Mores maiorum: storie e filosofie del diritto
Francesco Paolo Casavola
Il plurale, Storie e Filosofie dei Diritti, sorprenderà il lettore, studente o studioso che sia, abituato dalla tradizione disciplinare al singolare di Storia o Filosofia del Diritto. Con quel singolare si otteneva una delineazione di confini intorno ad un determinato ordinamento giuridico, alla sua storia. Meno netta la individuazione della filosofia, che restava più frequentemente la riflessione di un filosofo o di una scuola, al di sopra o al di fuori della vicenda storica di un diritto determinato. Il plurale invece restituisce concretezza di azioni, pensieri e regole a qualche cosa di più che non sia l’organizzazione di una comunità umana. E non si tratta della cosiddetta “società”, che pur meritoriamente apparve nel Novecento come una grande svolta metodologica della storiografia francese. Più vicina tra le categorie valutative quella delle civiltà o processi di civilizzazione, senza frontiere etniche e politiche chiuse, ma con fermenti culturali in movimento, dall’interno e dall’esterno.
Un osservatorio particolarmente illuminante è per l’antico mondo romano quello che si raccoglie intorno ai mores maiorum. I monosillabi ius fas lex mos discendono dalla cultura orale più arcaica. E’ probabile che ius abbia significato un brodo mescolato di diversi vegetali, fondamento dell’alimentazione in comunità passate dalla cacciagione alla raccolta o coltivazione di erbe e cereali. Una attestazione eloquente è ancor oggi il francese jus che indica il succo di frutta o il sugo di carne.
Ma quel monosillabo doveva avere ben altra storia. Declinato, in una lingua oramai grammaticalmente evoluta, nel genitivo e nell’accusativo, richiese il sostegno di un verbo solenne quale fu dicere. Ius dicere e iuris dictio indicarono l’azione dei magistrati supremi investiti di imperium, potere di comando militare e di governo civile, quando ne fossero richiesti per sedare controversie e ristabilire ordine e pace tra i cittadini. Impallidisce il significato materialistico di ius brodo, che si concettualizza in quello di pace sociale, ma non si annienta perché funziona nell’immaginario collettivo come evocazione di cose che rendono più incisivi i concetti successivamente generati. Così fas, originariamente affermazione di liceità, che si fa sistema con il suo contrario nefas; così lex, monito scritto, lex a legendo, come appariva ai dotti della tarda antichità, e che avrebbe avuto il destino di ordinare ogni attività della civiltà umana non solo nel diritto, ma finanche nella conoscenza della natura.
Per mos mores sono chiamati in causa i maiores, gli antenati. I Romani avevano tre distinte denominazioni per gli ascendenti oltre il padre, avus abavus atavus o tritavus. Oltre questi tre gradi si ricorreva al generico maiores. Se ne può dedurre la longevità non rara per i tre avi paterni. Essi erano ascoltati per le esperienze accumulate nella coltivazione della terra, nella regimazione delle acque, nell’allevamento del bestiame, nella fabbricazione degli arnesi da lavoro e delle armi, nell’osservazione dei fenomeni naturali. In epoche di culture orali, la longevità degli antenati era un capitale di conoscenze che garantiva continuità e miglioramento nella vita delle comunità familiari. Oltre la longevità, i comportamenti e gli insegnamenti delle generazioni scomparse erano proseguiti quasi fossero norme, tanto più che i defunti erano venerati quali di Manes, specie dopo la loro identificazione con i di Parentes.
È una semplificazione razionalistica degli interpreti moderni ripensare mores maiorum come una categoria di diritto non scritto. I mores sono invece il segno di una civiltà che avanza e si diffonde senza il necessario contrassegno della ragione. Nel II secolo d.C., il più insigne giurista del tempo, Salvio Giuliano, scrisse che “non di tutto quello che stabilirono i maiores si riesce ad intendere una ragione che lo giustifichi” (D. I. 3. 20 Jul. 55 dig.).
