Le esclusioni sociali e giuridiche di cui si discute in tema di migrazioni possono essere anche casuali od autoesclusioni. Rilevanti sono le questioni della legittimità degli sbarchi orchestrati, del buon fine di aiuti nazionali e internazionali ai paesi dei migranti, dell’entità delle migrazioni (botte da travasarsi in un fiasco), della concezione delle migrazioni intese come moto indisciplinato perpetuo dell’umanità, della inadeguatezza dell’accoglienza privata europea rispetto a responsabilità di fragili Stati indipendenti, del non rispetto delle frontiere, dell’occidentalizzazione dei nuovi Stati africani nonostante le polemiche anticolonialiste, del perché si intenda migrare solo verso Stati europei e non verso straricchi Stati islamici, dell’integrazione come rimedio alla non prolificità di altre società.

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Migrazioni africane tra esclusioni e integrazione

Romano Bettini

Sommario: 1. L’esclusione o scarto sociale come rischio umano. 2.Tipologia delle migrazioni attuali e relativi problemi. Esclusione ed autoesclusione. 3.Una prima questione giuridica. La botte e il fiasco. Salvataggi in mare criminalmente organizzati e le questione dei migranti irregolari. 4. Una seconda questione giuridica. Eguaglianza nella libertà come causa di successi storici dei paesi ricchi occidentali e di motivazioni migratorie nei paesi poveri (specie subsahariani). 5.Una terza questione giuridica. Il soccorso nazionale e internazionale. 6. Il quadro internazionale del Global Compact Onu 2018. 7. I problemi cultural-politici del continente africano a monte di quelli demografici ed economici. 8. Ruoli guida islamici in Africa tra indipendenze occidentalizzanti e non “africaneggianti”. 9. Approcci razzisti, nazionali, transnazionali e storiografici ai livelli di cultura prevalenti nel mondo attuale. 10. Migrazioni: fisiologia o patologia? 11. Integrazione contro declini di prolificità. 12. Conclusioni. Verso l’occidentalizzazione giuridica?

1. L’essere esclusi (o scartati, come si esprime anche Sua Santità) da un gruppo o comunità o dalla ripartizione di beni comuni o dal rispetto di quelli propri o del proprio lavoro avviene storicamente secondo tre criteri: di giustizia, di ingiustizia, di casualità. E viene discusso secondo varie teorie di discipline di studio, dalle teologiche alle marxiste.

Oggi il riferimento più corrente è all’esclusione dall’immigrazione in paesi altrui: immigrazione richiesta per cataclismi, guerre, delinquenza, fame, occupazione, tenore di vita. In ogni caso l’immigrazione, che di per sé non è da considerare un diritto, esige riscontri sulle sue cause, ed è comunque contrastabile nel caso di delinquenza con interventi giudiziari internazionali e nel caso di fame con aiuti nazionali ed internazionali. Per l’occupazione ed il tenore di vita occorrono posti disponibili del paese in cui si chiede di immigrare. Gli aiuti solidaristici privati restano comunque giuridicamente vincolati alle leggi del paese richiesto, e di fatto non risolvono in radice i macroproblemi, a parte doveri e meriti morali ed il rispetto della dichiarazione internazionale dei diritti umani. 

Il quadro così proposto va comunque rapportato e valutato con quello dei paesi di immigrazione, che non sono né puri territori geografici, né collettività senza frontiere e senza limiti di abitabilità, di sostentamento e compatibilità culturali. E i relativi problemi attuali di giustizia, ingiustizia e casualità dell’esclusione vanno considerati anche da questo modo di valutazione, in cui decisivo sembra quello della reperibilità di alternative decisive rispetto a quelle momentanee data l’entità dei fenomeni coinvolti. 

Insomma il problema della macroinvasione demografica va affrontato complessivamente dato il rischio di miscele esplosive di popolazioni diverse, ovvero della fasulla idea di fare entrare utilmente in un fiasco (l’Europa) il contenuto di una botte (la popolazione africana). E c’è il rischio di ridurre l’emigrazione all’integrazione in altri paesi abbandonando il proprio; cosa che può tacitare la coscienza ed esaltare l’orgoglio dell’ospitante ma non certo tranquillizzare le preoccupazioni del paese abbandonato.

