Pubblichiamo il prezioso contributo di Bruno Montanari che esamina il lavoro di Sergio Cotta e della “idea di diritto, come forma dell’agire umano, capace di garantire normativamente all’individuo la possibilità esistenziale di “essere se stesso” e di “non essere solo”: e tale fine del diritto coglie la struttura intersoggettiva e universale dell’essere uomo.”
Sergio Cotta. Filosofo del diritto e filosofo del ‘900. …e oltre
Bruno Montanari
Per comprendere la centralità di Sergio Cotta nella filosofia del ‘900, ben oltre la “sua” filosofia del diritto, è opportuno tracciare, sia pure con segni grossolani, il quadro culturale del secolo che abbiamo da poco lasciato, mettendo in luce quei profili che, pur con le differenze che vedremo, o sono più affini al suo pensiero, o sono radicalmente antitetici.
Il ’900 non può essere compreso solo come il secolo nel quale continua la grande filosofia dell’800, lo “storicismo”, sia nella versione “idealistica” e ancor più in quella “materialistica”. Proprio perché il ’900 non è riconducibile solamente alla prosecuzione di quel pensiero, che tuttavia ha avuto un ruolo importante sia sul piano teoretico che su quello ideologico-politico, non è senza significato che Cotta prenda decisamente congedo da Hegel e dintorni. La partita si gioca attorno alla interpretazione della soggettività, sintetizzabile in un interrogativo: essa coincide con l’identità antropologica dell’esser uomo, oppure è il frutto di una attribuzione “filosofica” idealisticamente orientata e predeterminata, per la quale coincidono soggettività, esistenzialmente significativa, e cittadinanza? Su tale legame, e sulla sua ambiguità, tornerò sul finire di questo testo; per il momento mi limito ad osservare, assai genericamente, che l’interrogativo tocca una questione cruciale nel mondo contemporaneo. È precisamente un equivoco teoretico, infatti, quello sotteso all’uso di ritenere che le istanze inerenti alla definizione della soggettività siano tematizzate, discusse e rese efficaci nei processi decisionali che riguardano i campi dell’economia, della politica e dell’etica (con parametri e modelli di analisi diversi e contrastanti al loro stesso interno, come è noto), delegando al diritto la mera, formale, funzione normativa. Si nega, quindi, al diritto la capacità di una autonoma lettura della realtà umana e sociale, che esso svilupperebbe adottando una propria, specifica chiave interpretativa, comunque ulteriore rispetto a quelle sia economicistiche, sia politiche, sia etiche, le quali spesso, peraltro, sono sociologicamente divergenti e in conflitto, in loro e tra loro.
Vi è, dunque, da parte di Cotta una presa di distanza di fondo da un tale orizzonte; è di tale presa di distanza che intendo occuparmi nelle pagine che seguono, perché è in essa che si radica anche l’universalismo del “suo” Diritto.
La proposta di Cotta è decisa. Mi piace trarla da un testo tutto sommato breve, in tutto un centinaio di pagine, ma estremamente denso nella sua sinteticità, nel quale definisce, nel modo schematicamente lucido che gli era proprio, le linee di quel pensiero attorno all’uomo ed al diritto, costruite negli anni del suo insegnamento romano (1). In quel testo egli determinava, cioè, una volta per tutte, la sua filosofia del diritto, proprio in quanto, fondamentalmente, filosofia tout court. Scrive Cotta: “Resta pertanto aperta la questione della determinazione del soggetto lungo una via filosofica che non ne disconosca la realtà empirica, ma ne approfondisca il senso in direzione antropo-ontologica” (2). Più avanti afferma: “Il primo passo da compiere… consiste nel prender congedo dallo storicismo, la filosofia (e ormai anche la cultura comune) secondo la quale la storia attesterebbe esclusivamente la contingenza temporale e la diversità spaziale dei fenomeni materiali e spirituali. Se, come vuole lo storicismo, paesi, etnie, culture, territori, sono determinati ciascuno dalla propria storia che li diversifica nel tempo e nello spazio, allora la verità dell’uomo, della condizione umana di vita, viene relativizzata. Alla storia viene negata la sua, pur effettiva, capacità di render testimonianza, di là delle diversità, anche di interconnessioni, similitudini e, infine, di vere e proprie costanti e verità durature. Scrutato con spregiudicata attenzione, lo storicismo si palesa quale una falsificante rappresentazione unilaterale della storia” (3). E poi, a proposito della “dialettica”: “Non per questo l’abbandono della dialettica comporta il cedimento passivo a una inerte quietudine; la questione del rapporto fra diritti e doveri esige un approfondimento veritativo – ossia autenticamente filosofico e non meramente pratico-prassistico, politico – dell’ordine coesistenziale fra l’io e l’altro.” (4).
Da un lato, il superamento dello storicismo, in quanto, affermazione assoluta e, per questo, al tempo stesso contraddittoria, della soggettività; in altre parole, paradossale contraddizione della storia stessa come continuità, per chiuderla nella contingenza e nella relatività. Dall’altro, la negazione della dialettica in nome di una via apofantico-aletica. Insomma: negazione di una storia falsificante in favore di una storia che renda autentica testimonianza della vita e confutazione di una verità dialettica in nome di una verità che colga l’essenza stessa dell’esistenza umana.
In questo passaggio, filosoficamente impegnativo, credo che vi sia molto della forza e della originalità della speculazione di Sergio Cotta. Mi permetto di entrarvi con il mio modo di cogliere la questione.
In realtà storicismo e logica dialettica sono un tutt’uno; anzi, senza l’uso della logica dialettica non potrebbe costruirsi quello storicismo filosofico che pretende di comprendere scientificamente, dunque “veritativamente”, il senso della soggettività umana.
Tutto è racchiuso in quella icastica affermazione contenuta nella hegeliana filosofia del diritto, secondo la quale la filosofia “è il proprio tempo appreso nel pensiero” (im Gedanken, secondo la felicissima traduzione di Giuliano Marini) (5).
La Storia, allora, è una grandiosa costruzione intellettuale; le figure logiche allestite dalla dialettica assegnano all’uomo ruoli interpretativamente predeterminati sia nella loro opposizione, sia nel riconciliante superamento di quest’ultima. Un grande gioco semantico, un grande racconto drammatico, nel quale la fine è la conciliazione ultima dell’uomo con la sua radicale alterità, dell’uomo con l’Assoluto, del quale ormai è permeato immanentisticamente lo stesso processo umano. Ed è proprio la Aufhebung il bersaglio filosofico di Cotta.
Non vi è dubbio; un tale gioco drammatico, un tale racconto, proiettando nel futuro risultati costruiti in realtà su di una interpretazione, dialetticamente funzionale, del passato, possiede una grande capacità evocativa di visioni del mondo, di progetti, nei quali tuttavia non si tiene in alcun conto la semplice verità dell’esistenza al mondo dell’individuo umano, della casualità della quale egli è parte suo malgrado, dei suoi piccoli drammi e di quel tesoro, per la storia trascurabile, ma incommensurabile per lui, che è la sacralità inalienabile della sua vita, con i suoi tormenti e l’angoscia della scelte radicali. E’ quanto sottolinea con vigore Kierkegaard a proposito dell’essere soggetto in una prospettiva cristiana, quale appare, per esempio (aggiungo io), nella Postilla non scientifica, ed è quanto non manca di ricordare Cotta (6).
Il congedo dallo storicismo, avviene, come si è visto, in nome di una autentica concezione della storicità, che include, oltre alla “particolarità” ed al “mutamento”, anche i profili della “invarianza” e della “durata” (anzi i primi sono una sorta di prova e testimonianza dei secondi). Aggiungerò ora che tale congedo va letto proprio nella prospettiva esistenziale da ultimo indicata, la quale si contrappone a quelle linee di pensiero, il cui capostipite Cotta rintraccia in Rousseau, nell’Emile, per le quali “l’umanità…. viene attribuita [all’uomo] in quanto membro, o parte, della società in senso ora stretto ora lato” (7).
Congedo dallo storicismo, dunque; ma Cotta è anche, se non soprattutto, strutturalmente antitetico a quelle vie speculative che già nell’800 avevano dato voce alle ansie scientiste di fine secolo e che nel ‘900 trovano conferma e irrobustimento. Mi riferisco al positivismo empiristico-materialistico, nelle sue varie versioni radicalmente, se non ideologicamente, antimetafisiche: penso, in particolare, al “neo-positivismo logico” ed alla epistemologia funzionalistica.
Ancora. Cotta è certamente più vicino, invece, ad altre due tradizioni post-ottocentesche: quella della Natur der Sache e quella più strettamente giusnaturalistica. Più vicino, sì, per certi aspetti, ma con decisi e chiari distinguo.
Fin qui il rapporto di Sergio Cotta con il tempo che gli è alle spalle e che prosegue nel suo; osservazioni diverse si possono fare, invece, se si guarda alla filosofia del XX secolo con gli occhiali di chi ha vissuto la transizione verso il nuovo millennio (che sono gli “occhiali” di chi scrive queste note). Si può affermare, allora, che in esso si sviluppa una filosofia che totalmente gli appartiene: quella che può definirsi la filosofia della parola. L’espressione solo in parte è corretta e va spiegata. Nella sua unitarietà di indicazione, essa dà conto solamente di un profilo, che tuttavia ha una forte capacità di connotazione: quello della rilevanza, per una riflessione filosofica e per le sue proiezioni nei settori dell’agire pratico (filosofia della politica e filosofia del diritto), della parola, elemento umano dalla tradizione filosofica, come è noto, antichissima: “Al logos – osserva Martin Heidegger, uomo del ‘900 – in tutti i suoi aspetti appartengono sin dall’inizio la parola, il significato, il pensiero, il pensato, l’ente” (8).
La parola, dunque. Nel secolo scorso ha avuto e conserva tuttora una sua specifica egemonia epistemologica, la quale è determinata – forse non del tutto, ma sicuramente in buona ed importante misura – dall’abbandono di una metafisica filosofica, causato da un passaggio programmatico e radicale: dall’ “essere” all’ “esistere”, dai “concetti” al “discorso”, dalla “riflessione” all’ “impatto”. Indicato questo orizzonte assai ampio, occorre aggiungere subito dei distinguo, poiché è proprio attraverso i distinguo che può essere messa a fuoco la personalità filosofica di Cotta, nella sua originalità e, ad un tempo, nella sua centralità di contesto.
Dalla “parola” derivano infatti filosofie tra loro non solo diverse, ma addirittura contrastanti: il neoempirismo ed il neopositivismo logico (già ricordato) e la filosofia analitica, da un lato e, dall’altro, la filosofia ermeneutica. Filosofia, quest’ultima, che ripropone la centralità della esistenza soggettiva attraverso una riconsiderazione dell’antico e classico modello ermeneutico. Due nomi: Martin Heidegger e Hans G. Gadamer. Si aggiungano gli orientamenti “post-metafisici” (o “post-filosofici”, come vorrebbe Richiard Rorty) e “post-ideologici” che, muovendo dalla parola come unico dato empiricamente evidente, danno luogo a modelli epistemologici di tipo liquido-discorsivo (pensiamo a Jean F. Lyotard o anche a Jacques Derrida), oppure, e assai diversamente, ricostruiscono una intersoggettività possibile, grazie al primato di un’etica della “comunicazione” veritativa: penso soprattutto al concetto di “intersoggettività” allestito da Karl O. Apel e, più avanti, farò ampio riferimento al rapporto in chiave “logica” di Cotta con Wittgenstein.
Il confronto con Apel mi sembra particolarmente significativo, per comprendere, attraverso il confronto e pur nella convergenza degli intenti, proprio la decisività della diversa via, con la quale Sergio Cotta costruisce il “suo” concetto di intersoggettività.
Con Cotta, Apel condivide, infatti, alcune istanze di fondo: il netto rifiuto di un orizzonte empiristico-positivistico, come premessa filosoficamente necessaria per la ricerca in un livello di “universalità” sul quale fondare una antropologia filosofica.
Mi sembra utile richiamare alcuni passaggi di un testo di Apel, che non risulta (almeno a me) avere avuto quella pubblicazione autonoma in tedesco che invece ha conseguito in italiano, grazie alla traduzione di Virginio Marzocchi, con il titolo Etica della comunicazione (9).
