando l’unicità della c.d. “cultura dello scarto”, della tendenza, cioè, a mettere ai margini della società chi, in un modo o nell’altro, sotto questo o quel profilo, si trova in una situazione si svantaggio – ha posto all’attenzione del mondo intero una questione universale: come far agli speciali Inter imponenti problemi che comporta la sussistenza di  quelle situazioni di debolezza, che investono alcune categorie di persone?

Se unico è il disvalore da contrastare (cioè la cultura dello scarto), unico sarà anche il valore, in nome del quale si attiva il contrasto.

E non si dica che sostituire alla cultura del disinteresse e dell’esclusione quella del chinarsi verso le situazioni di fragilità e, se si vuole, quella dell’abbraccio (secondo la felice espressione di Don Primo Mazzolari), non costituisce un problema giuridico, ma etico e tutt’al più politico!

Mi sia consentito, a questo punto, di aprire una parentesi.

È stato sottolineato, a proposito della povertà – ma la notazione potrebbe essere estesa ad ogni tipo di fragilità -, che l’attenzione rivolta al soggetto debole (quale che sia il tipo di debolezza sofferto) non è “unidirezionale”, in linea di principio anche chi riceve tale attenzione, a sua volta, dà qualcosa al soggetto (Stato, organizzazione benefica, singolo benefattore), che si sia chinato verso di lui.

Il dono – è stato detto – è un’azione reciproca.

E cioè anche perché devono ormai ritenersi superate alcune idee per lo più circolanti in passato, che giustificavano la beneficenza in tutte le sue forme come moto spontaneo ed unilaterale del soggetto benefattore.

Per esempio, nello Stato monaclasse borghese circolava l’idea che l’attenzione dello Stato-persona verso gli indigeni si fondasse sul timore che questi ultimi si coalizzassero e dessero vita a turbamenti della quiete sociale dei ceti abbienti. Ma altrettanto potrebbe dirsi di quella elaborazione culturale diffusa nel Cristianesimo medioevale, per la quale l’assistenza al malato, al viandante, al povero era solo un mezzo per assicurare a sé stessi la salus animae.

Ora, il soggetto debole ci appare sotto un duplice aspetto, ognuno dei quali aspetti si trova, si fa per dire, in dialettica opposizione con l’altro.

Da un lato, per il fatto che fragilità ed emarginazione si trovano ad essere spesso il rapporto di mutua implicazione, malgrado i due concetti attengano a piani diversi, il soggetto fragile è fuori dal gruppo di coloro che, sotto il profilo della sua fragilità, potremmo definire dotati di una forza, per così dire, “normale”. Di fronte a questi ultimi si pone come “oggetto” della loro attività.

È fuori dalla società-attiva, che può assumere nei suoi confronti un atteggiamento che, in prima approssimazione, potremmo dire di indifferenza, di respingimento, di assistenza (o, se si vuole, di recupero).

Ma, d’altro lato, il soggetto fragile è un membro della società, e la costituisce, vi appartiene come soggetto-parte, ne è elemento: è parte costitutiva della vicenda dell’uomo.

Se è così, tuttavia, l’attività che si china sul soggetto fragile e che tende al suo recupero, È tesa a ricostituire la società, a ridare al gruppo la sua completezza, a riproporre la sua compattezza, forza ed efficienza, mentre tanto l’indifferenza quanto l’esclusione, non soltanto negano la dignità del soggetto debole, ma finiscono per rinunciare ad una parte costitutiva della comunità, dello stesso gruppo sociale, ne frantumano l’essenza.

Ed ecco che siamo di fronte ad un’alternativa.

In una prospettiva di indifferenza e di esclusione il soggetto, che incarna una situazione di fragilità, disturba l’equilibrio – direi quasi l’esistenza – della comunità. Sicché, quando il fragile, il debole o il diverso viene percepito, in situazioni estreme, come pericoloso per l’integrità del vincolo che unisce la comunità, rischia di essere qualificato come hostis, come estraneo in riferimento all’intero popolo di una comunità statale.

Ritengo necessario fermarmi a questo punto, anche perché chiunque abbia una minima pratica di letture schmittiane percepisce a quale aberrante cultura di morte può condurre questo modo di argomentare.

Ma se soltanto si inverte la prospettiva e si considera che è interesse dello stesso ordinamento che fra i soggetti, che ne compongono la realtà, non vi siano esclusi, ci si trova di fronte all’altro corno del dilemma. Occorre chinarsi sul soggetto debole, trovare forme e strumenti che ne consentano il recupero, incoraggiarne l’inclusione.

A questa stregua il problema si fa inevitabilmente giuridico e si dovrà presupporre l’esistenza di un valore che deve tradursi in discipline di diritto positivo di istituti, organizzazioni, rapporti intersoggettivi: e questo valore sarà quello del contrasto a qualsiasi manifestazione della tendenza ad escludere il soggetto debole.

Debbo fare una considerazione di carattere personale. Mentre parlo mi par di sentire la voce di colui che considero il mio indimenticabile Maestro, che mi dice “ Ma questo è un problema per anime belle! Le situazioni di fragilità sono l’una diversa dall’altra sia per tipo, che per intensità, che per condizioni che ne determinano la rilevanza; e l’ordinamento non può che prevedere a tal proposito discipline giuridiche differenziate.

Il tentativo di individuare un tipo unico di soggetto debole è destinato a fallire, sicché, anche quando la situazione economico-sociale fa emergere nuovi tipi di fragilità sociale, la situazione di questi soggetti avrà giuridica rilevanza solo se ed in quanto l’ordinamento positivo ne abbia fatto l’oggetto di specifica disciplina puntuale”.