Tutto questo potrebbe indurre a desistere dall’idea della necessità assoluta di evitare esclusioni e frontiere, di per sé palesemente inadeguata e appesa all’idea di migrazioni attuali come indisciplinato moto perpetuo del genere umano. 

2. Si constata che le attuali migrazioni si presentano come dovute a catastrofi naturali come terremoti, sommersioni irreversibili, ma a dimensioni ridotte, che sostanzialmente non creano problemi critici per paesi di destinazione; oppure dovute ad eventi bellici, di dimensioni talora rilevanti, ma reversibili, di carattere bellico o criminale[1]; oppure lavorative per ragioni economiche talora dovute a macrocrescita demografica; oppure dovute all’esigenza di migliori condizioni di vita. Questi due ultimi casi si presentano come i più bisognosi di interventi esterni non puramente emergenziali, ma ancora non disciplinati, soggetti quindi ad opportune considerazioni critiche, dato che l’Europa, non tutti i paesi del mondo, ne risulta meta preferita, esclusiva, fiasco in cui far rientrare il contenuto di una botte.

Una prima considerazione riguarda proprio l’esclusività dell’Europa rispetto al resto del mondo; una seconda la natura essenzialmente economica della disoccupazione, risolvibile con interventi esterni di sostegno, salvo disponibilità di posti di lavoro altrove; una terza considerazione riguarda la scelta di un migliore tenore di vita, che dipende dalla disponibilità altrove di spazi di vita migliore. Un’ultima considerazione riguarda il diritto di immigrazione, che non è a mio parere un diritto naturale, incondizionato.

Sul tutto incombe la considerazione del carattere collettivo, familiare o individuale con cui le migrazioni si presentano, tenendo presente che, probabilmente, quanto più collettive si presentano tanto minori sono le possibilità di integrazione degli immigrati, tendendo a privilegiare le loro comunità più che aprirsi a quella ospitante, cioè creando un’autoghettizzazione come autoesclusione,

Veniamo ora ad alcune delle ragioni giuridiche coinvolte dai fenomeni in questione.

3. Sulla questione degli sbarchi incombe l’interrogativo della loro ammissibilità, come notato anche dalla dottrina giuridica[2], dato il loro ricorso a criminali scafisti per giustificare orchestrati salvataggi in mare. Il che implica tra l’altro costi per lunghe permanenze in Italia, ad es., (circa un anno e mezzo) da noi retribuite ed esiti di rifiuti di permesso del 60%, che aumentano la clandestinità degli irregolari in Italia ed il sommerso criminogeno. La cosa incide comunque sulle procedure amministrative, e a scapito della minoranza di aventi diritto al permesso di soggiorno.

Significativamente collegato al fenomeno è l’approccio di sociologia underworld delle migrazioni [3], che imputa ad una governance del comando globale di gestione e controllo del fenomeno, spesso sommersa, non ufficiale e pur produttiva di effetti negativi macroscopici, misto di burocratismo, forme paranormative (governo delle circolari) e della logica del just in time. Ma è un approccio che non offre soluzioni ad una situazione certo complessivamente non razionalmente assestata ed esposta a interessi privati diversi e strutture pubbliche in cerca di accordi. Ed è altrettanto certo che le stranezze ed inefficienze sotto accusa non sono le cause delle migrazioni ma di modi impreparati e talora disumani di affrontarne l’irruente novità restia alle regole esistenti.

4. Non le relazioni sociali specifiche del passato, specie tribali, evidenziate dagli antropologi[4]; ma la notizia di quelle economiche e giuridiche di libertà ed eguaglianza raggiunte dal mondo euroccidentale, sembrano intese dai migranti dei paesi poveri come caratterizzanti ambìti contesti stranieri aperti alle responsabilità e abilità individuali e fonte dei successi storici occidentali e del loro migliore tenore di vita. Così vacillano teorie variamente sedentariste, movimentiste, localiste, colonialiste, comunitarie e simili, che finora hanno ispirato scienze sociologiche, economiche, politologiche, antropologiche. La causa principale delle migrazioni dai c.d. paesi poveri si potrebbe così riporre nella crescente consapevolezza nelle loro società del mancato rispetto dei diritti umani, soprattutto di sopravvivenza, nei propri paesi[5], segnalato dai media, evidenziato dalle polemiche anticolonialiste e documentato dai rapporti delle organizzazioni operanti per la difesa di tali diritti.