L’obiettivo di fondo è indicato nelle prime righe: “Va prodotta una fondazione ultima razionale della moralità e del suo contenuto normativo…in ciò inclusa la fondazione della validità universale di un principio di giustizia, di solidarietà e di co-responsabilità” (10). Si tengano a mente, per ora, questi due ultimi termini: “solidarietà” e, segnatamente, “co-responsabilità”, per le ragioni che chiarirò in seguito.
Più avanti, Apel pone dichiaratamente la questione “filosofica” tout court: “Emerge così, in primo luogo, il problema squisitamente filosofico -…- del rapporto tra essere e dover essere, ovvero tra razionalità scientifica (…) e razionalità etica…Affronterò subito il problema precipuamente filosofico della fondazione razionale del dover-essere morale, in quanto è qui che l’approccio dell’etica del discorso, fondata in termini pragmatico trascendentali, può venir introdotto come unica risposta possibile ad una situazione di crisi, apparentemente paradossale, in cui è venuta a trovarsi l’etica post-convenzionale” (10).
Un ultimo passaggio, nel quale Apel segna la sua distanza da una visione antropologica egemonizzata dal primato scientista: “Questa situazione di blocco paradigmatico della possibile razionalità dell’etica viene rotta, allorché ci si avvede – e ciò implica una trasformazione della filosofia trascendentale classica – che la stessa validità intersoggettiva della conoscenza scientifica avalutativa (l’obiettività dunque) non è possibile senza presupporre contemporaneamente una comunità linguistica e comunicativa, con la relativa relazione soggetto – co-soggetto normativamente non neutrale” (11).
Nella prospettiva di Apel, dunque, in linea generale, solamente un pensiero filosofico non empirista-positivista può condurre ad esiti “universalizzanti”; in particolare, il livello di “universalizzazione” va trovato in quel mondo culturale divenuto “post-metafisico”, al quale lo stesso Apel appartiene, e che deve ricostruirsi su di un piano “trascendentale”, ma “pragmatico”. E’ qui che entra in campo la dimensione linguistico-comunicativa, la quale mette in relazione materiale gli uomini, i quali così, attraverso il discorso, plasmano l’inter-soggettività e danno luogo ad una comunità; ad un luogo umano, cioè, dove si sperimenta il rapporto soggetto – co-soggetto (mit-Subject) e, quindi, la solidarietà comune e la co-responsabilità. L’insieme si regge sull’etica del discorso, che è un’etica di verità.
Ho riferito la posizione di Apel, per la ragione che il suo intento filosofico è assai affine, come ho accennato, a quello di Cotta: universalizzazione e fondazione dell’intersoggettività; proprio perché è affine, però, si può mostrare come la posizione di Cotta, affrontando la questione dell’intersoggettività su di un piano ontologico-esistenziale, quindi trascendentale, ma metafisico e non pragmatico, possa arrivare a tematizzare una antropologia teoretica come fondazione del “dover essere”. La distanza filosofica tra Cotta e Apel è segnata da una espressione, propria di Apel, che è significativa: la relazione intersoggettiva, per Apel, si stabilisce tra soggetto e “co-soggetto” (mit-Subject); per Cotta, differentemente, la relazione intersoggettiva dipende dalla ontologia stessa della soggettività. In breve: il “co-soggetto” di Apel non è l’“altro” di Cotta. La ragione è la seguente. Nella visione pragmatica di Apel, il soggetto è una dimensione dell’uomo puramente empirica. Ne segue che ogni uomo non è legato all’altro in una relazione strutturale; ecco perché l’altro è solo, empiricamente, un “co-soggetto”. Il soggetto, cioè, è in rapporto, ma non in relazione, con altri soggetti empiricamente esistenti. Il legame non è onto-fenomenologico, come è per Cotta, ma puramente pragmatico-discorsivo e dunque non teoretico, ma puramente etico-pratico. In altre parole, quella di Apel è una intersoggettività fortemente inseguita, ma, in definitiva solamente “voluta”, perché il piano dell’essere, per quanto invocato, resta pragmatico; sul piano teoretico, infatti, il piano dell’essere è razionalmente “metafisico”.
Vi è un altro autore tedesco, che occupa la scena del ‘900, che vale la pena di ricordare, perché offre un ulteriore motivo di confronto con Cotta. Si tratta di Karl Löwith, per la distanza che egli assume dal suo maestro Heidegger e per la sua teoria del “co-uomo” (mit-Mensch) e, in particolare, per le riflessioni che conducono alla sua nuova e autocritica visione tra le due edizioni dello scritto per l’abilitazione presso la facoltà di Marburgo, la prima del 1928 e la seconda del 1962. Il titolo è già di per sé significativo L’individuo nel ruolo del co-uomo. Un contributo alla fondazione antropologica dei problemi etici (12). Non è qui il luogo per analizzare la distanza critica che Löwith stabilisce con Heidegger e Husserl, per la quale rimando al bel saggio di Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo (13); mi limito solamente a segnalare come nel testo giovanile, incentrato sul concetto di “co-uomo”, Löwith utilizzi questo concetto come critica radicale al soggetto inteso, dalla filosofia “moderna”, come mera individualità, mostrando invece come la relazione “io – tu” sia antropologicamente originaria. Sottolineo questo punto per la specifica ragione che sarà proprio questa originarietà antropologica a formare oggetto dell’autocritica del filosofo maturo, avendo egli sperimentato, attraverso le vicende del nazionalsocialismo, come quella “originarietà” dovesse essere immersa e fare i conti con il sistema di potere che supera ogni dimensione dell’umano.
Così come Apel, abbiamo visto, affronta la tematica strettamente filosofica in un orizzonte etico-pragmatico, analogamente Cotta svolge la sua “filosofia” avendo come punto di osservazione “prospettico” il fenomeno giuridico, il che gli consente di affrontare il tema della relazionalità intersoggettiva potendosi avvalere della distinzione, tutta teoretica, tra essenza e fenomenicità del diritto. E gli consente anche di indagare fenomenologicamente la relazione intersoggettiva come dialogo, per giungere a cogliere quel logos, quel messaggio, che trasforma il rapporto interumano, puramente “ontico-fenomenico”, in una condizione onto-logica dell’esistenza.
In questa direzione, il confronto con Löwith, e proprio il riferimento alla sua autocritica della maturità che ha come bersaglio l’originarietà antropologica della relazione io – tu, consente di mettere in luce come la fondazione onto-fenomenologica di Cotta riesca a fronteggiare proprio quegli stessi motivi che avevano dato origine all’autocritica dell’età matura. Per il Löwith del ’62, infatti, la relazione intersoggettiva va illuminata e compresa a partire da quella “antropologia sociologica” che aveva come riferimenti diversi, ma, proprio nella loro diversità, significativi, Weber e Marx. In Cotta, invece, come vedremo, proprio la relazione “io – tu” costituisce la struttura ontologica della esistenza umana.
Per comprendere codesta “operazione” occorre mettere in relazione Cotta con Husserl, da un lato, e sottolineare, dall’altro, la sua presa di distanza da un filosofo del diritto, pure a lui culturalmente vicinissimo: Giuseppe Capograssi.
Prima di Husserl, però, ritengo teoreticamente opportuno segnalare la distanza tra Cotta e l’esistenzialismo di Heidegger, che egli non manca, tuttavia, di ricordare, attorno alla questione del nesso “essere” – “esistenza”. Distanza e ricordo, a dimostrazione di quanto l’originalità di Cotta sia tanto maggiore, quanto più la tipologia delle tematiche da lui trattate lo mettano in dialogo con il contesto di quei pensieri che popolano la prima metà del ‘900. In breve, mentre heideggerianamente l’esistenza umana coincide con la fenomenicità della vita (il Dasein), per Cotta la comprensione dell’esistenza non può fare a meno di porsi su quella linea fenomenologica husserliana che, attraverso il nesso logos – telos, trasforma la fenomenicità della vita nella fenomenologia dell’esistenza, e conduce, (telos), così, la onticità del Dasein heideggeriano alla ontologia dell’“Essere”.
Il riferimento husserliano, sul quale tornerò anche in seguito, già da ora appare significativo, poiché attraverso questo Cotta lega il suo prospettivismo giuridico a quella tradizione, ancora novecentesca, della filosofia in senso classico: teoretica e metafisica.
Metto a confronto due testi, uno di Husserl l’altro di Cotta, per mettere in condizione il lettore di apprezzarne la analogia della linea speculativa.
Husserl: “E’ possibile separare la ragione e l’essente se è proprio la ragione che, nel processo conoscitivo, determina ciò che l’essere è? [qui l’interrogativo critico ha come bersaglio il primato positivistico attribuito alle scienze fisiche]…La scepsi rispetto alla possibilità di una metafisica, il crollo della fede in una filosofia universale capace di guidare l’uomo nuovo, il crollo della fede nella ‘ragione’…Portare [invece] la ragione all’auto-comprensione, alla comprensione delle proprie possibilità e perciò rendere evidente la possibilità, la vera possibilità, di una metafisica – è questo l’unico modo per portare la metafisica, cioè la filosofia universale, sulla via laboriosa della propria realizzazione. Solo così sarà possibile se quel telos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca e che consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così….” (14).
E ora Cotta: “L’indagine sul perché costitutivo [del diritto] è dunque tipicamente filosofica, ma ciò non significa affatto che discenda deduttivamente da un’idea a priori del diritto, trascurando l’esperienza reale, bensì che si rivolge a quello stato profondo dell’uomo da cui ne scaturisce l’esperienza”. In definitiva, occorre andare oltre l’empiricità normativa “e accertare la ‘natura’ del diritto mediante il disvelamento del suo ‘nascimento’, per dirla con Vico, ma nel senso d’un nascimento, prima che storico, ontologico, ossia richiesto dall’essere stesso dell’uomo” (15).
In queste righe si manifesta tutta la originalità del pensiero di Cotta: essa consiste nel vedere il diritto come appartenente alla natura stessa dell’“esser uomo”, ma non deducibile in base ad un apriorismo razionalistico secondo il tradizionale schema del giusnaturalismo moderno; diversamente, per giungere a cogliere tale sua origine occorre percorrere la via dell’esperienza per scoprire in essa logos e telos esistenziali. Un percorso teoretico, dunque, attraverso il quale la base fenomenica approda, per una via fenomenologica, ad un esito ontologico.
Il diritto, infatti, non si limita ad un ruolo di mera qualificazione, o validazione, e avvaloramento estrinseci della esistenza umana, ma è intrinseco alla stessa struttura universale di questa. Pur appartenendo, per un verso, alle determinazioni delle diverse “teorie generali” o, per altro verso, alla filosofia della pratica, il diritto è da intendere come la rappresentazione normativa di una approfondita comprensione della condizione umano-esistenziale. In altre parole, il diritto, quale parte della filosofia della pratica, ha le sue radici in una filosofia teoretica volta a stabilire, a partire dal livello empirico-cognitivo, la “struttura” universale dell’“essere” soggetto umano. In questa prospettiva, il diritto è visto appartenere alla “natura” dell’uomo nel senso specifico che, per suo tramite, si può cogliere l’ontologia stessa dell’esistenza e della soggettività: “ciò che caratterizza la mia ricerca – scrive Cotta – è, da un lato, l’insoddisfazione per una interpretazione o formale o storicistica del diritto e, dall’altro, la convinzione che l’esperienza giuridica trovi la sua chiarificazione nella comprensione della struttura ontologica e delle istanze esistenziali dell’uomo, che ne determinano la relazionalità coesistenziale” (16).
In altre parole, Cotta prende le distanze sia dal giusnaturalismo della tradizione moderna, sia dal fenomenismo normativo di marca kelseniana.
E’ in questa chiave che va letta la sua presa di distanza anche da Capograssi.
Un esempio per tutti, che si trova proprio nel testo del ’97, ricordato all’inizio di queste pagine (Soggetto umano – soggetto giuridico): “Mi sono soffermato più a lungo del solito – scrive Cotta – sulla tesi di Capograssi perché rappresenta, a mio parere, il tentativo forse maggiore, o almeno il più audace, di trovare una soluzione del rapporto fra l’individuo e l’ordine giuridico, che li accomuni su un piede di cooperazione paritaria. Ma il tentativo non è riuscito. Bisognerebbe trovarlo, se possibile, in altro modo e per altra via” (p.38).