L’obiezione è seria e va presa in considerazione.

È intuitivo che diverse sono le ragioni della fragilità del soggetto: chi è fragile dal punto di vista economico è ben diverso da colui che è fragile dal punto di vista fisico o perché disabile o perché affetto dal morbo.

Vi è chi è fragile per ragioni della propria età (il minore, da un lato, e l’anziano, dall’altro) e chi è fragile in ragione del genere di appartenenza. Si può essere fragili per il fatto di essere un migrante, ma anche per la propria temporanea condizione di viandante; così come si può appartenere ad una categoria debole e discriminata per ragione della propria razza o a causa della religione professata.

Da un diverso punto di vista, può variare anche l’intensità della fragilità presa in considerazione, sicché possono distinguersi fragilità c.d. “assolute” da fragilità, che possono dirsi in certo qual senso, “relative”.

Nello stesso tempo occorre essere consapevoli che una forma di fragilità, che assume rilevanza certi fini, può non assumerne alcuna sotto altri aspetti: così, ad esempio, una persona, che sia soltanto impedita nei movimenti, può essere particolarmente esposta a subire le conseguenze dannose di certi reati (percosse, scippi, etc.), anche se, poi, la sua fragilità può non avere rilievo per quanto attiene alla capacità di contrattare. 

Ma gli esempi potrebbero continuare all’infinito!

Così come infinite sono le modalità, attraverso le quali l’ordinamento può reagire alle diverse forme di fragilità, o sanzionando le varie attività poste in essere in danno delle persone fragili o, all’opposto, disciplinando quelle che singoli, organizzazioni private e gli organismi facenti capo ad amministrazioni pubbliche pongono in essere per venire incontro alle persone, che potremmo definire in vario modo indigenti.

Per chi ritiene che il valore, che si pone e diffonde all’interno di una comunità, quale che essa sia (Stato, associazione, etc.), per il solo fatto di essere un valore etico-sociale, assume rilevanza giuridica e deve essere sempre considerato da legislatori, giudici, operatore del diritto in sede di produzione o di interpretazione del diritto positivo; per chi dovesse partire da questo presupposto- si diceva -, non vi sarebbe dubbio sulla necessità che i soggetti, cui è affidata alla creazione e l’applicazione della diritto positivo non possano prescinderne ogni volta che si dovessero trovare di fronte ad una situazione identificabile come “situazione di fragilità”.

Ma occorre riconoscere che un tale ragionamento – che a mio avviso non è altro che uno dei tanti aspetti dell’inevitabile collegamento tra etica e diritto – può essere accusato di atteggiamento giusnaturalista o di giusliberismo: di trasformare cioè, una mera aspirazione alla giustizia del caso concreto in un precetto di diritto positivo.

Ed è proprio per aggirare questa accusa che una larga corrente di sostenitori della c.d. “interpretazione per valori” ritiene che, per poter assumere giuridica rilevanza, per poter divenire cioè, elemento immanente dell’ordinamento, il valore deve assumere “oggettività” all’interno del sistema giuridico.

Tale oggettivazione dei valori si raggiunge selezionando in Costituzione quei valori che sono pervenuti ad “un tale grado di accettazione intersoggettiva da essere qualificati come indispensabili al vivere comune” (A. Longo, 298).

In altri termini i valori capaci di irradiarsi nei più reconditi angoli dell’ordinamento sono quelli articolati in principi normativi, che emergono al livello di principi costituzionali: I valori vivono attraverso la positivizzazione in principi.

Ora, ci si può domandare se il valore di accoglienza dell’emarginato e dello scartato, dell’inclusione del debole e del fragile sia contenuto in un principio esplicitato in una o più singole disposizioni della nostra Costituzione.

A questo proposito, nonna mi sembra difficile ricavare, con metodo induttivo, tra le tante disposizioni costituzionali e legislative – attraverso le singole disposizioni costituzionali, relative a talune categorie di soggetti deboli (penso, exempli gratia, agli artt. 10, terzo comma, 24, terzo comma, 27, terzo comma, 29, secondo comma, 30, 31, 32, secondo comma, 34, secondo e terzo comma, 35, 37, 38 etc. Cost.), e attraverso le prescrizioni legislative, che disciplinano situazioni di fragilità anche diverse da quelle costituzionalmente considerate –  un principio generale dell’ordinamento, pur non esplicitamente formulato, e tuttavia implicitamente contenuto in una numerosa serie di disposizioni espresse, del quale si può anche dire che caratterizzi l’intero ordinamento.

Un principio che potremmo indicare come principio di “fraternità” o di “solidarietà” e che non fa altro che inverare nel sistema quel valore di inclusione del fragile, del debole, dello scartato.

È un valore quest’ultimo, la cui luce irradia – come si è detto – gli angoli più reconditi dell’ordinamento e che s’impone alle legislatore al pari degli altri valori più o meno esplicitamente affermati dalle disposizioni della nostra Costituzione?

E quale ruolo potrà giocare questo valore nel bilanciamento con gli altri valori costitutivi del nostro ordinamento, soprattutto per ciò che attiene al controllo di ragionevolezza operato dalla Corte costituzionale sulla legislazione?

E come si imporrà questo valore agli interpreti delle diverse disposizioni legislative, soprattutto quando questi ultimi dovranno affrontare la tutela di situazioni di fragilità, che non siano state ancora espressamente prese in considerazione dal legislatore con specifiche disposizioni?

Sono tutte questioni alle quali la scienza giuridica dovrà dare una risposta