Ma il diritto vigente non cancella il passato, tende anzi a recuperarlo. Uno dei grandi Maestri dell’età dei Severi, Paolo, commentando l’opera di Sabino, fondatore e guida della scuola di giuristi che da lui presero nome di Sabiniani, identifica il luogo in cui si rende giustizia esercitandosi la iuris dictio, in quel “dovunque” ubicumque il pretore rivesta le insegne formali del suo imperium e osservi il mos maiorum (D. I. II. 11 Paul. 14 ad Sab.). Non potrebbe darsi miglior prova del mos come fattore di continuità e di durata di una civiltà, prima e più che di un ordinamento. I maiores comandano alla sfera emotiva degli umani, come quando prescrivono che non si debba compiangere chi andando in guerra contro la propria patria uccida figli e parenti (D. 11. 7. 35 Marcell. 5 dig.).
Altre volte i maiores proclamano un principio morale su cui la comunità consente per ottenerne una regola organizzativa. È il caso della libertà matrimoniale. Prima che si formulassero le definizioni retorico-giuridiche del matrimonio, in un’antichità senza data, dovette essere tramandato il messaggio essenziale “Libera matrimonia esse antiquitus placuit”, che troviamo replicato in un rescritto dell’imperatore Alessandro a Menophilo del 223 d.C. (C. 8. 28.2). Questo mos impedì che si pattuisse il divieto di divorzio, limitò la confarreatio, la più solenne ed arcaica delle celebrazioni matrimoniali, alle vette delle gerarchie sacerdotali patrizie, aiutò ad introdurre la trinoctii usurpatio per non far cadere la donna nella manus maritalis, fece di un elemento psicologico quale l’affectio maritalis l’unico legame essenziale del coniugio rendendo irrilevante quello fisico della copula. Basterebbero queste rapide notazioni per intendere la portata dei mores come strutture di civiltà e non soltanto di ordinamenti. E’ da questa genesi e portata del mos maiorum dei Romani che si deve valutare in comparazione critica modelli e combinazioni di modelli di altri nuclei di civiltà come quelli del vicino Oriente mesopotamico, egizio, fenicio, israelitico, greco, etrusco e misurare l’effetto della cristianizzazione nella tarda Antichità, e poi della europeizzazione nell’età di mezzo, su quell’aggregazione biologico-sociale indefettibile che è la famiglia.
Usare dei mores come nuovo punto di osservazione storica consente di ottenere centralità di significati per eventi finora considerati marginali.
Citerò due casi, uno riportato da Livio, Storia di Roma III, a proposito della congiura dei Tarquini, l’altro da Dante nel canto X del Purgatorio per il dialogo tra Traiano e la vecchietta che gli chiede giustizia. La pagina di Livio è potentemente eloquente: “V’erano parecchi giovani romani, e non di umile nascita, la cui dissolutezza era stata sotto la monarchia sfrenatissima, coetanei e compagni dei giovani Tarquinii, usi a vivere al modo dei re. Rimpiangendo, ora che (instaurata la Repubblica) vigeva per tutti eguaglianza di diritti, tale licenza, si dolevano tra loro che la libertà degli altri si fosse mutata per loro in servitù; il re, dicevano, è una persona, e da lei puoi ottenere di esercitare il diritto o l’offesa che ti piace; vi è luogo per favori e per benefici; essa può irritarsi e può perdonare; sa distinguere tra amici e nemici; la legge invece è una cosa sorda e inesorabile, più buona e più utile per il povero che per il potente; se appena tu eccedi, non ha indulgenza né perdoni; è pericoloso, tante essendo le probabilità di errare, vivere con la sola onestà”. In quei giovani congiurati parla un mos maiorum che ha insediato la monarchia come regime originario. E’ solo in seguito che nascono le repubbliche e con esse la legge, la cui impersonalità fa rimpiangere, fino alle soglie della modernità, la mobile umanità del potere regale. Purg. X. 76: “i’ dico di Traiano imperadore; ed una vedovella lì era al freno, di lagrime atteggiata e di dolore. 79 Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri e l’aguglie ne l’oro sovr’essi in vista al vento si movieno. 82 La miserella intra tutti costoro pareva dicer: “Segnor, fammi vendetta di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro”; ed elli a lei rispondere: “Or aspetta tanto che torni”, e quella: “segnor mio” come persona in cui dolore s’affretta, 88 “se tu non torni?”. Ed ei: “chi fia dovi la ti farà; ed ella:” l’altrui bene a te che fia, se’l tuo metti in oblio?”; ond’elli: “Or ti conforta; ch’ei convene ch’i solva il mio dovere anzi ch’i muova: giustizia vole e pietà mi ritene”.