Il luogo della differenza è importante, poiché verte sul rapporto tra diritto ed esistenza. Le questioni sono due. La prima: Capograssi ha in mente quella visione del diritto come ordinamento normativo che è manifestazione parziale, e comunque estrinseca, della “esperienza” umana: “La loro [delle norme] caratteristica – scrive Capograssi – è proprio di essere dipendenti dall’esperienza, cioè dal totale delle altre determinazioni della vita giuridica nel suo complesso (17).
La seconda: l’esistenza, nella filosofia di Capograssi, è il luogo ove si dispiega l’anima del Cristiano; il diritto, quindi, non si emancipa, alla fin fine, da una funzione di validazione normativa di una dimensione valoriale che costituisce la vera essenza dell’esistenza.
Ciò che a me interessa sottolineare è la ragione della distanza tra Cotta e Capograssi, la quale è tanto più significativa, proprio quanto maggiore è, invece, la prospettiva di fondo che accomuna i due filosofi. La questione, a mio avviso, sta tutta nella costruzione della via speculativa capograssiana; sta tutta, cioè, nella circostanza che Capograssi non si sia liberato fino in fondo del modello dialettico. La conseguenza è tale per cui l’indipendenza dell’individuo dallo Stato, ed il conseguente radicamento del diritto nella esperienza esistenziale dell’individuo, finiscono per avere rilievo filosofico e giuridico solo come momenti di un processo dialettico, il cui esito riconciliativo è nel primato dell’ “ordinamento giuridico” (o, anche, della loro possibile pluralità), che attribuisce significato sociale all’individuo come “soggetto di diritto” (18).
In definitiva, il modo e la via proposte da Capograssi, sia pure attraverso un percorso assai articolato, non si scostavano in definitiva da una chiave di lettura e di significanza del diritto inteso come “ordinamento normativo” e, proprio per questo, apparivano assai familiari ai giuristi di quella generazione.
Il suo condurre, infatti, il diritto dall’esperienza all’ordinamento per la via dialettica dà luogo ad un ragionamento i cui tratti più diretti ed espliciti erano facilmente fruibili dalla cultura dei giuristi positivi dell’epoca, quale che fosse la loro formazione, e soprattutto se cattolici.
Per Cotta, pur a partire da una matrice inequivocabilmente cristiana, le cose stanno diversamente.
Senza l’abbandono della dialettica e quindi della logica della Aufhebung, non è possibile riuscire a determinare, dal punto di vista teoretico, il radicamento esistenziale del diritto.
L’esistenza è il luogo ove prende corpo, senso e direzione, il fenomeno della vita. Vale a dire, che l’“esistenza”, come ho affermato precedentemente sottolineando la distanza dall’esistenzialismo, è il messaggio, il logos, inscritto nella fenomenicità della vita, che dirige (il telos) al significato ontologico di “esistenza” (all’ Essere). Ed è nella sua struttura ontologicamente relazionale che è inscritta l’essenza del diritto.
La posizione di Cotta, pur in quella sua assoluta originalità, che ho sottolineato e che ne segna la distanza dalla lezione capograssiana, per quanto apprezzata dai giuristi contemporanei, è stata tuttavia poco compresa nella sua profondità, se non in alcune determinazioni còlte superficialmente e quindi passibili di utilità contingente (e questo vale anche per il dibattito ideologico-politico). Probabilmente proprio per questo, Cotta è stato definito dal suo allievo Francesco D’Agostino, in uno scritto apparso pochi giorni dopo la sua scomparsa, un “maestro invisibile”. Nulla di più appropriato in ciascuno dei due termini e nella loro congiunzione. Una “invisibilità” tuttavia invidiabile (mi si passi la corrività dell’espressione), perché frutto di arditezza, originalità e profondità di ragionamento e soprattutto perché libera da aspettative di riconoscimenti pratici. Mi si consenta un inciso: quelli che Sergio Cotta ha ovviamente ottenuto, in particolare quello più importante per uno studioso italiano, divenire “linceo”, a mio parere, sono stati assai inferiori a quelli che avrebbe potuto ottenere dal sistema istituzionale del nostro Paese, se solo la capacità di comune discernimento fosse stata abbastanza vigile per comprendere il contributo che il suo pensiero e la sua azione avrebbero potuto dare alla nostra vita civile della seconda metà del secolo appena trascorso.
Dopo i distinguo e le affinità, è giunto il luogo di mettere in luce la centralità teoretica di Sergio Cotta. Essa sta nell’aver segnato una strada che poteva andar oltre quel secolo per avere nel presente sviluppi umanamente fecondi. Penso al concetto di “parità ontologica”, che trascende il concetto di “uguaglianza” ed è sotteso anche alla fondazione, filosofica tout court, del diritto nella sua essenza (ma di questo più avanti).
Vale la pena, però, fin d’ora, sottolineare la scrittura del titolo del testo, al quale ho fatto riferimento nelle pagine precedenti, poiché essa è di per sé significativa: Soggetto umano – Soggetto giuridico. In tale particolare scrittura, infatti, non appare inscritta una “e” di congiunzione, che in qualche misura, se vi fosse stata, pur coniugandole, avrebbe tuttavia tenuto distinte due modalità della soggettività umana: quella esistenziale da quella giuridica (à la Capograssi). Senza quella “e”, Cotta intende, invece, fin dall’inizio, stabilire una idea filosofica precisa: il diritto appartiene alla struttura universale della esistenza umana; non si limita, come ho già avuto modo di segnalare, ad un ruolo di mera qualificazione o validazione e avvaloramento estrinseci del fenomeno “diritto”.
Proprio in virtù delle sue linee teoretico-speculative, il magistero di Cotta si è sostanziato di una ricerca che è approdata ad una posizione filosofica del tutto originale. Lo abbiamo in parte già visto: essa è consistita nell’addentrarsi nella analisi e nella comprensione teoretica dell’esistenza, utilizzando e piegando ad un fine essenzialistico-strutturale i contenuti che le scienze e le filosofie post-metafisiche del ‘900 gli offrivano: dalla fenomenologia all’etnologia, dalla logica alla linguistica. Un punto va però sottolineato: la possibilità di perseguire l’obiettivo essenzialistico-strutturale della sua ricerca gli è stato possibile riuscendo ad oltrepassare l’empiricità del diverso materiale speculativo utilizzato, ricorrendo in pura chiave filosofica ad autori fondamentali della filosofia cristiana: Agostino di Ippona e Antonio Rosmini.
Mostrando in ciò di essere un filosofo “cristiano” non per un presupposto di fede, ma per meditazione e per riflessione razionale; percorsi, che lo hanno condotto a ritenere il Cristianesimo un’antropologia filosofica, una autentica via, cioè, offerta alla ragione umana per comprendere il nostro esistere al mondo e cercare una risposta al proprio essere se stesso: “Vale la pena di segnalare – scrive – la sostanziale coincidenza di codeste moderne ermeneutiche della verità del conoscere umano con l’itinerario dell’approfondimento di essa tracciato da S.Agostino in chiave non soltanto religiosa ma schiettamente filosofica” (19).
Il punto centrale che sostiene il pensiero di Cotta sta, in primo luogo, in un interrogativo originario al quale il diritto deve rispondere: “La domanda è radicale -scrive Cotta (20) – perché investe, con il massimo dubbio metodico possibile, l’esistenza (di là della sua semplice presenza apparente) del diritto in generale, non di questo o quel diritto…di questa o quella istituzione oppure norma giuridica, ma del diritto, di là delle sue individualizzanti determinazioni storiche spazio-temporali”. In questa proposizione, proprio nell’inciso fra parentesi – “di là…” – e in quel corsivo genitivo – “del” – è racchiusa, in tutta la sua forza filosofica, la teoresi intorno a quella “essenza” del giuridico che ne fonda la manifestazione fenomenico-normativa in tutte le sue articolazioni ordinamentali. “Essenza”, che salda la fenomenicità normativa alla sua origine costitutiva: la struttura ontologico-relazionale dell’uomo, trasferendo la giuridicità empirico-fenomenica al piano dell’universale dell’esistenza umana.
Per mettere a fuoco questo punto occorre aver presente la critica che Cotta rivolge a Nietzsche. In breve.
La Storia “hegeliana” era per Nietzsche, lo sappiamo tutti, una sorta di grande parata in maschera, che, al riparo dei costumi, concede all’uomo-gregge un senso alla vita. Il vero senso dell’esistere è, al contrario, del tutto materiale e si raggiunge, appunto, nello smascheramento, nel liberare l’esistenza da tutte quelle costruzioni concettuali della modernità, dalla storia per risalire alla stessa metodica scientifica fino a Dio, che, regolando il conflitto umano, hanno reso possibile la sopravvivenza dei deboli. La verità della vita è incarnata dal “vincitore”, da colui che si innalza oltre il conflitto e ne esprime, attraverso la sua esclusiva individualità, l’effettiva e non mascherata verità. Se questo è l’individuo nietzscheano, esso non poteva che essere il bersaglio dall’antropologia cottiana. “Nell’orizzonte della ‘morte di Dio’ enunciata con accenti drammatici nella Gaia Scienza – scrive Cotta che poi riprende direttamente le parole di Nietzsche, curando di evidenziare che i corsivi sono nei testi citati – ‘noi vogliamo diventare quelli che siamo, i nuovi, gli irripetibili gli inconfrontabili, i legislatori di se stessi, i creatori di se stessi’. Pertanto – prosegue Cotta –, Al di là del bene e del male preciserà: ‘il mio giudizio è il mio giudizio: difficilmente un altro potrà vantare un diritto su di esso’; perciò ‘come potrebbe mai esistere addirittura un bene comune: la parola contraddice se stessa’…Il cerchio si chiude – sottolinea ancora Cotta – con il drastico appello alla cancellazione di Dio, della ‘causa prima’, affermazione non più magica bensì liberatoria cui consegue ‘l’innocenza del divenire’ ” (21) .
Mi sono soffermato sulla critica alla visione nietzscheana dell’individuo, perché questa mostra due punti essenziali per la ricostruzione dell’antropologia esistenziale (ma non “esistenzialica”!) cottiana, tra loro non scindibili, la prospettiva creaturale e il “bene comune”: fondamento e approdo della strutturale relazionalità dell’individuo (ma di questo più avanti).
La prima si chiarisce evitando un fraintendimento, quello che vede nella persona un “di più” assiologico, rispetto all’“individuo”. Cotta vi rintraccia un errore di fondo: esso consisterebbe nella sostituzione della “persona” all’“individuo”; in tal modo si riterrebbe, ma erroneamente, che la realtà materiale della vita individuale, senza un’ulteriore qualificazione in qualche misura assiologica (la persona intesa in quest’ultimo senso, appunto), non sia essa stessa il luogo ove si sperimenta la verità dell’esistenza. La persona, cioè, non è un di più che si aggiunge all’individuo, attribuendo a quest’ultimo un senso assiologicamente qualificante; al contrario, la persona, là dove essa rileva e, quindi, proprio nel fenomeno giuridico, acquista un significato, in quanto essa stessa manifestazione dell’individuo.
Sottolineando il fraintendimento, ho inteso mettere l’accento su di un profilo che ritengo estremamente importante per intendere l’originalità filosofica del pensiero di Cotta, che, come ho sottolineato in precedenza, lo distingue da Apel. Essa riguarda l’estrema cautela con la quale egli tratta la tematica assiologica. Egli, evidentemente, non rifiuta un ragionamento sui “valori”, che in campo giuridico è connotato dalla giustizia; il punto è il loro effettivo fondamento. Mi spiego. Proprio perché egli rifiuta in modo assoluto ogni orientamento “non-cognitivista”, sotto qualsiasi forma esso si proponga o si travesta, la questione riguarda la modalità della fondazione “cognitivista”.
Il “valore” intanto può conseguire la dimensione universale che lo connota, in quanto lo si interpreti come una proiezione pratica derivante dalla conoscenza della struttura stessa dell’esistenza. E’ la conoscenza dell’“invarianza” ontologica di tale struttura, che dimostra quella universalità dell’esser uomo che deve orientare il ragionamento assiologico ed il gesto etico. In altre parole, l’universalità del valore coincide con il rispetto per la dimensione universale della condizione umana, così come emerge dalla conoscenza dell’individuo empirico. Ogni assiologia o anche prospettiva metafisica che non prenda le mosse da qui, dalla “terra” (aggiungo io con parole mie), può contenere i difetti teoretici di una sovrastruttura (ideologica?).