La scelta di fede delle relative popolazioni sub-sahariane (cristiana, islamica, animista) non sembra ostacolare tali migrazioni, principalmente quella islamica. È una constatazione vincente sulle polemiche delle letture che collegano i fenomeni migratori ai passaggi dal precoloniale al coloniale come occidentalisti predatori, evidenziando invece fallimenti delle indipendenze fragili o dispotiche o corrotte di società a dir poco non fortunate.

Secondo Mahmoud Dicko, presidente dell’Alto Consiglio Islamico del Mali[6]“anche se la colonizzazione non è mai stata una buona cosa, abbiamo beneficiato di un buon apporto: la gente è andata a scuola e ciò ha permesso di essere aperti al mondo esterno e di beneficiare della tecnologia, che è una grazia divina. La tecnologia non appartiene né all’Occidente né all’Oriente: è una grazia divina, è per l’umanità e tutti se ne devono servire. Abbandonare ciò in nome della religione è una totale ignoranza”. Da tale parere di un’autorità islamica africana si prende atto che istruzione e tecnologia sono stati un servizio del colonialismo ai colonizzati africani, “grazia divina”, ma ottenuta dagli africani tramite l’operosità dell’Occidente, non per grazia infusa e sicuramente non tramite l’islam. I migranti probabilmente ora se ne rendono conto.

5. Altra questione giuridica, e certo la più importante, è quella del soccorso internazionale in atto ma reso difficile da corruzione e interessi egoistici vari. La realtà del numero dei migranti attuali e di quelli latenti e futuri ammonisce sull’insufficienza delle generose e benemerite testimonianze di disponibilità concreta all’accoglienza e sull’agguato costante di distorsione e sfruttamenti criminali delle migrazioni, dagli scafisti libici alla mafia nigeriana. Invocare l’ordine, un diritto postcoloniale, soprattutto internazionale, sembra incalzare l’impegno degli uomini di buona volontà rispetto ad un continente in cui negritudine, nigrizia e Unione panafricana sono ancora poco più che nominalismi che non riescono a nascondere rivalità sanguinose, terrorismi, corruzione, disoccupazione, epidemie. Sembrano pertanto molto lontani da questi scenari effettivi i problemi genuini di tutela dei diritti umani.

L’ordine nuovo deve aggiornare gli impegni di aiuto finanziario ai paesi poveri ma assicurare che gli aiuti dei paesi ricchi e i prestiti di BM e FMI non si perdano nelle tasche dei despoti profittatori e/o in quelle degli istituti finanziatori. E questa assicurazione implica un auspicato potenziamento della capacità della giustizia internazionale di colpire prontamente ogni peculato internazionale e crimini simili, richiamando l’attenzione delle società che hanno raggiunto l’indipendenza statuale sulla necessità sia del loro impegno fattivo e democratico, senza fughe migratorie, sia sul rispetto delle frontiere, strumento sine qua non delle condizioni economiche e socioculturali dei paesi ambiti per le migrazioni. Comunque se i migranti sono, come taluno ritiene, una risorsa, perché toglierla ai loro paesi? 

6. Il Global Compact Onu 2018 per le migrazioni[7] è una bozza di regolazione internazionale del fenomeno; l’Italia per il momento non vi ha aderito anche se il documento non è vincolante e fa salvi la sovranità degli Stati ed il rispetto delle loro frontiere, non gabbie ma strumenti di ordinata convivenza. Vi manca una definizione di migrante “irregolare”, anche se il suo oggetto è “migrazione sicura, ordinata e regolare”; come non vi è netto il riferimento alle migrazioni economiche, che sono la realtà inquietante del fenomeno delle migrazioni oggi, quasi una sorta di invasione dei paesi ricchi da parte dei paesi poveri. Mentre abbondano le incombenze più disparate, informative ed amministrative, per gli Stati ospitanti e non vi appaiono soluzioni giudiziarie per ruoli inammissibili come in particolare quello attuale, micidiale e persistente della Libia, per coinvolgimenti in sbarchi pericolosi e atrocità interessate[8].