Questo dialogo è stato letto con la chiave della vittoria virtuosa della clemenza imperiale. È un modo riduttivo di interpretare a ridosso di come si esprimono i personaggi. Ma sulle loro emozioni grandeggia la relazione tra due valori che guidano il mondo, la giustizia e la guerra. E Traiano pospone la guerra a quello ch’egli riconosce il suo compito supremo, di fare giustizia, ad una povera madre che lo invoca per il figlio ucciso.
C’è dunque in ogni esistenza umana un appello a valori comunitari dentro i quali si svela e si fa intelligibile il tempo che tutti insieme viviamo. Perciò da quel suono di parole che comunicano i mores maiorum e guidano le opere e i giorni dei poveri e dei potenti si può dare al diritto la centralità sua propria di strumento di conoscenza, prima e più ancora che di regolazione della vita del mondo. Dunque, storie e filosofie dei diritti insieme e mai separate, pena l’insignificanza e l’arbitrio.
Quanto al plurale “diritti”, esso obbedisce alle esigenze della nostra contemporaneità investita dalla globalizzazione economica, che andrà facendosi a suo modo politica non foss’altro che per la tutela esigentemente universale dei diritti spettanti ad ogni essere umano. Giurisdizioni internazionali e sovranazionali impongono una educazione dei giuristi non più confinata nelle gabbie dogmatiche normative di legislazioni, giurisprudenze e pratiche amministrative e giudiziarie nazionali. Il costo che si va a pagare si materializza in cause perdute per gli interessi dei privati, di imprese, quando non direttamente di Stati. Ma la formazione di giuristi non più all’ombra di singole, piccole o grandi patrie, di scienze giuridiche, non si ottiene con metodi tradizionali di comparazione tra diverse famiglie.
Le culture che appaiono diversificate sono ciascuna a sua volta e forma il frutto di combinazioni, di contatti, di eventi e di valori che attendono di essere decriptati oltre le selve di leggi e sentenze, per essere pietre miliari di nuovi percorsi per il progresso della civiltà del pianeta e non di questo o quel Paese. Storie e filosofie sono la trama concreta dei diritti. Senza le une e le altre insieme avremo elenchi di norme o di astratte costruzioni concettuali. Le storie sono invece eventi della vita individuale e collettiva che riempiono istanti e secoli e millenni. Le filosofie sono i pensieri, i giudizi, le memorie, i propositi delle generazioni che si avvicendano nel tempo, dando ad esso continuità o discontinuità di significato e di durata. Né si può studiare il diritto isolandone uno, quasi fosse un pianeta senza spazio. Gaio, nel II secolo d.C., insegnava ai suoi studenti che “Tutti i popoli che si governano con leggi o con gli usi degli antenati, applicano un diritto in parte loro proprio, in parte comune a tutti gli uomini; infatti ciò che ciascun popolo stabilì che fosse diritto, questo è il suo diritto e viene chiamato diritto civile, quasi sia il diritto proprio di una civitas; quello invece che la ragione naturale ha stabilito tra tutti gli uomini, questo viene osservato presso tutti i popoli e viene denominato ius gentium, perché se ne servono tutte le genti.
Il Popolo Romano applica un diritto in parte suo proprio, in parte comune a tutti gli uomini” (Gai Inst. 1.1). Ulpiano amplierà il contesto di questo quadro descrivendovi un terzo giro, quello del diritto naturale, che la natura insegnerebbe a tutti gli animali, che popolano la terra, i mari, il cielo (D. 1.1.1.3 1. Primo Inst.).
Ma il giurista severiano, a scanso di equivoci, chiarisce che questo diritto non ha a che fare con gli esseri umani (ius istud non humani generis proprium). Gli animali si accoppiano, prolificano, educano i nati. Ma il mondo umano è altro.
