Spirito e lettera della legge, considerazioni antropologiche
Francesco D’Agostino
1. L’uomo è soggetto in relazione e la sua relazionalità è sempre indiretta, cioè mediata linguisticamente. Senza il linguaggio l’uomo perderebbe la propria identità: cadrebbe in un isolamento solipsistico (di cui è tragica e definitivo espressione la catatonia) o si dissolverebbe nell’esteriorità delle relazioni (come avviene nel caso degli animali, nei quali alla relazionalità “esterna” –in specie con l’uomo nel caso degli animali domestici- non corrisponde –a quanto ci è possibile percepire- alcuna dinamica di relazionalità “interna”, cioè alcun dialogo con se stessi).
2. Di conseguenza, anche quella peculiare forma di relazionalità, che è la relazionalità giuridica, non può che manifestarsi linguisticamente. Il principio di giustizia può anche essere percepito e vissuto sentimentalmente, o emozionalmente (esattamente come il senso del divino può essere percepito misticamente), ma non potendo essere espresso linguisticamente, non potrà mai esibire la propria attendibilità e tenderà inevitabilmente a degenerare nel fanatismo: e il fanatismo (quello religioso, come quello giuridico) afferma se stesso non con la parola (e meno che mai con la parola evangelica), ma con l’azione, cioè con la violenza (con la crociata o con il linciaggio.
3. Assumiamo, come punto di partenza di queste riflessioni, che il diritto –e nell’orizzonte del diritto la legge- siano strutture esclusivamente umane e quindi linguistiche. La legge però non la si può ridurre sotto ogni profilo ad una delle sue molteplici dimensioni linguistiche, cioè alla sua espressione letterale: questa è una consapevolezza antica, cristallizzatasi, nella tradizione cristiana, grazie alla straordinaria, potente espressione di San Paolo (2 Cor 3): la lettera uccide, lo spirito dà la vita, espressione che non è mai stata intesa (se non marginalmente) come una negazione della legge, ma come l’esigenza di non separarla mai dalle sue ragioni costitutive, che eccedono sempre, e sistematicamente, la capacità recettiva dell’espressione linguistica, in cui la legge, ogni legge, necessariamente si incarna.
4. L’irriducibilità della legge alla sua espressione letterale e la subordinazione di questa alla “forza dello spirito” sono però andate incontro, soprattutto nella modernità, ad una sorta di appannamento. L’esigenza –diventata quasi nei secoli un assioma comune- di rivolgere sempre prioritariamente lo sguardo allo spirito della legge ha cominciato ad essere percepita come pericolosa. Nessuno, meglio di Cesare Beccaria, ha espresso questa sensazione, quando ha scritto che il primato riconosciuto allo spirito della legge si rivela un argine rotto al torrente delle opinioni e quindi un subdolo vulnus alla sovranità del legislatore, alla cui intenzione implicita (cioè al cui spirito) sembra sì che si voglia recare omaggio, nel momento stesso però in cui si disattende la sua intenzione esplicita, affidata espressamente alla lettera della legge, che viene invece disattesa. E’ in una cornice del genere che si potrebbe ricostruire l’avvento lento, pervasivo, ma alla fine trionfante della mentalità giuspositivistica.
5. Il giuspositivismo, ovviamente, non è così banale come lo dipingono molti dei suoi avversari: il rischio della reductio ad Hitlerum lo contraddistingue senza alcun dubbio, ma non lo qualifica in modo del tutto corretto. Il primato che il giuspositivismo riconosce alla lettera della legge non è epistemologicamente così ottuso come potrebbe apparire sulle prime. Se è vero che il giuspositivista vede nella positivizzazione del diritto la dimensione tipica e irreversibile del diritto moderno (così come nella giurisdizionalizzazione del diritto va vista la dimensione tipica del diritto “classico”, premoderno), è altresì vero che tale positivizzazione non è da interpretare come una grossolana esaltazione dell’ auctoritas del legislatore, ma come una ben più sottile affermazione del carattere storico e dinamico della legislazione moderna, cui viene riconosciuta validità, non per il suo modellarsi sui principi astorici del diritto naturale, ma per la sua intrinseca capacità di rinnovare costantemente le sue formulazioni, cioè di selezionare,tra le diverse forme che può assumere un diritto possibile, la forma destinata a imporsi come diritto valido in ogni situazione determinata della storia. Il primato della lettera della legge corrisponderebbe quindi oggi alla sua capacità di modellarsi sugli eventi della modernità, irriducibilmente dinamici e irriducibili a qualsiasi paradigma fissista. Di un appello allo spirito, capace di vivificare la legge positiva, la scienza giuridica moderna non avrebbe quindi più alcun bisogno: l’idea di giustizia (ammesso che ad essa vada ridotto il principio dello spirito della legge) avrebbe ormai perduto la sua normatività e resterebbe predicabile solo in una rarefatta prospettiva morale (come dimostrerebbe il fatto che i più acuti studiosi del concetto di giustizia, nell’ultimo mezzo secolo, da Rawls a Heller, da Sendel a Ricoeur ad Amartya Sen) sono moralisti o economisti, ma di certo non giuristi).