Ma le critiche maggiori riguardano l’enfasi su un “diritto di migrazione” a fronte di un “diritto di non migrazione” già ricordato da Papa Ratzinger, la mancata considerazione a fondo dei problemi culturali connessi alle migrazioni, l’impressione che il documento lasci di una sorta di moto perpetuo delle migrazioni senza affrontare il problema delle sue cause, della diseguaglianza globale, di autorità che regolino l’economia mondiale. Fermo restando comunque il lodevole appello ai diritti umani che domina l’impianto del documento nel trattamento dei migranti di qualsiasi genere.

7. Si incontra talora l’espressione “Eurafrica”, di sapore metaeuropeo, postcolonialista, antimperialistico, di matrice africanista[9], che suona di sfida all’Europa come quella analoga islamista di Eurabia; una sorta di sfida di civiltà non discussa da S. Huntington come invece quella dell’islam contro l’Europa. Ora per l’islam si è trattato di sfida di una religione ibrida ad un imperialismo religioso innato, come detto da taluno, e di ritardi storici di sviluppo culturale; qui invece la religione c’entrerebbe solo per gli africani sub-sahariani islamici, mentre sarebbe macroscopico il ritardo complessivo di sviluppo del continente rispetto all’altro continente a cui è stato per secoli troppo vicino, in parte “civiltà”[10] solo orale.

Il quadro migratorio attuale coinvolge in buona parte Stati africani[11] subsahariani, spesso musulmani, per i quali il tratto culturale è talora africanistico e antipostcolonialista, e quindi ancora una volta in qualche modo antieuropeo e antioccidentale. Questo in termini di convegni, dissertazioni, accordi politici degli ultimi centocinquant’anni, da cui è sortita la separazione disciplinare della africanistica dalla orientalistica.

Preso atto del carattere in buona parte orale e non scritto di una cultura in carenza di benefici innovativi per l’umanità, ed anche in carenza di tratti comuni continentali, a conflittualità tribali, tale cultura è in difficoltà ora a fornire contributi economici e democratici alle sue società nonostante le conseguite indipendenze, incorrendo talora in dispotismi incapaci di fronteggiare le migrazioni verso i vituperati paesi colonialisti. 

Quello che più riguarda il tema di questo scritto, al di là di facili valutazioni storiche e antropologiche sui dati precoloniali, tratta degli schiavi autoctona inclusa, sono le attuali carenze politico-economiche degli Stati indipendenti africani, nel quadro di una “tendenza a imputare al mondo esterno la responsabilità dei propri mali”[12], delle proprie fragilità amministrative e disimpegni sociali e statali causa di migrazioni.

Insomma il quadro migratorio tende ideologicamente ad imputare detti mali africani al mondo occidentale ed alle sue colonizzazioni, escludendo la valutazione della storia precoloniale dell’Africa e svalutando il ruolo delle colonizzazioni; colonizzazioni seguite da proclamazioni d’indipendenza che non hanno significato comunque la restaurazione del passato ma il ricorso ad istituzioni politiche e indirizzi socioeconomici ispirati ai modelli occidentali. Il futuro è in corso di interventi di sostegno mondiale ai paesi in difficoltà. Si vedrà. Un’Eurafrica è certo un’illusione onirica, visto il passato subsahariano di molteplicità di “società a formato ridotto”[13]ed il loro incerto panafricanismo attuale.