Tra terzo e quarto secolo d.C., dunque ancora più tardi, Ermogeniano enuncerà i contenuti del ius gentium: l’introduzione delle guerre, evidentemente come procedimento giuridico, dichiarazione, status e disciplina dei combattenti, cattura, bottino, prigionia; identità dei popoli; fondazione dei regni; distinzioni delle proprietà; campi delimitati da confini; edificazione; scambi commerciali; contratti di compravendita e di locazione conduzione; obbligazioni; fatta eccezione per tutto quanto introdotto dal ius civile. Non si potrebbe richiedere maggiore chiarezza: questo il diritto di tutte le genti incivilite, dunque anche dei Romani. Gli interpreti, invece, tendono isolare il ius gentium quasi non fosse anche esso diritto romano in quanto in vigore presso i Romani. Si confonde l’origine, tutte le genti civili, con l’adozione e l’applicazione. A questo diritto romano generale si aggiunge un diritto proprio introdotto dalla civitas, il ius proprium civium romanorum, o ius civile.
Ora si può meglio misurare quanto quell’organizzazione classificatoria degli antichi giuristi sia stata fraintesa nella modernità: ius gentium diventa diritto internazionale, ius civile anglicizzato in civil law dà nome alla famiglia giuridica dell’Europa continentale, il diritto civile è quello raccolto nei codici civili nazionali, e nella tradizione accademica è diritto privato separato dal diritto pubblico. Ci è parso doveroso indugiare sulla descritta genesi del diritto romano per non sostituirvi altra narrazione quale quella contenuta nella XIII Degnità della Scienza nuova di Giovan Battista Vico: “…idee uniformi appo interi popoli tra esso loro non conosciuti debbono avere un motivo comune di vero, Principio che stabilisce il senso comune del genere umano essere il criterio insegnato alle nazioni dalla Provvidenza Divina per definire il certo d’intorno al diritto naturale delle genti”. Il ius gentium dei giuristi romani era un diritto storico comune ai Romani come a tutti i popoli con cui essi avevano relazioni di ogni sorta. L’idea che esistessero principi dettati dalla Divina Provvidenza a popoli che non si conoscessero reciprocamente è del tutto estranea ai romani.
È ben vero che la comparazione giuridica sorge come scienza nella modernità attratta da mete diverse che vanno dall’antropologia giuridico politica alla filosofia. Ma se si vuol restare sul campo saldo della storia, nei teatri reali dei suoi eventi, delle pratiche e delle persuasioni tràdite dalle generazioni, appartenenti a diversi popoli e culture e Stati, la comparazione deve muoversi dentro le storie delle comunità, nelle voci dei loro maiores, nelle disposizioni delle loro leggi, nelle sentenze dei loro giudici. Il fine della comparazione è quello di tessere la storia della civilizzazione umana, non di esegetizzare regole e istituzioni con il razionalismo astratto, che in Europa ebbe il marchio della Rechtswissenschaft. E si deve ripartire dal diritto romano. Non è immaginabile che nel 212 d.C. Antonino Caracalla potesse stabilire, come scrive Ulpiano che “qui in orbe romano sunt, cives romani effecti sunt“, se ogni popolo straniero avesse avuto un suo proprio diverso diritto. Sarebbe stato creare un disordine indescrivibile applicando alla totalità dei neo cittadini il diritto dei cives della civitas romana e della penisola italica. In realtà dovette trattarsi di una presa d’atto, essendo irrealistico continuare a distinguere tra cives romani e stranieri che già vivevano tutti con lo stesso diritto delle genti, salvo le integrazioni come quelle identificate nella denominazione ius civile. Esemplare il caso della patria potestas che caratterizzava la familia romana. Gaio a questo proposito si esprimeva in termini inequivocabili: “item in potestate nostra sunt liberi nostri quos iustis nuptiis procreavimus. Quod ius proprium civium Romanorum est; fere enim nulli alii sunt homines, qui talem in filios suos habent potestatem, qualem nos habemus. Idque divus Hadrianus edicto, quod proposuit de his, qui sibi liberisque suis ab eo civitatem Romanam petebant, significavit. Nec me praeterit Galatarum gentem credere in potestate parentum liberos esse” (Gai 1.55).