“Il termine ‘valore’ designa, dunque, non una sostanza, bensì la qualificazione di una sostanza –scrive Cotta (il corsivo è nel testo). Perciò il rispetto dell’integrità della struttura ontologica dell’individuo è il criterio oggettivamente umano, né ideologico né astratto, del giudizio di valore su opinioni, comportamenti personali, costumi sociali, leggi e istituzioni, in breve: del diritto ‘posto’, oggi come ieri, qui e altrove”. E, ancora, con più specifico riferimento alla giustezza del diritto: “Mi riferisco alle coppie connotate l’una da universalità/invarianza e l’altra da particolarità/variabilità. La gerarchia fra di esse è, di nuovo, di natura apofantica e quindi noetica, poiché il particolare/variabile (secondo contingenza) è semanticamente interno all’universale/invariabile e realmente condizionato da questo. Tradotta in termini giurisprudenziali, appare chiaro che codesta gerarchia stabilisce quale sia il criterio limitativo dell’interpretazione dottrinale e soprattutto giurisprudenziale: il rispetto della struttura ontologica dell’individuo” (22).
Se superamento deve esservi nella direzione dell’universale, questo, infatti, non può realizzarsi, storicisticamente, in una entità fenomenica (quale è lo Stato o anche l’ordinamento giuridico), ma solo attraverso un criterio metodico formale che funga da strumento di confronto, da “criterio” (per usare la terminologia di Cotta) “critico” (aggiungo io), con il quale entrare dentro l’antinomia che si realizza tra il fenomenico, costituito dal diritto posto (uso qui l’espressione in modo generico ed ampiamente comprensivo) e la giuridicità immanente alla invarianza della struttura esistenziale.
Insomma, la strada da seguire per un radicamento esistenziale del diritto, e quindi pre – e meta- statuale o meta-ordinamentale (e questo vale soprattutto nel tempo presente, nel quale questi ultimi due concetti, tanto consolidati nella nostra cultura, sono divenuti particolarmente spugnosi e, talora, evanescenti) non è quella tracciata dalle orme di Hegel, ma da quelle di Kant e proprio per le ragioni per le quali il primo criticava per astrattezza il secondo. Seguire il modello logico-antinomico consente di arrivare (aggiungo io) là dove la pretesa del modello dialettico riteneva di poter arrivare nel concreto della Storia; e nel solo modo umanamente possibile: secondo una via metodico-critica.
La via metodologica ed epistemologica che Cotta intende seguire sta nel ricavare dalla dimensione empirica degli ordinamenti giuridici, che l’uomo ha costruito nel corso della sua storia millenaria, quegli elementi “residuali” che costituiscono un dato non soggetto a variazioni e contingenze storiche. Tale dato individua, perciò, quella struttura universale, ricavabile dalla conoscenza empirica, che dà origine alle norme.
In tale operazione di “riduzione”, come egli stesso la definisce, si fa aiutare dai materiali speculativi che il pensiero umano ha prodotto, utilizzandoli per le sue finalità argomentative, lasciando sullo sfondo i rispettivi contesti filosofici e storiografici interni ai diversi pensieri. Si tratta infatti di materiali speculativi, ragionamenti, ricerche empiriche prodotti e compiute di “individui” intelligenti, che, come tali, possono essere presi e utilizzati da un altro “individuo” intelligente, per cercare di comprendere la realtà della dimensione umana.
Personalmente ho sempre creduto nella correttezza di un tale percorso metodico-teoretico, che forse può in qualche misura sconcertare gli amanti della storiografia del pensiero e del filologismo interpretativo. Non che queste linee di lavoro non abbiano i loro meriti, che sono ovviamente grandissimi (è financo banale osservarlo), ma l’uso del pensiero altrui come “materiale” speculativo di supporto per una costruzione filosofica personale mi è sempre sembrato del tutto legittimo. Il pensiero che giunge fino a noi, quale che sia l’epoca, il contesto, la sua interna filologia, resta pur sempre, per sé, un messaggio epistemico che un uomo lascia ad un altro uomo per i suoi scopi di ricerca, anch’essa epistemica.
Su questa linea metodologica, Cotta fa perno sul “processo husserliano di ‘riduzione’ fenomenologica della pluralità particolaristica di fenomeni diversi, ma simili, al loro uniforme ‘residuo’ identico quanto al senso” per arrivare a “connotare un fenomeno di tipo seriale” quale è fenomenicamente il diritto. Con uno sguardo all’indietro di più di duemila anni, rintraccia in Aristotele il medesimo modello epistemologico, ferme restando ovviamente le necessarie diversità. Così come il fenomenologismo husserliano considera un “residuo” il custode del senso invariante dell’agire umano, Cotta ricava dalla Metafisica aristotelica (III, 4, 999a) un’analoga teoresi: “Infatti – questo è il brano di Aristotele riportato da lui direttamente – noi possiamo conoscere tutte le cose in quanto ci sia qualche cosa di identico e di universale. Se ciò è necessario e bisogna che ci sia alcunché oltre le singole cose, è giocoforza ammettere che ci siano idee più o meno generali oltre le singole cose” (23).
Il congedo dallo storicismo si trasforma, con questa premessa, in una nuova linea di ricostruzione “ermeneutica” dell’esistenza umana, nella quale entrano, con altri, Bergson e Binswanger, Wittgenstein e Lévi-Strauss.
La continuità tra la “durata pura” e la “durata vissuta”, con la quale Bergson coglie l’oltre-storicità della vita, trova conferma nelle ricerche antropologico-strutturali di Lévi-Strauss, che costituiscono il vero sostegno empirico all’argomentare di Cotta, su di una strada ermeneutica di tipo a-storico e a-etnico.
La “durata” di Bergson, come l’“invarianza” che emerge dalle ricerche antropologiche di Lévi-Strauss, applicate alla storicità degli “ordinamenti giuridici reali e dei sistemi giuridici teorici”, rivelano a Cotta “ciò che è significabile (e comunicabile) come diritto in generale, se non vogliamo dire in universalibus.”.
Di qui a qualche riga, il passaggio-chiave attraverso il quale Cotta fa rivivere, nell’attualità giuridica, i contributi di quella filosofia e di quella scienza empirica del ‘900, assai poco frequentate dai giuristi positivi. Se una tale conoscenza interdisciplinare (come si usa dire) fosse stata davvero tenuta nel debito conto, proprio grazie alla lettura e utilizzazione operate dalla lezione filosofico-giuridica di Cotta, avrebbe fatto uscire il diritto, e la sua “scienza”, da quel ruolo ancillare al quale, oggi, l’economia (soprattutto) e l’etica (almeno in contesti specifici) lo hanno relegato.
“In tale contesto [che è quello che ho sopra ricordato], il metodo del progrediente ‘riduzionismo’ fenomenologico permette di ricondurre tutte le svariate forme normative empiriche al ‘residuo’ che le accomuna in un’unica identità di senso, ossia non di forma ma di significanza. Si tratta di una regola vincolativa dell’agire, costitutiva della categoria della giuridicità e rappresentabile simbolicamente con la cifra deontica ‘si deve/non si deve’” (24).
L’operazione ermeneutica di Cotta è chiara: è nell’individuo reale, storico ed empirico, che occorre trovare i fattori di universalizzazione del fenomeno “diritto”, utilizzando ciò che consente all’uomo, ancora empirico, di andare oltre la propria contingenza per cogliere l’universale della propria condizione umana: il “senso” della vita, la “significanza” perenne dei propri gesti.
Se una tale “significanza” non fosse anch’essa patrimonio speculativo della mente umana, l’uomo non sarebbe in condizione di compiere le scelte, di realizzare i costrutti che nella sua realtà quotidiana e storica è in grado di compiere, per la ragione banale che non sarebbe in grado di comprendere la portata, l’incidenza ed il fine di ciò che è prodotto della sua “arte”, del suo “artificio”.
“In quanto è costitutivo della giuridicità, il ‘residuo’ ne rappresenta il criterio di accertamento generale nei confronti di ciò che venga ritenuto diritto” (25).
“Esser se stesso e non esser solo” sono i bisogni primari; quel “residuo” che Cotta individua, infatti, come comune al genere umano, che emerge dal processo di riduzione delle diversità storiche ed etniche. Una tale “riduzione” è ciò che consente una ricostruzione antropologicamente aletico-veritativa (i due termini sono solo in parte sinonimi) della giuridicità. Quei bisogni primari sono strutturalmente esistenziali ed individuano la condizione che il diritto deve rispettare per non violare l’universalità dell’essere soggetto umano. “Ebbene, non è di certo difficile rendersi conto che i sistemi giuridici positivi, in particolare quelli codicistici di stampo europeo, ricondotti alla loro essenziale architettura portante, implicano una risposta alla domanda sul ‘perché del vincolo’. Va anzi notato che la normazione giuridica si articola secondo uno sdoppiamento dell’unitaria forma del vincolo nelle due specie principali del prescrivere e del proibire. Una puntuale ermeneutica di esse permette di individuarne la ragion d’essere nei due bisogni essenziali dell’esser-se-stesso e del non-esser-solo” (26). La normazione privatistica presiede al primo, quella penalistica al secondo. La prima consente al soggetto la realizzazione di sé, stabilendo “la forma giuridica di ciò che si intende fare”, dai rapporti familiari, a quelli successori, a quelli patrimoniali nel tessuto delle relazioni esistenziali. La seconda, attraverso la proibizione, preserva il soggetto dall’offesa che infrange la relazione medesima.
Entrambi gli ambiti prescrittivi sono, dal punto di vista della loro posizione normativa, di necessità tipici, rispondendo alla semantica del “tutti coloro che”; l’individualità esistenziale, cioè la sua atipicità, è riconquistata tramite la giurisdizione: “grazie ad essa [emerge] la concreta realtà dell’io autore degli atti e responsabile di essi nei confronti di altri” (27).
Il percorso compiuto attraverso la tematizzazione della “residualità” husserliana trova conferma nelle ricerche antropologiche di Lévi-Strauss, dalle quali Cotta trae argomenti per arricchire il contesto empirico e concettuale idoneo a costituire la chiave di accesso ad un’ermeneutica esistenziale del fenomeno diritto.
Innanzitutto, i risultati di quelle ricerche gli consentono di confutare la tesi di “una separazione storica e antropologica tra la condizione ‘prelogica’ attribuita all’uomo ‘selvaggio’ e la condizione ‘logica’ dell’uomo ‘civile’: entrambi pensano e agiscono con logicità”. In secondo luogo, comportano il “riconoscimento dell’universalità di strutture portanti, testimoniata a livello empirico tanto dai ricordati interdetti fondamentali riguardanti ‘il non fare’, quanto dalle strutture elementari della famiglia umana esogama in sé e nel suo ‘farsi’ nell’intrecciato sistema delle parentele”. In terzo luogo, il “‘superamento’, sulla base dell’universalità dei fenomeni sopra ricordati, dell’altrimenti irrisolto e sconcertante caso delle diffuse somiglianze o analogie” fra i comportamenti, che sono alla base delle diverse culture storiche. Infine, ciò che si dà in modo incontrovertibile, è la dimensione cognitiva, soggetta alla “verifica apofantica di vero/falso e non alla dialettica del conflitto e della superiore sintesi” (28).
D’ora in avanti i passaggi di Cotta sono stretti, sintetici e conseguenziali.
Il punto essenziale è che il sistema degli interdetti (incesto, omicidio, menzogna e furto), antropologicamente riscontrato su base cognitiva, mostra che esso non appartiene a scelte culturali specifiche, idealmente repressive della natura umana, altrimenti vitalisticamente incondizionata. Al contrario, costituisce il caposaldo del dispiegarsi della libertà di una soggettività universalmente strutturata nella relazione. Quegli interdetti, infatti, sono la garanzia che l’esistenza si dà per il suo svolgersi pacifico e amicale, con l’intrecciarsi di pretese e obblighi, di doveri e di diritti. “Gli interdetti sono la formulazione in termini negativi (di ‘non fare’) del dovere correlato al diritto in termini positivi (di essere e di fare)” (29).