L’assenza di restaurazioni secondo modelli precoloniali richiama l’attenzione degli studiosi sulla realtà delle condizioni africane precoloniali, di livello di sviluppo troppo distante (salvo eccezioni) da quello occidentale; distanza riconducibile a inesorabili condizioni geofisiche, ma che oggi, con la disponibilità di mezzi e solidarietà per accorciarla, sembra proporre alle società africane il monito della parabola dei talenti (Matteo 25, 14-30) e non nascondere sotto la sabbia del Sahara (tra l’altro ricca di risorse naturali) i talenti assegnati dal Creatore invece di metterli a profitto.

8. I rapporti politico-religiosi tra islam e paesi islamici africani sono segnati all’inizio di questo secolo dalle migrazioni africane verso l’Europa, e non verso l’islam mediorientale, talora straricco; e questo evidenzia come la già pesante distanza culturale accumulata dall’islam verso l’occidente si aggravi con le condizioni critiche dei paesi islamo-africani da un lato, spesso squassati da iniziative terroristiche, mentre non offre loro stimoli per lo sviluppo, dall’altro, se non quello migratorio per un “migliore tenore di vita”.

L’Africa preislamica è in senso lato il primo oggetto della ricerca antropologica, cui è seguita l’Africa islamizzata, poi quella colonizzata e poi quella postcoloniale e quella delle migrazioni. Questo per rilevare che l’islam ha contattato l’Africa come area non civilizzata, da cui non poter apprendere ed elaborare cultura diversamente da quanto occorso con conquiste di territori bizantini, persiani, mesopotamici e indiani. Il suo influsso vi è rimasto religioso-politico e di tentato superamento del tribalismo autoctono; certamente non di apertura alla scienza, alla libertà religiosa e politica ed all’uguaglianza. Per cui si può dire che l’islam, affiancandosi parte dell’Africa, si presenti legato alla carente cultura precoloniale e preislamica di questa ed al suo carente sviluppo

L’indipendenza postcoloniale degli Stati subsahariani islamici sembra risultare fragile, considerato il loro alto tasso di migrazione verso l’Europa, fermo restando il doveroso rispetto e solidarietà per la povertà di alcuni di essi. L’indipendenza non ha rappresentato la restaurazione di istituti tradizionali ma generalmente la mimesi democraticamente e giuridicamente debole, se non deviata, di quelle occidentali, quando non la contaminazione di modelli islamici, anche terroristici.

Viene quindi inevitabile attribuire a livelli di civiltà non aggiornati o religiosamente (islamicamente) impegnati in modo esclusivo e talora conflittuale le cause della maggior parte delle migrazioni africane per “un migliore tenore di vita” come quello occidentale.

9. Il tema dell’emigrazione ripropone oggi in qualche modo, assestato ormai sulla avvenuta diffusione dei diritti umani, quello dei livelli diversi della cultura delle società coinvolte. Le migrazioni non mancano di prospettare interpretazioni criminologiche della diversa ricchezza dei paesi di destinazione dei migranti rispetto a quella dei paesi della loro provenienza, ritenendo i primi predatori, ladri di ricchezze dei secondi[14] alle quali poi annettere il relativamente più elevato livello di cultura. Fermando limiti storiografici iniziali e contemporanei, come per il caso africano di cui Hegel addirittura scrisse del suo tardo ingresso nella storia dell’umanità[15].

Ma c’è comunque un rapporto di dipendenza tra ricchezza e cultura, o è la cultura che dà ricchezza? La seconda ipotesi risulta storicamente in linea di massima vincente; l’Europa non è nata ricca ma si è costruita una cultura indipendentemente dal ricorso alla violenza.

Oggi c’è chi scrive di culture subalterne, ma il termine è ambiguo nella misura in cui prescinde dai livelli consolidati di conoscenze e capacità delle culture non subalterne e che le subalterne tendono a raggiungere superando differenze di fatto antropologicamente esistenti ma non rilevanti rispetto ai “livelli” complessivi storicamente e praticamente prevalenti.