Nella universale presenza della famiglia nella comune civiltà giuridica dei popoli antichi, i Romani vantavano la loro diversità fondata sulla potestas del padre sui figli da lui generati. Un principe che aveva esplorato nei suoi continui viaggi le varietà geoantropiche dell’impero, quale Adriano, aveva compreso che la famiglia potestativa non era una singolarità giuridica correlata con la cittadinanza. E dunque la concessione della cittadinanza romana a stranieri non includeva la patria potestà. Si trattava della storia della società romana nel mezzo delle storie degli altri popoli. E anche quando questa storia andava mutando le comunità di contadini e pastori diventando urbane, di artigiani e mercanti, dislocandosi altrove il crescente proletariato in municipia e coloniae, insediandosi nelle province senatorie e imperiali gli uomini delle oramai ultra professionalizzate carriere militari con ferme lunghe un quarto di secolo, la famiglia con il padre capo assoluto non poteva che essere una memoria simbolica delle origini patriarcali e patriste della civitas Romana. E come tale non innestabile in una famiglia di diversa storia civile.
Della concezione originaria della familia romana, del potere del pater sui filii, come del dominus sui servi, ho trattato nel 1966 in potere imperiale e stato delle persone tra Adriano e Antonino Pio, già allora rilevando l’evoluzione da un diritto particolare qual era quello romano al diritto universale di tutti gli esseri umani. La constitutio di Antonino Caracalla del 212 d.C. dovette essere il compimento rivoluzionario di quella fase di politica umanistica dei prìncipi in una fondazione costituzionale dell’impero a unica cittadinanza. Ma come non leggere oggi, dopo le premesse enunciate, che le arcaiche voci dei maiores, dopo aver difeso con il consenso di tante generazioni successive il principio potestativo, si sono arrese dinanzi al suo contrario della libertà ed uguaglianza di ogni individuo umano? Per poco che impariamo a guardare oltre gli eventi, i grandi eventi del diritto, quale fu l’emanazione della Costitutio Antoniniana, scorgiamo i grandi fatti sociali, quali nel nostro caso la libera circolazione delle persone che si sentirono in qualunque luogo giungessero nella propria patria, come si esprime Elio Aristide nell’orazione encomiastica ‘a Roma’. E oltre ancora la diffusione della civiltà cristiana, antagonista e protettrice e infine sostituta di quella romana, come descrive presaga la ‘Lettera a Diogneto’. E non c’è progresso umano più evidente che nel richiamare l’esercizio della genitorialità paterna all’affetto non al potere, del legame matrimoniale all’affectio maritalis non alla manus, del significato originario della servitus al servare i prigionieri dalla uccisione, nel rammentare che iure naturali tutti gli uomini nascono liberi ed uguali. Una tale progrediente civilizzazione umanitaria ha il suo lievito diffuso in tutta la cultura sociale, cui nè il principe nè i suoi giuristi restano estranei.
La proclamazione più radicale dell’uguaglianza umana è di San Paolo nella Lettera ai Galati 3.28: “non c’è più né giudeo né greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Dall’uguaglianza in Cristo non nasce l’uguaglianza costituzionale di tutti gli esseri umani. Ma la civiltà s’incammina per giungere a quella meta. Pensate a quante disuguaglianze tribolerà l’esistenza umana dall’età di mezzo fino alle Rivoluzioni liberali. L’intermezzo dell’età umanistica, con l’Utopia di Tommaso Moro e La città del Sole di Tommaso Campanella, non basterebbe a dare l’ampiezza e la complessità di quanto da secoli andava accadendo, e non tra qualche centinaio di dotti, ma tra moltitudini di contadini, borghesi, aristocratici entro e fuori i confini dell’Europa.