Cotta aggiunge – cogliendo, ad un tempo, la dimensione che definirei “poetica” dell’esistenza – “l’antichissimo obbligo dell’ospitalità”, che individua la messa in pratica dell’esser-uomo nel suo svolgersi in universale, verso chiunque e in particolare verso lo straniero. In ciò essa mostra, ancora una volta, come, proprio a partire dal piano delle relazioni empiriche, la dimensione dell’io non sia pensabile senza quella dell’alterità. Visti nel loro insieme, gli interdetti e l’ospitalità, vanno ad individuare un tessuto di “regole vincolanti l’agire”; “tutte riguardano l’individuo umano da rispettare e proteggere, …in sé e per sé, per la sua semplice qualità di uomo” (30).
Il punto che mi sembra utile sottolineare è il seguente. Cotta attribuisce al sistema degli interdetti non una funzione meramente repressiva, secondo quella che spesso è stata una interpretazione di stampo ideologico, ma, coniugandoli alla ospitalità, li ri-legge come “pietra angolare” della vera libertà del soggetto nella costruzione della sua dimensione interpersonale e sociale. Conseguenza coerente è il prendere atto del darsi di una “lois d’ordre”, secondo le parole di Lévi-Strauss, la quale, da un lato descrive il sistema della relazionalità antropologica ottenuta con il metodo empirico-osservativo; dall’altro, testimonia di un profilo prescrittivo, attraverso il quale la descrizione acquista effettiva attuazione.
Le ricerche dell’antropologo francese conducono Cotta ad estendere lo sguardo verso altri ambiti scientifici, come quelli della psicoanalisi freudiana e della scienza fonologica, per trovare come, attraverso queste diverse linee di ricerca, venga confermata la tesi della esistenza di “leggi d’ordine”, le medesime che nel lessico kantiano assumono la denominazione assoluta di “legge universale”. Più empiristicamente, si può dire che esse costituiscono il tessuto “inconscio” interno a ciascuna cultura, orientandone, nel concreto dell’affermarsi e svolgersi storico, le specifiche direzioni normative: “…il sous-jacent rende conoscibile una realtà ulteriore, quella ‘profonda’, dalle caratteristiche opposte [alla mutevolezza e particolarità]: di invarianza e universalità. La cultura viene pertanto ad essere individuata nella pienezza del suo spessore…”. E più avanti: “Invariabili e variabili (…) sono in sé, è bene precisarlo, realtà antropologiche riscontrabili di fatto: oggetto di conoscenza e fonte di conoscibilità” (31).
Attraverso il rilievo del dato cognitivo costituito dalle invarianze e dalla dimensione dell’“invisibile”, che conducono a rendere strutturale il binomio interdetto – ospitalità, Cotta giunge a stabilire ulteriori due punti fermi, di crescente portata speculativa.
Il primo consiste nel riconoscere come la dimensione della giuridicità appartenga alla dimensione strutturale dell’esistenza (tema che ho sottolineato fin dall’inizio di questo scritto e soprattutto come punto di distanza da Capograssi); il secondo, e per conseguenza logica, come vi sia un “legame cognitivo fra l’esserci del diritto e la forma del suo dover essere (deontico)” (32).
Dicevo che l’articolazione di questi due punti contiene una crescente portata speculativa, poiché è costitutiva del cognitivismo giuridico di Cotta, che ha per oggetto un legame tra il momento deontico fenomenico e la struttura essenzialmente relazionale della condizione umana: legame, che trova realizzazione pratica nella forma metodica del rispetto che ogni “individuo” deve ad ogni altro individuo: “Pertanto, poiché le invarianti, per lo meno quelle fondamentali, riguardano proprio il rispetto dell’individuo, in quanto anthropos (uomo e donna) strutturalmente e ontologicamente inteso, l’invarianza diventa il criterio del giudizio di accettabilità del ‘variante’, che è tale per aderenza a situazioni particolari di innovazione, rivoluzione, deviazione, ripudio: si pensi alle norme razziali” (33).
Proprio questo rapporto metodico dà conto del modo con il quale Cotta tratta il tema dei valori nel diritto, dalla certezza alla giustizia. Per lui “certezza” e “giustizia” non sono valori, nel senso tradizionale della parola (34); non sono da intendersi come “qualità” che si aggiungono dall’esterno al fenomeno normativo, sì da renderlo migliore. In ciò Cotta è davvero “fuori” da ogni ragionamento “politicamente corretto”, come si usa dire; egli smonta, infatti, come banalità, quegli aspetti che rendono più facilmente fruibile e “visibile” il pensiero politico “libero” e “democratico”. La questione della certezza e della giustizia non appartiene al mondo dei “valori”, ma a quello della teoresi filosofica (come ho sottolineato in precedenza): essi non sono valori estrinseci, ma sono profili della stessa struttura esistenziale e relazionale del diritto.
Qui la critica ad ogni sistema di potere totalitario, in nome della libertà dell’individuo, a me sembra ancora più drastica; se si trattasse di “valori”, essi potrebbero essere discutibili, interpretabili e manipolabili a seconda della loro funzionalità rispetto alla contingenza politico-ideologica. Poiché non di valori si tratta, ma di strutture esistenziali che entrano nella costituzione della giuridicità, le quali emergono cognitivamente dal quadro d’insieme fornito dai risultati cui sono pervenuti altri ambiti scientifici e di ricerca, allora la mancanza di certezza e giustizia attesta l’inesistenza stessa di un diritto fenomenico, nonostante l’esistenza empirica di norme. In altre parole la fenomenicità giuridica, costituita dai fattori teoretici della certezza e della giustizia, va oltre il mero empirismo normativo.
Con questa diversa ottica, nella quale, a mio parere, la radicalità della conclusione viene raggiunta attraverso la via critico-metodica del nesso tra norme poste e essenza esistenziale del diritto, si giunge a risultati deflagranti circa il modo consueto di trattare la questione del rapporto tra diritto e valori giuridico-morali. Espressioni come “giusto diritto” e “giusto processo”, per ricordare quelle che più frequentemente entrano nel dibattito culturale attuale, nella polemica politica ed infine, in altro modo e con altro linguaggio, nella controversia filosofica tra giuspositivismo e giusnaturalismo, finiscono per perdere una effettiva significanza. Diritto e processo o sono “giusti” o non sono né diritto né processo. Un diritto ed un processo “ingiusti”, non sono “Diritto” e neppure “Processo”, ma atti arbitrari promossi dalla mera effettività di un potere. Esattamente come accade per la validità della norma. Come ha mostrato esattamente Amedeo Conte (recentemente scomparso), la “validità” è costitutiva della norma; dunque, una norma invalida non è una norma.
Nel coniugare ricerche antropologiche e risultanze filosofico-esistenziali circa la condizione umana, Cotta avverte il rischio, e il conseguente pericolo, di una critica che abbia ad oggetto un approdo sommariamente metafisico della sua ricerca. Se un tale pericolo e rischio non fossero fugati, tutto il suo “cognitivismo”, che definirei critico, perderebbe la sua forza ermeneutica. Il ponte capace di sostenere la correttezza del passaggio tra un campo di ragionamento e l’altro; il ponte capace di fondare, cioè, le sue conclusioni sul rapporto tra esistenza e giuridicità a partire dall’antropologia per giungere ad una ontologia filosofica, è costruito da Cotta, utilizzando proprio il materiale logico offerto da Wittgenstein, traendolo dal Tractatus logico-philosophicus.
Se il ponte ha i suoi piloni portanti nelle regole pure della logica, allora le conclusioni filosofico-strutturali, e l’universalismo che ne segue, non possono essere a rischio dell’accusa di ideologismo metafisico.
I passaggi logici sono tratti dal secondo paragrafo del Tractatus, là dove Wittgenstein pone i fondamenti di validità di un ragionamento che abbia ad oggetto “fatti”, definibili, in generale, come “stato di cose”.
La catena logica evidenziata Cotta è la seguente: a. il fatto è uno stato di cose verificabile secondo il canone vero/falso; b. ogni stato di cose è costituito da un nesso di oggetti detti, appunto, “cose” (Sachen). A questo punto ricorre il passaggio-chiave, che riprendo direttamente da Cotta, che cita a sua volta, in parte, alcune proposizioni del Tractatus: “…‘se la cosa può ricorrere nello stato di cose’ ciò comporta che ‘la possibilità dello stato di cose deve (muss) essere già pregiudicata (präjudiziert) nella cosa’. Ma poiché – sottolinea Cotta – seconda conseguenza, ‘noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri oggetti’, allora ‘io non posso concepirlo fuori della possibilità di questo contesto’ ”. “Pertanto, la conoscenza dell’ ‘oggetto’ (o ‘cosa’) comporta la conoscenza di tutte le ‘possibilità della sua ricorrenza in stati di cose’…” (35).
Su tale tessuto di conseguenzialità logiche, Cotta fonda, a partire dalla osservazione empirica di cose, stati di cose, fatti comportamentali, la legittimità speculativa del nesso tra invarianza osservativa e universalità strutturale dell’esistenza. Se nella “cosa” è compresa la possibilità del contesto nel quale essa inevitabilmente appare, allora tale possibilità è data dalla capacità della “cosa” di contenere, nel suo sussistere, un ordine di significanza, che la individua, proprio in virtù della premessa contestuale che è capace di evocare. La capacità evocativa di una “significanza” (è il mio modo di sintetizzare il ragionamento di Cotta) ha, a suo fondamento, una importante asserzione che, nel Tractatus, segue all’itinerario logico tracciato: “ ‘per conoscere un oggetto non devo conoscere le proprietà esterne – ma tutte le sue proprietà (Eigenschaften) interne io devo conoscerle’. Applicando questo ragionamento al fenomeno-diritto, appreso come fatto riscontrabile in innumerevoli contesti empirici concreti, ne segue che – sono le conclusioni di Cotta – tale fenomeno contiene in sé la possibilità del contesto storico empirico nel quale ricorre, a partire dalle sue “invarianti”. In altre parole, l’osservazione del dato empirico costituito dalla realtà di un ordinamento storico che mette in luce il ricorrere delle “invarianti”, è la prova logica di una possibilità in sé, da intendersi in senso strutturale, di esistenza. La giuridicità strutturale è all’origine del fenomeno normativo nella specificità storica, in quanto ne contiene sua “possibilità”: “il diritto resta sempre se stesso nella propria natura normativa in tutti gli innumerevoli casi nei quali è presente e ai quali si connette conferendo loro natura giuridica”. Grazie al felice riferimento a Wittgenstein, si comprende ancor meglio come per Cotta certezza e giustizia non siano “valori” in senso tradizionale, ma elementi costitutivi di ogni contesto giuridico e come essi trascendano il mero empirismo normativo.
Ancora. Poiché Wittgenstein aveva messo a fuoco, come imprescindibile, la circostanza che all’origine del processo logico vi è l’io che “deve conoscere…”, ciò consente a Cotta di concludere che la strutturalità esistenziale del diritto emerge dalla attività riflessiva dell’Io: “Infatti, l’ich (…) non è altro che l’Ich: l’individuo umano nella sua propria struttura di essere cosciente, ad un tempo delle sue capacità e dei suoi bisogni, è l’Io soggetto conoscente” (36).
Con quest’ultima affermazione Cotta attua una vera e propria rivoluzione copernicana à la Kant, mostrando come il principio di ogni atto di conoscenza, costituito dall’esperienza analitico-osservativa e dal successivo percorso sintetico-concettuale, appartenga alla ragione speculativa del soggetto, il quale è capace di elaborare delle regole oggettive – “logiche, cioè” – di controllo metodico delle proprie conclusioni cognitive ed ermeneutiche, applicate, nel caso di specie, al fenomeno diritto.
Si comprende ancor meglio, a questo punto, quanto ho delineato nelle prime pagine del presente contributo, circa la personalità filosofica di Sergio Cotta. Appare ancora più chiaro, infatti, come egli si situi dentro quel percorso tracciato da quelle linee della filosofia del ‘900, per mezzo delle quali, e soprattutto per il tramite di Wittgenstein e Husserl, la lezione di Kant serve a superare lo storicismo idealistico e materialistico e a dar voce all’esistenza umana, recependo le istanze post-hegeliane dell’esistenzialismo, e, tuttavia, prendendo le distanze dalle sue derive emotivo-soggettivistiche e, talora, nichiliste.