10. Le migrazioni sono un fenomeno sociale patologico o fisiologico? 

Certamente dal punto di vista del migrante di massa alla ricerca di lavoro non si tratta di una vacanza sulle Dolomiti o a Parigi. È un espatrio forzato di cui non conosce l’esito anche se spera, in genere senza certezze minime, in un miglioramento delle sue attuali condizioni. L’estero è un ignoto, la patria è un’esistenza fatta di famiglia, amici, cultura che gli rimane nel cuore con la speranza inestinguibile di un ritorno fortunato o comunque di un contatto affettuoso, vivo, permanente. Non resta che analizzare fredde statistiche e storie di vita nel bene e nel male. Nel nuovo paese potrà avere fortuna, non portare che eccezionalmente fortuna.

Dal punto di vista dei paesi accoglienti nella migliore delle ipotesi può rivelarsi un sostegno provvidenziale, nella peggiore un emarginato elemosinando e pericoloso. Un’accoglienza umana e fattiva può conseguire facili integrazioni. Ma rimane una dinamica limitata ad un numero limitato di migranti. La questione rimane la gestione di un fenomeno di massa a cominciare da quella delle abitazioni. La patologia del fenomeno si evidenzia con il numero e la disciplina complessiva relativa.

La sostanza più irriducibile della patologia del fenomeno è, tuttavia, nel fenomeno in sé, nell’allontanamento dalle proprie patrie per sperimentare una vita possibilmente migliore in patrie altrui. E la Chiesa cattolica, nonostante il suo concreto aiuto alle emergenze, è contro le migrazioni di massa[16]

11. È un po’ come ricorrere ad eserciti mercenari il supplire alla caduta di prolificità ricorrendo a migranti, è il classico ormai problema di paesi importanti, dal Giappone alla Russia a paesi europei. I nativi possono essere sostituiti dai migranti, temporaneamente o no, di per sé a cultura diversa e interessi contingenti? Le migrazioni hanno a che fare con cultura e civiltà, e viceversa (uno dei temi ignoti al Global Compact).

Un secondo pesante interrogativo è quello dell’invecchiamento delle popolazioni rispetto alle quali è manifesta la giovane età degli immigrati, fatto che demografi hanno segnalato in chiave militar-conflittuale.

Certo l’interrogativo maggiore e meno difficile è quello economico, che non pone al momento problemi militari, e rinvia ad un futuro incerto i processi culturali. Ma rispetto all’invecchiamento se non la sparizione di importanti società rimane drammatico il problema che si potrebbe dire di eredità di mondi spiranti: o riprendono a prolificare o cedono il campo a generazioni adottive, integrate. Insomma i problema dell’eredità delle generazioni in via di estinzione non si può risolvere che con l’integrazione di immigrati. Il meticciato, sostanzialmente fenomeno personale, non è la soluzione. Lo è l’integrazione.

L’entità degli immigrati musulmani come maggioranza degli integrati oggi come oggi pone qualche interrogativo, alla Lewis, sulla loro cultura religiosa se si trovasse maggioritaria rispetto a quella attualmente maggioritariamente cristiana che lascia tracce consolidate nella cultura dei paesi europei. 

Sospendo qui una indagine il cui seguito non sarà chi scrive a continuarla nel futuro. Ma non possiamo non constatare che nel mondo d’oggi gli Stati che si legano formalmente ad una religione sono quasi inesistenti, essendosi affermato globalmente il principio costituzionale della separazione dei poteri; questo anche nei paesi in declino demografico come il Giappone, a libertà pluralistica di fede religiosa ma a indissolubilità dalle proprie tradizioni storiche nazionali, pur fermamente restio alle immigrazioni non integrate. È con queste tradizioni storiche di cultura fattiva e di civiltà che le fedi religiose potranno integrarsi uscendo dalle emergenze migratorie di massa. I fenomeni migratori non sembrano incidenti su mutamenti culturali e di civiltà dei paesi in cui si dirigono, ma ancora condizionati da questi.