Con le rivoluzioni americane e francese, alla fine del settecento si formulano come supremi principi costituzionali gli insegnamenti tràditi a mezza voce di generazione in generazione: “tutti gli uomini sono uguali secondo natura e davanti alla legge”, “non fare ad altri ciò che non vuoi sia fatto a te (atto costituzionale del 24 giugno 1793). “La libertà consiste nel poter fare ciò che non nuoce ai diritti degli altri” (atto del 22 agosto 1793). “Tutti i doveri dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principi, impressi dalla natura in tutti i cuori: – non fare agli altri ciò che non vorreste che fosse fatto a voi stessi; fate costantemente agli altri ciò che vorreste riceverne”; “nessuno è buon cittadino se non è buon figlio, buon padre, buon fratello, buon amico, buono sposo” (costituzione della Repubblica francese del 22 agosto 1795). Aldilà della drammaticità e talora tragicità dei conflitti rivoluzionari sembra di udire in sottofondo il coro degli antenati riusciti a portare le quasi sotterranee persuasioni dell’etica cristiana alla luce della nuova storia. Il trinomio “liberté, egalité, fraternité” garrisce come una bandiera nelle costituzioni francesi ma bisogna attendere la fine della seconda guerra mondiale, con i suoi 52 milioni di morti, prima che nel dicembre del 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvi la Dichiarazioni Universale dei diritti dell’uomo, il cui articolo uno recita: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Spirito di fratellanza è la formula nuova che torna ad emergere da un’ondata remota di conversione religiosa qual’è stata alle sue origini la civiltà cristiana. Lo spirito di fratellanza, nella duplice proiezione del già accaduto e di quanto potrebbe accadere, dovrebbe dar luce alle ricerche ispirate al trinomio storie e filosofie dei diritti, così come appena delineato. La comparazione accrescerà l’orizzonte tematico promuovendo il diritto a fattore protagonista della civilizzazione umana, sottraendolo alla sterilità di un sistema di regole razionali. Cito ad esempio significativo le diverse letture della parabola del buon Samaritano nel diritto inglese, in quello nord americano e canadese, con implicazioni nelle più profonde persuasioni etico-religiose ed etico-sociali non solo della persona umana in sé, ma anche di ogni uomo tra gli uomini.
Come accaduto per le tante scienze intorno all’uomo biologico, che dovessero integrarsi con discipline umanistiche per costruire quel ponte verso il futuro che è la bioetica, così occorre operare per l’etica della vita storica. L’uomo che vive, che è venuto alla luce per giovare ai suoi simili tesse la storia del mondo. L’etica storica non è come la bioetica un ponte verso il futuro. E’ il filo continuo profondo su cui si intrecciano e cercano giustificazioni i segmenti di minore durata.
I mores maiorum destinati a non essere dimenticati, ma interpretati per farne il bene e il giusto delle nuove generazioni sono insieme diritto e storia. Se ascolteremo le loro parole di verità, avremo le filosofie dei popoli oltre quelle dei filosofi. Se sapremo illuminare tutti contatti e i contagi dei processi di comune civilizzazione tra i popoli, e non solo le loro guerre, allora avremo il programma di una vera scienza nuova, unica e universale. Non un ponte verso il futuro come per la sorella bioetica, ma una lunga strada di cui sarà sempre arduo scorgere i percorsi compiuti, ostruiti, come per l’Angelus novus dalle macerie del progresso, e le mete da raggiungere.
Ma queste forse saranno e resteranno più in mente Dei, che nelle speranze e nelle sole possibilità dell’Uomo.
Nel nostro XXI secolo si stanno levando voci allarmate sul futuro del pianeta. Esse sono un’eco di intuizioni e stati d’animo che cominciavano ad inquietare già il novecento. L’idea della storia come progresso lineare era ormai logorata. Walter Benjamin fu molto impressionato da un quadro Paul Klee, intitolato Angelus Novus, e lo commenta con un passaggio che è come un sigillo sulla drammatica rivelazione della storia aperta sul quel secolo: “Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della stoia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta”.