Nella applicazione di un tale itinerario speculativo alla ermeneutica esistenziale del fenomeno giuridico si annida l’importanza della lezione filosofico-giuridica (e direi “filosofica” tout court) che Sergio Cotta ha lasciato ai giuristi del ‘900 (ed a noi, più giovani studiosi a cavallo del secolo). Lezione che, tuttavia, per quanto intellettualmente apprezzata, non è stata mai davvero compresa (come ho accennato all’inizio) da coloro cui era stata idealmente destinata, proprio per l’assoluta novità dello strumentario filosofico adottato e l’originalità applicativa che egli ne ha compiuto.
- Conclusione: relazionalità del soggetto e parità ontologica.
Ho sottolineato da ultimo come quella di Cotta sia una prospettiva filosofico-teoretica sul diritto; più precisamente, come essa sia una prospettiva filosofica tout court, dalla quale egli guarda al fenomeno giuridico, secondo quella linea di ricerca prospettata esplicitamente nei testi delle sue lezioni romane, la cui prima edizione, Primi orientamenti di filosofia del diritto, porta la data del 1966, cui seguirono le Prospettive di filosofia del diritto, nelle due edizioni del 1971 e del ’74.
Ho già più sottolineato come il fulcro della sua filosofia del diritto, in quanto in primo luogo filosofia teoretica (non mi stancherò mai di ripeterlo), è rappresentato dalla tematizzazione della relazionalità ontologica dell’esistenza, che egli elabora compiutamente ne Il diritto nell’esistenza. Linee di un’ontofenomenologia giuridica, già ampiamente ricordato.
Ora si tratta di mettere a fuoco il punto centrale di tale tematizzazione. Esso si costruisce attorno al nesso “finitezza – autocoscienza – relazionalità”. E’ un nesso particolarmente significativo. Il tema dell’“autocoscienza”, infatti, è – come è noto – tipicamente hegeliano; Cotta, tuttavia, inserendolo proprio tra le due strutture ontologico-esistenziali della “finitezza” e della “relazionalità”, stabilisce, in modo teoreticamente decisivo, il suo allontanamento dallo storicismo idealistico.
Vediamo.
Il primo passaggio. L’approccio è empirico: la presenza materiale dell’“altro da sé”. Ciò che bisogna mettere in luce, per comprendere, è la situazione che si realizza quando l’ io incontra l’altro da sé.
Scrive Cotta: “Non si dà…come nella prospettiva idealistico-soggettivistica, l’ io che pone l’altro nel pensiero, per la necessità di autodefinirsi nella propria singolarità, bensì l’ io che comprende sé nella relazione con l’altro e, reciprocamente, comprende l’altro nella relazione con sé”(37).
Il punto che dà origine e senso esistenziale a una tale condizione fenomenica è, a mio avviso, costituito da una dimensione fondamentale, empirica e al tempo stesso sostanziale, davvero strutturale e universale: la finitezza (38). Intendo dire che si può vedere coincidere nella finitezza dell’ente-uomo il fenomenico e lo strutturale, il sostanziale e l’universale, l’ontico e l’ontologico.
In altre parole, la “consapevolezza” dell’ io prende forma in virtù della razionalizzazione di un dato ontico che, al tempo stesso, contiene un logos: la “finitezza”. Quest’ultima costituisce l’ente-uomo non solo perché la vita si inscrive entro i confini della nascita e della morte, ma perché ogni gesto umano, ogni azione, ogni pensiero, ogni parola, discorso, financo la sillabazione, sono realtà materialmente “finite” come emerge dal fatto, anch’esso empirico, che, nella medesima situazione, si dà sempre la possibilità di operare diversamente. Il tema della possibilità è la rappresentazione dinamica della finitezza, poiché è ciò che rende controfattuale ogni affermazione di totalismo e definitività, propri dell’autocoscienza dell’io pensata dall’idealismo.
“Lo statuto ontologico dell’uomo non ha tuttavia, è bene precisarlo, conseguenze deterministiche, ossia non necessita l’individuo all’agire coesistenziale, ciò che renderebbe incomprensibile la reale ambivalenza del con-esserci. Dà invece origine alla esistenza aperta dell’esercizio della possibilità”(39). Hegelianamente, al contrario, aggiungo io, la realizzazione della soggettività consiste nel pervenire all’autocoscienza necessaria di appartenere ad un corpo totale e esistenzialmente assoluto come lo Stato, la Nazione, il Popolo, la Classe…
La consapevolezza razionale del sinolo finitezza – possibilità conduce, invece, a comprendere “sé nella relazione con l’altro”, in quanto ogni “io” sa di essere a sua volta “altro” per l’io dell’altro. Ecco perché Cotta può dire che l’autocoscienza dell’io non consiste nel porre l’altro, poiché l’alterità appartiene alla stessa costituzione dell’io. Tale condizione non induce necessariamente l’uomo ad agire in senso coesistenziale, poiché lascia aperta la possibilità (in ciò consiste il “libero arbitrio”, aggiungo io) di autodeterminarsi anche in contraddizione con la propria costituzione finita. E’ ancora Cotta a sottolinearlo, quando scrive: “Se la sintesi è costitutiva del sinolo (o unità) dell’esser-uomo – e quindi è intrascendibile – essa è però sempre da trovare e da ricomporre sul piano della vita vissuta a causa delle opposte tendenze…L’infinito, infatti, sospinge di continuo il finito oltre i suoi limiti; il finito riconduce a sé di continuo l’infinito. La possibilità esistenziale sorge proprio dal vario combinarsi di queste due tendenze…”(40).
Il percorso che Cotta compie dentro la soggettività è davvero teoretico-ontologico in senso forte e lo si vede grazie a due distinzioni: il modo con il quale usa il riferimento a Wittgenstein e la diversità con l’etica del dialogo di Apel (anch’egli, com’è noto, sensibile alla lezione di Wittgenstein, ma in altro modo). La tematizzazione della soggettività per Cotta va ricondotta, infatti, alla sua concettualizzazione in universale, consistente nell’autocoscienza che la soggettività di ciascuno (la nostra soggettività) si costituisce essenzialmente nella relazione. Il soggetto, qui tematizzato, muove dalla sua dimensione empirica ed è quello che non può essere non pensato se non nella condizione di finitezza; dunque è il soggetto in sé, cioè in universale. Ciò è verificato dalla traduzione da parte di Cotta dell’ich di Wittgenstein nell’Ich dotato di riflessività, e quindi di auto-consapevolezza.
E’ il soggetto, nella sua stessa pensabilità, ad essere strutturato esistenzialmente nella relazione; come dire che non è possibile pensare la soggettività umana fuori di tale struttura.
E qui sta la differenza con Apel. Questi affida all’etica del discorso il compito di realizzare un ponte pragmatico tra due io esistenzialmente conchiusi nella loro individualità empirica; in Cotta, al contrario, è la stessa costituzione del soggetto a contenere in sé la dimensione dell’io e quella dell’alterità. Apel, seguendo una via post-metafisica, deve affidarsi all’etica, cioè alla buona volontà di intendersi, per realizzare la relazione tra gli uomini (il concetto di “co-soggetto”); Cotta, assai diversamente, fondando la costituzione stessa della soggettività nella finitezza ontico-ontologica, accedendo quindi ad un livello metafisico, può emancipare il dialogo dall’etica e condurlo ad essere la manifestazione esistenziale della umana struttura relazionale. Il che non vuol dire perdere il profilo etico, ma significa fondarlo su quel piano teoretico che apre alla possibilità di non praticarlo ed alla conseguente responsabilità di non praticarlo. Di esercitare, cioè, il rifiuto ed il dominio sull’altro. In ciò Cotta coglie, a mio avviso, il senso antico del dia – logos: il messaggio, che l’uomo deve saper cogliere (logos), che promana dalla separazione empirica (dia) “io – altro”.
Sul punto della consapevolezza autentica della “finitezza”, come dato ontico-ontologico, si gioca il senso universale della soggettività.
Per Cotta, la finitezza è un concetto che egli afferma essere ricavato dall’esperienza comune e del quale l’uomo è consapevole; e ne è consapevole come “mancanza del proprio essere, come difettività di questo”. Esso è la radice di quella indigenza ontologica, che definisce l’esistenza umana, sia sotto il profilo empirico, sia sotto quello decisivo della auto-consapevolezza: “L’indigenza – scrive Cotta – è il tratto che segna la differenza radicale tra il livello umano di essere e quello non-umano. E’ pertanto la prima caratteristica ontologica dell’uomo… Si apre perciò un nuovo campo di indagine alla riflessione: quello ontologico” (41).
Avvertire la propria finitezza, e l’“indigenza” che l’accompagna, significa, sostiene Cotta, che l’uomo ha in sé il senso dell’ulteriorità, che accompagna logicamente ogni dimensione finita: “se l’uomo è cosciente della propria indigenza, ciò significa che si pone di là della finitezza, si colloca nella prospettiva dell’infinito. Solo nel confronto con questo, il finito è avvertibile come indigente”(42).
Dunque, la finitezza si traduce nella consapevolezza dell’essere indigente; è proprio nella mancanza di tale consapevolezza, sempre possibile, che l’uomo viola l’alterità per affermare la propria assoluta compiutezza. In ciò consiste il gioco del potere (e la sua “fragilità”, aggiungo io). Il potere dell’uomo sull’altro uomo contiene una sua strutturale controfattualità che lo rende “fragile” (non “debole”, si badi). Il potere, infatti, per essere “effettivo” deve essere assoluto, cioè non-finito; per realizzare quella assolutezza che lo rende ”effettivo”, non solo deve chiedere sottomissione, ma deve immunizzarsi dalla disobbedienza. E qui sta la controfattualità e quindi la sua intrinseca fragilità: l’assolutezza, infatti, costruendosi sull’ “obbedienza”, è, paradossalmente, dipendente dall’alterità. E la storia ha tragicamente messo in mostra tale fragilità, che si è dibattuta tra violenze e inevitabili sconfitte e cadute (43).
“Ma l’autocoscienza razionale – scrive Cotta – ha di fronte a sé un’altra via percorribile (ed in effetti percorsa come l’esperienza ci insegna), senza che in essa venga negata o annullata la particolarità del soggetto in favore di una fantastica dissolvenza nell’infinito assoluto, che comporterebbe la fine della vita”. Con queste parole si introduce il tema della “parità ontologica”, che io considero il messaggio che Cotta lascia in eredità al travaglio del mondo contemporaneo.
“Tale via procede – prosegue Cotta – dal riconoscimento di sé come particolarità pari a tutte le altre particolarità (umane s’intende) e dal riconoscimento che tale parità non solo è inerente alla loro qualità formale di particolarità finite ma, più nel profondo, è conseguenza del loro comune statuto ontologico, per cui l’altro è appreso e intenzionato in quanto uomo, e non in quanto amico, concittadino, compagno e simili: uno come me (44).
Sono righe decisive. In esse, con passaggi logici stringenti, Cotta fa emergere come la “parità ontologica” sia la condizione universale dell’esistenza umana. Se la radice dell’esistenza è, come abbiamo visto, la sua “finitezza”, allora quest’ultima costituisce tutti gli uomini come “pari”. Attenzione, non uguali, ma pari. Poiché ritengo che questo sia il messaggio che Sergio Cotta lascia a noi, uomini del XXI secolo, desidero dedicare a questo profilo alcune notazioni, mettendo in luce quella ambiguità che è contenuta nell’idea “moderna” di cittadinanza e che oggi è, ad un tempo, assunta e tematizzata come il luogo dell’uguaglianza dei cittadini e come il luogo ideale sul quale si gioca la dialettica inclusione – esclusione.
Andiamo con ordine, con qualche riferimento storico.
La “cittadinanza”, nel significato e nell’uso comuni, è quel termine che individua la sfera dei diritti e dei doveri, ma soprattutto quella dei diritti, che sono garantiti a (o comunque dovrebbero esserlo), e possono essere pretesi da, colui che è membro di quella comunità sociale che costituisce la base di legittimazione politica del potere di governo. Ciò significa essere “cittadino”.