12. Il passaggio da sistemi politico-giuridico tribali a sistemi statali è l’argomento base con cui avrebbero a che fare i sostenitori delle culture deboli o subalterne rispetto a quella occidentale, prendendo atto, con gli storiografi, di un indiscutibile scelta generale africana per il modello politico giuridico occidentale, anche se con risultati ancora difficili se non tragici[17]. E sembra di dover insistere sulla mondiale prevalenza della cultura occidentale a fronte dell’attuale inconsistenza storica di quella africana. Gli africani negli Usa, per fare un esempio, non ne hanno africanizzato la costituzione, ma vi hanno realizzato la loro umanità aderendovi. Le loro immigrazioni in Europa non hanno ora titolo per poterne mutare le carte costituzionali.

Non rimane che prendere atto del diverso livello storico-competitivo della pluralità delle culture che dalla preistoria si sono affacciate nella storia, e qui hanno iniziato un possibile dialogo e competizione, ormai diversi come articolazione e mezzi da quelli dell’età della pietra. Si direbbe che la cultura africana, specie per suoi residui di oralità, è rimasta, senza meriti verso l’umanità, in coda evidente rispetto alle culture oggi prevalenti. E questo ritardo ha influito in particolare sui modi di acquisizione dei modelli giuridici più evoluti, risentendo ancora delle millenarie tradizioni tribali e dell’assenza di tracce di un minimo di unitarietà.

Le esclusioni sociali e giuridiche di cui si discute in tema di migrazioni possono essere anche casuali od autoesclusioni. Rilevanti sono le questioni della legittimità degli sbarchi orchestrati, del buon fine di aiuti nazionali e internazionali ai paesi dei migranti, dell’entità delle migrazioni (botte da travasarsi in un fiasco), della concezione delle migrazioni intese come moto indisciplinato perpetuo dell’umanità, della inadeguatezza dell’accoglienza privata europea rispetto a responsabilità di fragili Stati indipendenti, del non rispetto delle frontiere, dell’occidentalizzazione dei nuovi Stati africani nonostante le polemiche anticolonialiste, del perché si intenda migrare solo verso Stati europei e non verso straricchi Stati islamici, dell’integrazione come rimedio alla non prolificità di altre società.


[1]Ci si riferisce qui evidentemente alle carovane di migranti partite dall’Honduras che pretendono di entrare negli Usa dal Messico.

[2]Cfr. A. Centonze, Il controllo dei flussi migratori clandestini e il contrasto alla criminalità organizzata transnazionale: gli equivoci dogmatici e le sfide ermeneutiche, in “Magistratura indipendente”, 5-3-2019. In chiave politologica cfr. altresì L. Napoleoni, Mercanti di uomini. Il traffico di ostaggi e migranti finanzia il jihadismo, Rizzoli, Milano, 2017.

[3]I. Gjergji, Sulla governance delle migrazioni. Sociologia dell’underworld del comando globale, FrancoAngeli, Milano, 2016.

[4]Cfr. la sintesi in merito per i paesi africani di S.F. Moore, Antropologia e Africa, Cortina, Milano, 2004.

[5]Sulla riproduzione, con le migrazioni nella stessa Africa, delle esclusioni e gerarchie sociali, cfr. O. Bakewell, Keeping them in their Place: the ambivalent relationship between development and migration in Africa, in “Third World Quarterly”, 29-7 2008.

[6]Dall’intervista di J.P. Amselle pubblicata nel volume di quest’ultimo Islam africani, Meltemi, Milano, 2018, p.143

[7]Se ne riportano i 23 obbiettivi esplicitati dal documento nella traduzione della Camera dei Deputati: 

“Obiettivi per una migrazione sicura, ordinata e regolare.