6. L’orizzonte giuspositivistico ha quindi svuotato la contrapposizione classica tra la lettera e lo spirito della legge, dandole una nuova dimensione epistemica. La ricerca dello spirito della legge cessa, nella modernità, di essere la ricerca spasmodica da parte del giurista di un principio di giustizia trascendente rispetto alle sue possibili formulazioni linguistico-legislative e diventa tecnica interpretativa: una tecnica che alcuni giuristi cercano a tutti i costi di strutturare come una specifica e nobile disciplina giuridica, la teoria dell’interpretazione, ritenuta da molti meritevole di essere accolta nel novero delle tradizionali “materie” da insegnare nelle scuole di diritto, addirittura come una sorta di disciplina propedeutica ad ogni altra. Una materia, peraltro, controversa, perché ne è irriducibilmente controverso sia l’oggetto che la finalità: l’oggetto, perché la teoria dell’interpretazione può sindacare il quid juris, ma difficilmente può porre in discussione radicale il quid jus; la finalità, perché quell’interpretazione, alla quale il giurista contemporaneo affida la corretta scansione di ogni dettato normativo positivo, può rivelarsi inaspettatamente distruttiva dell’oggettività stessa del diritto.
7. L’affermazione appena fatta è forte, ma non infondata Per corroborarla, citiamo un’ osservazione inappuntabile, che emerge da pagine di sottile intelligenza giuridica di Tullio Ascarelli (Antigone e Porzia, in “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, 1955, 756 ss., poi in Ascarelli, Problemi giuridici, vol. I, Milano, Giuffrè, 1959, pp. 3 e ss.). Riflettendo sul celebre giudizio di Porzia nel Mercante di Venezia di Shakespeare, il grande giurista notò come la salvezza di Antonio dipenda in quest’opera da un artificio interpretativo del giudice (cioè di Porzia nelle vesti del Doge), dal carattere assolutamente singolare. Infatti Porzia da una parte afferma la piena validità del patto tra Shylock e Antonio (che, reso esecutivo, porterebbe inevitabilmente Antonio alla morte), ma dall’altra lo distrugge, non manipolandolo o negandolo, bensì pretendendone l’esecuzione assolutamente letterale (Shylock –secondo Porzia- può sì prelevare a norma del contratto la carne dal petto di Antonio, ma non spargerne il sangue, che inevitabilmente sgorgherà dalla ferita). Il che significa che lo spirito –che ci fa apparire ripugnanti le clausole contrattuali proposte da Shylock e liberamente accettate da Antonio- vince non sublimando il dettato della lettera, o dandogli una lettura metaforica, ma applicandolo nel modo più meticoloso. Questa meticolosità salva la vita di Antonio non perché implicita nel contratto che ha stipulato con Shylock (contratto che a nessuna delle due parti sarebbe mai venuto in mente di leggere in tal guisa), ma perché frutto dell’ imprevedibile inventività giuridica di Porzia. E l’inventività non è epistemologicamente formalizzabile.
8. Lo ammette, sia pur indirettamente, un sottile comparativista, Francesco De Franchis, il quale, al momento di redigere la voce spirito della legge per il suo pregevole Dizionario giuridico, e quindi di fornire al lettore una qualche definizione di questo concetto, non esita ad affermare che si tratta di quello che “Humpty Dumpty, ossia l’interprete, decide che esso sia”, aggiungendo subito: “ammesso che questo spirito lo si voglia o debba ricercare” (F. De Franchis, Dizionario Giuridico, vol. II, Italiano-Inglese, Milano, Giuffrè, 1996, p. 1346). Sappiamo tutti che Humpty Dumpty (cioè l’immortale personaggio creato da Lewis Carroll in Through the looking glass) è colui che si ritiene legittimato a dare ad ogni termine l’accezione che egli insindacabilmente preferisce e che di conseguenza rigetta le proteste della povera Alice, che insiste nel dimostrargli che in tal modo ogni comunicazione interpersonale diviene, prima o poi, irrealizzabile. Analogamente, le proteste che Shylock muove contro Porzia restano senza alcun effetto, perché Porzia ha deciso, insindacabilmente, come vada interpretato il famigerato contratto che l’ebreo ha stipulato col mercante di Venezia.