Assumo questa sintesi come punto di avvio, proprio al fine di mostrare come essa contenga potenziali ambiguità concettuali, che sono divenute attuali al mutare del contesto culturale originario. Intendo dire, cioè, che nessun concetto è universale, né universalizzabile, ma, con Hegel, ogni concetto è “figlio del proprio tempo appreso nel pensiero”. E il nostro “proprio tempo” è segnato dalla sequenza globalizzazione economico-finanziaria – tecnologie informatico-digitali, che istituisce una frattura epocale con quel sistema di pensiero che, pur con le sue differenze interne, poteva essere raccolto sotto l’etichetta di “Ragione Moderna”, fino a contenere anche il ‘900 post-metafisico e post-moderno (che Cotta preferiva definire “neo-moderno”). Non vado oltre su questo punto; torno invece al termine “cittadinanza”, che come tutti sanno ha una sua storia: dal membro della polis greca al civis romano, al membro delle comunità comunali medievali italiane. Nel “moderno”, al quale solo intendo far ora riferimento, basti ricordare come tale termine fu il segno ed il simbolo della caduta dell’Ancien Régime e della nascita dello Stato Costituzionale ottocentesco. Dunque “cittadinanza” e “cittadino” hanno una precisa origine storico-politica, legata a due fattori: l’uno, espressione di una continuità e l’altro di una cesura. La continuità è data dall’ente politico di riferimento, costituito da quello che viene definito, dalla letteratura filosofico-politica, “Stato moderno”; la cesura trae origine dal passaggio storico che segna la caduta dello Stato assoluto illuminato e trova nuova definizione nello Stato Costituzionale, che, nel corso dei secoli XIX e XX, ha avuto diverse configurazioni, dallo stato “liberal-borghese” allo “stato sociale”.
La figura dello Stato, con la sovranità che gli appartiene, è decisiva, poiché è la rappresentazione della sintesi di una sostanza politica e di una situazione socio-esistenziale. In che senso la sovranità è sintesi del “politico” e dell’“esistenziale”? Prima di procedere nella risposta voglio ricordare che proprio su questo punto Cotta sottolinea la permanente particolarità della politica: “…nella politica, la comunanza fa sì che l’io acquisti la coscienza della sua appartenenza a noi e della concretezza che gli deriva da tale appartenenza, come hanno mostrato più di qualsiasi altro Rousseau e Hegel. Ma per i loro caratteri strutturali [“loro” è riferito oltre che alla politica anche alla amicizia]…tali esperienze sono selettive, poiché si stabiliscono soltanto fra coloro che condividono un idem sentire inscritto nella particolarità, perciò sono esperienze esclusive”(45).
Dopo queste righe, la risposta all’interrogativo lasciato sospeso apparirà chiaro.
Nella misura in cui l’esistenza individuale, il proprio essere uomo, si avvertono realizzati attraverso la cittadinanza, attraverso cioè il riconoscimento in un noi politico, allora l’uomo si trasfigura nel cittadino; e ciò costituisce il fondamento “moderno” di legittimazione della istituzione governante e l’esistenza individuale e collettiva appaiono custodite e tutelate dall’ “ordinamento giuridico”. In altre parole, la cittadinanza implica una serie di fattori che ne dispiegano il significato: appartenenza e riconoscimento sociali, rispetto di un comune ordinamento legale, partecipazione alla formazione degli organi di governo. Questi tre fattori hanno trovato una sintesi terminologica, nei secoli precedenti al nostro attuale, in due parole che sono altrettanti concetti estremamente densi di idee e di storia: Popolo e Nazione. Due termini che, a loro volta, comprendono, come fattore non discusso e non discutibile, il “territorio”, e l’inclusione sociologica che ad esso è legata. Il brocardo che fondò lo Stato Moderno, cuius regio eius et religio, al di là dei processi di laicizzazione, è tuttavia ciò che ha rappresentato, nella storia europea, il senso di una appartenenza sociale che comprende, come ho detto, la realizzazione dell’esistenziale, dando origine ad altri due concetti che hanno segnato lo svolgimento del pensiero moderno: libertà e uguaglianza. La loro dialettica, le loro composizioni, i loro bilanciamenti hanno condizionato il dispiegarsi di un terzo concetto: giustizia. Fermiamoci, tuttavia, per ora a riflettere sul rapporto che si istituisce tra cittadinanza e uguaglianza soprattutto in un tempo come il nostro segnato dal fenomeno epocale costituito dalle migrazioni. Ed è proprio su questo punto che si coglie l’attualità del logos contenuto nel concetto di “parità”, proprio della ontologia dell’esistenza tematizzata da Cotta.
Occorre avere presente l’idea di territorio al quale segue l’altra idea, quella di confine, che stabilisce un al di qua ed un al di là. Vale a dire, il confine, nel suo concetto, separa e, quindi, include ed esclude; e proprio questo movimento costituisce un segno di identificazione politica ed esistenziale di una collettività. La cittadinanza, che dal confine è determinata, svolge la medesima funzione: include, ma, al tempo stesso, come conseguenza logica, esclude: l’al di qua rinvia sempre, logicamente, ad un al di là; appartenenza / non appartenenza. Vi è una eccezione, forse l’unica, nella storia: Roma. La cittadinanza romana, come la connessa idea di “sovranità”, hanno entrambe la caratteristica di non essere condizionate da confini territoriali, ma di essere legate al rispetto dell’ordine giuridico, ed in quelle sue strutture essenziali, che lo identificano come “romano”(46).
Dunque la cittadinanza è caratterizzata dalla dicotomia inclusione/esclusione; da qui si apre la questione dell’integrazione, che implica immediatamente, appunto, quella dell’uguaglianza.
In questa sequenza – cittadinanza, integrazione, uguaglianza – si radica quel profilo che un tempo era certamente valorativo-ideale, ma che nel presente, con il modificarsi del contesto storico-esistenziale, può divenire ambiguo, proprio a causa della dicotomia inclusione / esclusione. Quest’ultima, infatti, nell’attuale contesto della storia umana, introduce una tensione potenzialmente dialettica tra la pura dimensione esistenziale e quella socio-politica. Basti ricordare che nella tradizione moderna dello Stato, concreto (à la Hegel) non è l’“uomo”, ma il “cittadino”, in quanto appartenente ad una comunità storicamente determinata e politicamente strutturata e, in base a questa, dotato di una sua propria identità anche umana. In altre parole, l’essere “cittadino” rende concreta la dimensione puramente o “astrattamente” (direbbe ancora Hegel) esistenziale.
Che questa visione intellettuale non sia datata e anzi sia divenuta abito mentale della gente comune e del ceto politico, ben oltre la sua propria origine filosofica, lo dimostrano gli argomenti che ancora oggi, pur in un’epoca di globalizzazione, sostengono il dibattito e la polemicità che si agitano attorno allo jus soli.
In realtà il tema è concettualmente complesso e tale complessità emerge proprio dall’analisi che Cotta conduce attorno alle “categorie” inclusive / esclusive, in particolare proprio dall’ambivalenza della “politica” e del connesso concetto di “uguaglianza”.
Innanzitutto, il nesso cittadinanza-confine-uguaglianza potrebbe trovare una sua non trascurabile smentita a causa di un’altra tradizione storica: il cosmopolitismo. L’essere cioè “cittadino del mondo”. Pensiamo alla filosofia stoica o a quella illuministica. Tuttavia, anche il cosmopolitismo ha i suoi confini, che non appaiono come immediatamente territoriali (ma invece lo sono anche), ma antropologico-esistenziali. Sia il filosofo stoico come l’intellettuale illuminista, almeno in generale, convivevano perfettamente con la schiavitù e con l’idea che in certe terre del mondo (ecco il profilo territoriale) abitassero popoli inferiori da “civilizzare”; meglio, da colonizzare e sfruttare.
Proprio questa notazione, risalente nel tempo, apre la questione sull’oggi, con un interrogativo di fondo: il concetto di “uguaglianza” è universalizzabile? E se lo fosse, allora, come si concilierebbe con la cittadinanza che è legata alla coppia inclusione/esclusione? In più, come si configurerebbe in un’epoca come l’attuale, nella quale la globalizzazione non ne elimina per nulla la problematicità pratica, ponendo anzi nel mirino i processi di integrazione? Come si conciliano, infatti, le istanze di universalizzazione, e di conseguente integrazione, necessarie per una effettiva tutela e conseguente convivenza pacifica dell’umanità, con la crudeltà, la violenza, il disastro ecologico e la miseria, diffuse in larghe fasce del pianeta? E, infine, come si conciliano con il rispetto, altrettanto necessario, per le diversità culturali (su grande e piccola scala), le quali rinviano ad antropologie che dei fenomeni detti possono dare descrizioni e valutazioni diverse, fino ad essere anche antitetiche?
In sintesi: il concetto di uguaglianza non è universalizzabile, poiché è legato a due concetti, cittadinanza e identità, che implicano l’uno la coppia inclusione – esclusione e l’altro la coppia uguaglianza – diversità. E, si badi, qui non si tratta di un gioco intellettuale, ma di un atteggiamento mentale comune e diffuso soprattutto in tempi segnati da profonde crisi economiche e da fenomeni migratori di portata epocale, dove le diversità dell’altro vengono vissute come intollerabili attentati alla propria identità. Infatti: se la cittadinanza è inclusione, perché rendere “cittadini”, cioè integrare, uomini tanto diversi? In più, se la cittadinanza è ciò che garantisce e, quindi, rende concreta la mia esistenza, riconoscere come cittadini “altri” così diversi non è forse un attentato alla mia stessa esistenza?
In queste domande si annida il significato dell’ambiguità, che ho segnalato, tra cittadinanza e uguaglianza. L’ambiguità non è solo teorico-concettuale, poiché, come ho detto, la pratica discriminatoria è diffusa e radicata in larghe fasce di popolazione. Conclusione: non bisogna innamorarsi acriticamente di concetti che hanno una specifica complessità teorica e storico-politica, che li rende non universalizzabili. La questione diviene drammatica soprattutto perché essi si sovrappongono ad un altro concetto altrettanto “concreto” e, questo sì, universalizzabile, quello di esistenza umana. E con quest’ultimo finiscono per confondersi. La conseguenza, espressa in parole semplici, è la seguente: libertà e diritti, che sarebbero strutturalmente propri dell’esistenza umana in quanto tale, trovano riconoscimento e tutela solo attraverso il presupposto formale della cittadinanza. E questo meccanismo politico – istituzionale genera quei processi di esclusione di cui si è detto.
Nella direzione “di conservazione e superamento (di Aufhebung, per dirla ancora con Hegel) della particolarità – sono sempre parole di Cotta -, gli elementi strutturali dell’amicizia e della politica non sono di aiuto, anzi, presi in sé, sono di ostacolo per la loro valenza esclusiva” (47).
Ho cercato di mostrare, dunque, la complessità e le ambiguità che accompagnano il concetto, fondamentalmente politico, di cittadinanza; per converso, il riferimento al concetto di esistenza umana va inteso come la costituzione onto-logica dell’uomo quale ente finito. In virtù di tale opposizione, Cotta, lasciando da parte la Aufhebung hegeliana, opera quell’autentico tescendimento che fa dell’esistenza umana il vero “universale”. Il simbolo semantico-concettuale di tale operazione speculativa è il termine “parità”, che Cotta ci lascia in eredità, da confrontare dialetticamente con quello di “uguaglianza”, per la decisiva distinzione “teoretica” che contiene. Il termine “parità” trae origine dalla distinzione tra “uomo” e “cittadino”.
Il passaggio terminologico è decisivo, poiché consente di tradurre in termini concettualmente corretti quella che viene definita comunemente universale uguaglianza fra gli uomini, come premessa per abbattere le barriere che ostacolano una effettiva relazione esistenziale, al di là delle identità socio-culturali e politiche.
Uguaglianza e parità, uomo e cittadino sono le due coppie di termini con le quali occorre ragionare per entrare dentro il tema di una relazionalità esistenziale, come esperienza umana che non disconosca le identità specifiche, ma che non se ne lasci intrappolare e vada oltre il loro confine. In breve, il messaggio di Cotta è il seguente: la relazione esistenziale si stabilisce tra uomini, l’uguaglianza connota il cittadino. Mi spiego.