  1. Raccogliere e utilizzare dati precisi e disaggregati come base per politiche fondate sulla conoscenza dei fatti
  2. Ridurre al minimo i fattori negativi e i fattori strutturali che costringono le persone a lasciare il loro Paese d’origine
  3. Fornire informazioni accurate e tempestive in tutte le fasi della migrazione
  4. Garantire che tutti i migranti possano provare la propria identità e abbiano documenti adeguati
  5. Migliorare la disponibilità e la flessibilità dei percorsi per la migrazione regolare
  6. Facilitare il reclutamento equo ed etico e salvaguardare le condizioni che garantiscono un lavoro dignitoso
  7. Affrontare e ridurre le vulnerabilità nella migrazione
  8. Salvare vite umane e intraprendere sforzi internazionali coordinati per i migranti dispersi
  9. Rafforzare la risposta transnazionale di contrasto al traffico di migranti 
  10. Prevenire, combattere e sradicare il traffico di persone nel contesto della migrazione internazionale
  11. Gestire i confini in modo integrato, sicuro e coordinato
  1. Rafforzare la certezza e la prevedibilità delle procedure per la migrazione al fine di operare le opportune selezioni, valutazioni e attività di orientamento 
  2. Ricorrere alla detenzione di migranti esclusivamente come misura di ultima istanza e ricercare soluzioni alternative
  3. Migliorare la tutela, l’assistenza e la cooperazione consolare in tutto il ciclo migratorio
  4. Fornire ai migranti l’accesso ai servizi di base
  5. Mettere i migranti e le società in condizione di realizzare la piena inclusione e la coesione sociale
  6. Eliminare ogni forma di discriminazione e promuovere un discorso pubblico basato su fatti e prove per plasmare la percezione della migrazione
  7. Investire nello sviluppo delle competenze e favorire il riconoscimento reciproco di abilità, qualifiche e competenze
  8. Creare le condizioni affinché i migranti e le diaspore possano contribuire pienamente allo sviluppo sostenibile in tutti i Paesi
  9. Promuovere il trasferimento più rapido, più sicuro e più economico delle rimesse e favorire l’inclusione finanziaria dei migranti
  10. Cooperare nel facilitare il ritorno sicuro e dignitoso e la riammissione, nonché il reinserimento sostenibile
  11. Stabilire meccanismi per la portabilità dei diritti previdenziali e delle prestazioni maturate
  12. Rafforzare la cooperazione internazionale e i partenariati globali per realizzare una migrazione sicura ordinata e regolare.”

[8] Per le posizioni governative italiane sul documento cfr. A. Manocchia, No al Global Compact Onu sulle migrazioni: vi spieghiamo perché, https://imolaoggi.it…/no-al-global…, 27.11.2018. Oltre all’Italia nel 2018 non hanno sottoscritto il documento Usa, Australia, Austria, Bulgaria, Cechia, Croazia, Israele, Polonia, Slovacchia, Svizzera, Ungheria.

[9]Cfr. per il rapporto tra Africa e africanismo B. Davidson, Africanismo, in “Enciclopedia del Novecento”, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1998.

[10]Che si tratti di civiltà, quantomeno non più viva, è dubbio: “Ad eccezione di Braudel la maggioranza dei più eminenti studiosi delle civiltà non riconosce una distinta civiltà africana” (S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano, 1997, p.55, osservando che le manca tra l’altro uno stato guida).

[11] Gli Stati africani riconosciuti a livello internazionale sono complessivamente 54, non riconosciuti sarebbero 541, per complessivi 3 mila gruppi etnici con oltre 2 mila lingue.

[12]B. Davidson, op. cit., p.13.

[13] B. Davidson, La civiltà africana, Einaudi, Torino, 1997, p.123.

[14]“L’Europa è letteralmente la creazione del terzo mondo e le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai paesi del terzo mondo” (J. Hickel, The Divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, il Saggiatore, Milano, 2018, p.37, frase di F. Fanon).

[15] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Bari, 2003, pp. 80 e 87.

[16]Cfr. F. Cenci, Card. Sarah: “Migrazioni di massa? Ecco cosa rischia l’Occidente…”, in IN TERRIS; quotidiano digitale, 3-6-2019, in cui si riportano riferimenti a documenti ufficiali contro flussi migratori incontrollabili, sottolineando la necessità di difendere le culture specifiche dei popoli, la necessità di investire nel campo dell’educazione e della formazione anche politica e imprenditoriale, la promozione dello sviluppo umano integrale, del diritto a restare nel proprio paese e di emigrare per cercare scurezza e progresso per sé e la propria famiglia là dove è possibile trovarli, il rispetto per le culture altrui.

[17]Cfr. A. Riccardi, Africa, in “Il libro dell’Anno 2004”, Treccanistituto, Roma, 2004.