9. La trama del Mercante di Venezia non va considerata alla stregua di una bizzarria, ancorché brillante. Essa è rivelativa di come la modernità abbia costruito se stessa e di come, per il sentire moderno, la categoria spirito della legge abbia perso ogni consistenza ontologica. E’ per questo che De Franchis, obbligato, dopo aver faticosamente cercato di definire il concetto, a renderla nel lessico giuridico anglosassone si vede costretto ad usare espressioni faticose come policy of the law, oppure policy of the statute, e alla fine ad arrendersi definitivamente, ricorrendo, fiducioso nella perdurante forza semantica del latino, ad un (peraltro discutibile) mens legis. Ma nel giudizio di Porzia non trionfa la mens legis, bensì la mens Portiae, orientata fermamente a salvare Antonio e ad umiliare Shylock, per ragioni che possiamo pure definire di giustizia, ma non certamente di giustizia legale. Questa, infatti, avrebbe piuttosto reso necessaria una dichiarazione di nullità del famigerato contratto: la vicenda avrebbe comunque avuto la sua corretta soluzione, una soluzione assolutamente ragionevole, ma altresì una soluzione banale. La genialità di Shakespeare consiste appunto in questo, nel forzare la vicenda, per obbligare gli spettatori a percepire quella che chiamerei la differenza ontologica tra il piano del diritto positivo (il piano su cui si sono mossi Shylock e Antonio, firmando il contratto) e il piano della giustizia, che nella situazione estrema della trama, esige paradossalmente, come si è detto, la distruzione del diritto. Distruzione che non rappresenta, però, l’ultima parola del Mercante di Venezia: Porzia infatti, dopo aver salvato la vita di Antonio, interviene creativamente a ricostruire l’ordine che essa stessa ha appena distrutto, imponendo a Shylock la conversione al cristianesimo e disponendo il trasferimento dei suoi beni alla di lui figlia e al genero. La conclusione del Mercante di Venezia è una sorta di nuovo inizio, garantito dalla forza dello spirito.
10. Ma dove potrà trovare le sue radici tale forza? Dobbiamo auspicare che lo spirito di Porzia possa comunicarsi, per vie misteriose, ad ogni operatore giuridico, chiamato a confrontarsi con la lettera della legge? Un auspicio, per la verità, troppo ingenuo per poter essere facilmente condiviso. La modernità cerca di sottrarsi ad una domanda così inquietante cercando di sottoporre il termine spirito ad una metabasis eis allo genos: lo spessore teologico/metafisico della parola evapora, per essere sostituito da un generico rinvio a una dimensione, come quella del senso, tanto fascinosa quanto sfuggente e indeterminata: una dimensione della quale cercano oggi accanitamente di impadronirsi le neuroscienze, nella loro illusione di riuscire prima o poi a individuare in un tuttora celato circuito neuronale la radice mentale della giuridicità (e della sua pretesa forza inventiva). Per noi, giuristi cattolici, può essere più fruttuoso ricordare come interpretazione traduca il termine greco ermeneutica; e come ermeneutica rimandi all’enigmatica figura del dio Hermes, lo psicopompo, colui che ha il compito di guidare le anime, dopo la morte, nel loro viaggio ultraterreno. Per i Greci, senza l’aiuto del dio, le anime si smarrirebbero; per i cristiani, senza la volontà di Dio, le anime nemmeno esisterebbero. La forza dello spirito non ha radice empirica, così come non ha radice empirica l’inventività, che è elemento costitutivo dell’interpretazione della lettera della legge. E l’inventività, a sua volta, non ha radice empirica, perché nasce dalla libertà dello spirito. La libertà può (anzi deve) essere garantita, ma non può essere imposta; la sua fonte non è empirica, ma ontologica. Non è il diritto a produrre la libertà, ma è la libertà a rendere possibile il diritto e a liberarlo dai vincoli del letteralismo. Il che, ancora una volta, è stato espresso in modo definitivo da S.Paolo, in Rom 7.6, quando comunica ai destinatari della sua epistola l’essenza del suo vangelo: nunc autem soluti sumus a lege…ita ut serviamus in novetate spiritus et non in vetustate litterae. Che non sia questa la via da seguire in un mondo, come quello di oggi, che sembra avere corroso, se non esaurito, le sue risorse di senso?