Il nesso politico-esistenziale cittadinanza – uguaglianza è una produzione culturale propria del razionalismo “moderno”, tant’è che il pensiero antico non conosceva tale nesso; il termine “uomo”, che fonda la relazione esistenziale, invece, è trans-epocale, poiché individua l’esistenza sulla Terra di un ente finito dotato della capacità simbolica e più in generale di una particolare capacità di pensare. Possiamo elaborare, mutare o perdere concetti come quelli di società, comunità, cittadinanza, popolo e così via, poiché si tratta di costruzioni culturali; ma il loro presupposto è l’esistenza dell’uomo, come fisicità corporea cui si connette una specifica capacità neurale. Quest’ultimo è l’aspetto, mi permetto di aggiungere, che più, oggi, va sottolineato come distintivo, se si tiene conto dei progressi dell’intelligenza artificiale e della realtà virtuale. Questione che già sollevava Turing in una conversazione radiofonica del 14 gennaio 1952. Non voglio andare oltre, perché la questione è complicata e troppo specialistica; mi limito solo a dire che la relazionalità esistenziale si situa in quella intercapedine, sottile ma non eliminabile, che sussiste tra scienza della natura e filosofia della vita.
Propria quest’ultima mia personale annotazione mostra quanto sia attuale il messaggio lasciatoci in eredità da Sergio Cotta.
A conclusione di questo mio testo intendo tornare, con alcune specifiche considerazioni,sul tema che è centrale nel pensiero di Cotta, essendo egli “filosofo del diritto”: il tema appunto del Diritto.
Il motivo è il seguente. Il Diritto al quale Cotta pensa è quello conosciuto da lui e da chi si è formato entro quel pensiero che, in larga misura, può definirsi “razionalismo moderno”, pur con le varianti che esso subisce nei quattro secoli che lo individuano e che a noi è pervenuto attraverso l’elaborazione ricevuta tra ‘800 e almeno la prima metà del ‘900.
Certamente, proprio in nome di quel Diritto, Cotta poteva prendere le distanze dal kelsenismo e dal fenomenismo ordinamentale (); poteva prenderne le distanze, proprio perché sia il fenomenismo ordinamentale sia il kelsenismo avevano come punto di riferimento il Diritto come “sistema normativo”. La presa di distanza di Cotta aveva ad oggetto la normatività meramente fenomenica, senza disconoscerla, ma per trovarne le radici antropologiche. Di qui il percorso teoretico che lo ha condotto a radicare il diritto nella stessa costituzione ontologica dell’esistenza umana, come manifestazione della relazionalità che la costituisce.
Le pagine che egli dedica al diritto mostrano quale sia l’idea di Diritto che apparteneva lui (e a noi delle generazione degli anni ’40 e ‘50 del ‘900): “Non v’è dubbio che, sotto certi aspetti, il diritto è strettamente connesso con la politica: non vi è ente politico nel quale sia assente il fenomeno giuridico. Indipendentemente dalle differenze storico-culturali, dalle dimensioni e dal tipo di organizzazione datasi…si tratta sempre di diritto dal punto di vista della struttura e della funzione”(48).
E’ qui, sull’insieme del ragionamento di Cotta, che occorre soffermarsi, a cominciare dalla seguente sottolineatura: “Il recupero dell’individualità comporta un duplice movimento inscindibile: per un verso…spogliandola delle sue concrezioni storico-esistenziali [la “cittadinanza”, appunto, che sopra ho ricordato] per riapprenderla nella sua valenza ontologica di accoglienza dell’altro soggetto umano e quindi recuperando la principalità dell’ontologico… Per altro verso comporta, su codesta salda base ontologica, un andar oltre il proprio ambito di coesistenzialità limitata e separante per riconoscere, di là da essa, la legittima presenza e l’autenticità umana di altre forme di coesistenzialità…Ciascuno di noi, riconosciuto il solido terreno della parità ontologica, è in grado di comprendere le diversità esistenziali dell’altro e di arricchirsene, superando la propria difettività” (49).
A partire da qui Cotta intraprende “la via coesistenziale del diritto”: “Malgrado la rilevante presenza di un diritto subalterno alla politica e malgrado la riduzione contemporanea del diritto all’ordinamento giuridico, io non credo affatto che l’intero fenomeno giuridico si possa ridurre a… ‘diritto politico’ [Montesquieu]… senza dubbio l’ordinamento giuridico è diritto, ma soltanto un fenomeno giuridico…Invero, è un dato di fatto innegabile che i rapporti interumani non si sono mai esauriti entro i confini della comunità politica…Ciò conferma sul piano dell’esperienza empirica quanto si era già accennato sul piano della riflessione filosofica, ossia che il noi, per quanto forte sia la sua valenza identitaria esclusiva, non determina una separazione assoluta fra gli uomini”(50).
L’affermazione che ritengo centrale si riassume in questa frase: “Proprio questa realtà transpolitica [rappresentata dalla radicata tendenza umana a oltrepassare l’immediata identificazione fra straniero e nemico] trova espressione nel diritto”(51).
Lascio ancora a Cotta la parola: “Appare quindi chiaro che il primo elemento strutturale del diritto, quello del suo ambito umano, è l’universalità degli uomini”(52). A questo punto, un ulteriore passaggio. I rapporti umani di collaborazione, comprensione ed anche di conflitto si concretizzano in comportamenti costituiti da regole, rispettate o violate, ma regole. A differenza delle regole che vigono nel mondo dei rapporti umani inclusivo / esclusivi, “…nel rapportarsi giuridico la regola è presente nella purezza del suo concetto che comporta universalità di estensione in tutte le direzioni”(53). Ancora: “Dal punto di vista concettuale è facile quindi capire quale sia il tipo di movimento d’integrazione proprio del diritto. Esso non è più centripeto-esclusivo bensì, grazie all’universalità della regola, diffusivo”(54)
Ne consegue, quindi, un’idea di diritto, come forma dell’agire umano, capace di garantire normativamente all’individuo la possibilità esistenziale di “essere se stesso” e di “non essere solo”: e tale fine del diritto coglie la struttura intersoggettiva e universale dell’essere uomo.
Ho introdotto il tema del diritto secondo Cotta sottolineandone la datazione e l’ascendenza concettuale, per dire che oggi di quel diritto non vi è più traccia. Al diritto come “regola”, costruito sulla base di una idea di tempo e quindi di futuro: tempo e futuro costituiscono quella categoria della ragione detta “temporalità”, che è alla base di ogni comportamento che comporti osservanza o violazione di un rapporto interumano. Al diritto come “regola” si è sostituito, dagli anni ’90 del secolo scorso, un superficiale normativismo che sancisce formalmente l’equilibrio raggiunto da una mera negoziazione di interessi contingenti. L’ “equilibrio” è un concetto che sostituisce l’a-temporalità della “contingenza” alla temporalità dell’ “ordine”. E’ la deriva che ha assunto, in un contesto culturale più generale, di tipo radicalmente empiristico-pragmatico, l’epistemologia funzionalistico-sistemica di Niklas Luhmann, la quale, tuttavia, negli anni ’70 aveva alle sue spalle radici più solide di quelle della deriva successiva, cui ho solamente accennato, e che in questa sede non può essere sottoposta ad ulteriore analisi.
Un’ultima notazione. In questo ricordo ho voluto mettere a fuoco una idea, che sinteticamente definirei con una sola parola: “oltre”, che segna tutta la filosofia di Cotta. Un oltre che lega indissolubilmente l’esistenza umana alla dimensione meta-fisica, senza che questa divenga una assiologia fondata fuori delle stesse possibilità speculative della ragione umana, ma che, invece, si presenta come “criterio” critico di comprensione del nostro stare al mondo e di giudizio delle decisioni materiali.
In ciò, credo che abbia sede anche l’originale “cognitivismo” di Sergio Cotta. Un cognitivismo che si fonda sul riconoscimento teoretico della strutturale relazionalità dell’esistenza umana e sulla consapevolezza epistemologica del faticoso, ma necessario processo di universalizzazione dei dati dell’esperienza, che fonda in modo non negoziabile il rispetto pratico per l’alterità, sotto qualsiasi forma o modalità essa si presenti all’operare dell’uomo. E tale rispetto, che nasce dalla riflessività della ragione, è la pratica manifestazione della libertà e responsabilità specificamente costitutive (in universale) dell’agire pratico dell’ente finito chiamato “uomo”.
Il ricordo del mio Maestro, Sergio Cotta, finisce qui. Ciò che ho imparato da lui, dalla sua umanità di uomo, di studioso e di intellettuale del ‘900, mi ha segnato per tutta la vita.
- Soggetto umano – soggetto giuridico Giuffré, Milano 1997.
- Ivi, p. 30
- Ivi, p. 52
- Ivi, p. 63
- Lineamenti di Filosofia del Diritto, tr,it. Laterza, Bari 2005 (V ed.), Prefazione, p. 15
- Cfr. Soggetto umano – soggetto giuridico, cit., p. 41
- Ivi, p. 20
- Il problema fondamentale della fenomenologia, tr.it., Il Melangolo, Genova 1988, p.196.
- Jaca Book, Milano 2012, IV ed
- Ivi, p.7
- Ivi, pp. 16-17
- Ivi, pp. 26-27
- Tr.it. Guida, Napoli 2007
- Mimesis, Milano – Udine 2012
- La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr.it., Il Saggiatore, Milano 2015 (1961), pp.48 – 51, passim
- Il diritto nell’esistenza. Linee di un’ontofenomenologia giuridica, Giuffré, Milano 1985, pp. 15 e 14.
- Ivi, p. VII
- Il problema della scienza giuridica, Roma 1937 (la cit. è nell’ed. Giuffré, Milano 1962, p.64).
- Cfr. Soggetto umano – soggetto giuridico, cit. pp.37-38.
- Soggetto umano – Soggetto giuridico, cit., p.10
- Il diritto nell’esistenza, Giappichelli, Torino 1985, p.13
- Soggetto umano – soggetto giuridico, cit. pp.24 – 25
- Ivi, pp. 92 – 93.
- Ivi, p.51
- Ivi, p.55
- Ibidem
- Cfr., ivi., pp.63 – 65
- Ivi, p.66
- Ivi, pp.79-80, passim.
- Ivi, p. 80
- Ivi, p 89
- Ivi, pp. 83 – 90 passim
- Ivi, p.87
- Ivi, p.91
- Cfr., ivi, p.71 e ss.
- Ivi, pp. 94 – 95
- Ivi, pp. 95 – 96
- Il diritto nell’esistenza, cit., pp. 61 – 62
- Mi permetto di riferire che a questo tema ho dedicato una sorta di dialogo ideale con il mio Maestro, giustificando, con un diverso termine – “finitudine”-, la mia idea che la consapevolezza della propria finitudine definisce un profilo esistenziale che prescinde da quello di ”indigenza”, perché, rispetto a quest’ultimo, è proprio di una dimensione che è del tutto fuori della disponibilità dal soggetto (quand’anche lo voglia), mentre il termine “indigenza” può evocare ancora (ma solo “evocare”), in chi legge, l’idea di una immersione nella variabile consapevolezza del soggetto (cfr., “Soggetto umano – Soggetto giuridico”. Il diritto nella prospettiva ontologico-esistenziale di Sergio Cotta, in “Persona y Derecho”, 57, 2007, pp. 81 – 120 e, con modifiche, in “Jus” 55, 2008, pp 91 – 119).
- Ivi, p. 62.
- Ibidem
- Ivi, pp.51 – 52.
- Ivi, p.51.
- Su questo punto mi permetto di rinviare al mio, La fragilità del potere. L’uomo la vita la morte, Mimesis, Milano-Udine 2012
- Il diritto nell’esistenza, cit., p.92.
- Ivi, p.92
- Su questo punto, cfr., per una sintesi agile ed efficace, A. Corbino, La cittadinanza. Statuti di appartenenza e modelli di governo nel mondo antico e romano, in AA.VV. filosofiainmovimento.it/la cittadinanza-statuti-di-appartenenza-e-modelli-di-governo-nel-mondo-antico-e-romano/
- Ivi, p.92
- Cfr., in part. p.97 e più avanti citerò il testo per esteso
- Ivi, p.94.
- Ivi, p.93
- Ivi, p.97
- Ivi, p.98
- Ibidem
- Ivi, p.99.
- Ivi, p.101