Oggi l’immaginazione del futuro più argomentata razionalmente sembra replicare la paura di un nuovo millenarismo. Giova rileggere l’attacco prefazione di Martin Rees al suo libro Il secolo finale. Perchè l’umanità rischia di distruggersi nei prossimi cento anni: “I progressi della scienza si susseguono più rapidi e più estesi rispetto a qualsiasi altro momento del passato: tutte le tecnologie bio, ciber e nano offrono prospettive stimolanti, e così pure l’esplorazione dello spazio. Ma c’è un risvolto negativo: la nuova scienza può portare conseguenze accidentali, mette a disposizione dei singoli individui i mezzi per commettere atti di megaterrore, perfino semplici errori potrebbero avere effetti disastrosi. Il lato oscuro della tecnologia del ventunesimo secolo potrebbe rivelarsi più pericoloso e meno controllabile della minaccia di catastrofe nucleare con cui ci siamo confrontati per decenni. E non si può dimenticare che le pressioni delle attività umane sull’ambiente globale potrebbero fare più danni delle calamità naturali, come terremoti, eruzioni vulcaniche e impatti di asteroidi”.
Questo può valere a considerare che solo le grandi scelte politiche possono farci uscire dal dominio della tecnica e restituire la storia del mondo nelle mani dell’uomo.
Riflessione conclusiva.
Livio ricorda quel che pensavano gli amici del loro re etrusco, che invano tentarono di sottrarre alla cacciata da Roma, per la ormai inevitabile instaurazione della repubblica. Si era nel 509 a. C.; Livio visse tra il 59 a. C. e il 17 d. C., circa sei secoli più tardi. Aveva fonti così dettagliate da permettergli di riferire le idee antirepubblicane e filomonarchiche dei giovani cortigiani dell’ultimo Tarquinio? È probabile che lo storico patavino si sia servito di una invenzione narrativa. Ma sappiamo da Tacito (Ann. IV. 34) ch’egli nutriva sentimenti repubblicani, rispettati finanche da Augusto, che assistette a pubbliche letture della sua opera storiografica. In ogni caso una traccia resta della lunga durata storica dei ragionamenti che accompagnarono l’evento del 509 a. C. Si tratta di una riflessione etica, non giuridica, non politica, che “tante essendo le probabilità di errare, è pericoloso vivere con la sola onestà”. Ma il pensiero di Livio e della sua fonte non è di astratto moralismo. Nasce dalla constatazione storica della diversa della diversa sorte che hanno dinanzi alla legge l’inops e il potens, il primo se ne giova in nome di una inerte eguaglianza, l’altro ne è investito per pregiudizio di colpevolezza che ombra l’innocenza per la sola evidenza dello status di ricco, di notabile, appunto di potens. È incontestabile la nascita di una filosofia dinanzi alla legge sorda e inesorabile, in una società strutturata nella disuguaglianza di classe, di patriziato e plebe. È pericoloso vivere nella sola innocenza, sta in un grado più alto rispetto alla legge delle XII Tavole, eguale per tutti. Sta in una giustizia che superi la diversità antropologica e sociale dell’inops e del potens. Dunque la giustizia superi la legge, il ius aequum sia il suo solo supporto. Il re etrusco sopravvive in una cultura aristocratica e patristica come utopico dispensatore della giustizia resa a chi la invoca per il suo caso particolare e personale. Nella icona della vecchietta implorante Traiano c’è ancora di più, la rivendicazione di un debito di coscienza tra il sovrano chiamato a giudicare e la reclamante. In questo spazio finora inedito della coscienza del principe si colloca finalmente con la massima possibile chiarezza concettuale la relazione tra ius e iustitia. Questa si realizza traverso quello, che è nulla più che l’ars boni et aequi, la pratica del bene morale e del ragionevolmente conveniente al caso da decidere. Ecco nascere la giustizia romana, suprema categoria nella professione scientifica dei giuristi, e nell’esercizio del potere imperiale.
La filosofia che è pericoloso vivere di sola innocenza fu una sorta di mos maiorum per legittimare oltre la legge la iustitia del magistrato repubblicano, poi del principe. Questo mos maiorum è il filo di massima durata storica della civilizzazione romana. Basti pensare a quel punto di arrivo che nello Statuto di Carlo Alberto del 1848 è la definizione della giustizia che emana dal re ed è amministrata da giudici suoi delegati, quasi si tratti di un carisma personale. Solo le rivoluzioni liberali spezzano questo filo. Ma voglio lasciare me e voi con il dubbio se non occorra riannodare a quel filo un altro che restituisca forza storica a quella giustizia che sembra averla del tutto perduta.