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Martha C. Nussbaum, The Monarchy of Fear. A Philosopher Looks at our Political Crisis, Simon&Schuster, New York 2018

Roberto Luppi

L’Occidente al tempo della paura. Martha Nussbaum analizza gli Stati Uniti dell’era Trump

L’elezione di Trump negli USA, il referendum per l’uscita dall’Unione Europea in Gran Bretagna, l’ascesa al potere del governo Lega-Movimento5Stelle in Italia e di Bolsonaro in Brasile sono probabilmente le manifestazioni politiche più evocanti dell’odierno zeitgeist d’Occidente. In Europa come nelle Americhe, i partiti (e i politici) tradizionali battono in ritirata di fronte all’ondata populista e sovranista, l’unica davvero in grado di sfruttare (oltre che fomentare) una polarizzazione sociale e un’assenza di dialogo politico con pochi eguali nel recente passato.

È a queste società che rivolge la sua riflessione la filosofa Martha Nussbaum, la quale, analizzando il malessere della democrazia statunitense, affronta questioni cruciali e attualissime su entrambe le sponde dell’Atlantico. “There’s a lot of fear around in the US today, and this fear is often mingled with anger, blame, and envy”(14). La paura è il morbo che ha assalito gli americani dell’era della globalizzazione, facendoli sentire impotenti e incapaci di controllare le proprie vite. Paura del futuro, paura della disoccupazione, paura che il sogno americano sia svanito per sempre, paura per i crescenti problemi economici. Ma non tutto – e forse nemmeno tanto – è perduto, afferma Nussbaum. Bisogna analizzare la contemporaneità, razionalizzarne le fobie e cambiare rotta al fine di ridare spazio ad uno dei sentimenti cardine del sogno americano: la speranza.

È nella notte successiva alle elezioni presidenziali del novembre 2016 che l’autrice si convince della necessità di scrivere The Monarchy of Fear, mentre nella sua mente si affollano “first, increasing alarm and then […] both grief and a deeper fear, for the country and its people” (6). In quel momento, Nussbaum decide di analizzare la paura nella molteplicità delle sue manifestazioni individuali e collettive. Proprio su queste ultime si orienta l’attenzione della filosofa in ragione dei profondi effetti sociali che da esse si originano. Quando colpisce la società nel suo complesso, infatti, la paura spesso si manifesta in forma di accanimento contro gruppi deboli e marginali: è in quest’ottica che sono letti alcuni comportamenti odierni contro migranti, donne, minoranze etniche e religiose.

Negli USA, la paura è vista accompagnarsi a (e combinarsi con) altre emozioni, quali rabbia, invidia e disgusto.

America is an angry country. That’s an old story, but today the anger seems more ubiquitous and more strident. Men blame women, women blame working-class men. On the right we find hysterical blame of Muslims, on the left furious blame of those who denounce Muslims. Immigrants blame the new political regime for the instability of their lives. Dominant groups blame immigrants for the instability of “all our” lives. (57)

Ad avere la meglio è stato un reciproco accusarsi rabbioso, facilitato nel suo imperversare dai nuovi canali di comunicazione e contraddistinto dalla volontà di trovare un capro espiatorio su cui riversare paure e frustrazioni.

Il disgusto ha origine nella più profonda irrazionalità umana e, a livello sociale, si proietta spesso su un gruppo vulnerabile, manifestandosi attraverso la totale avversione al contatto con esso, per paura di contaminazione. Nella società americana, Nussbaum identifica alcune categorie – vecchie e nuove –, vittime di tale emozione: si tratta di afro-americani, ebrei, gay, lesbiche e transgender. Contro di essi, osserva la filosofa, è commesso un numero sempre crescente di hate crimes (virtuali e non): “They are people against whom one may be able to aggress with impunity. President Trump’s failure to condemn bias groups unequivocally is thus extremely dangerous”(101).

Infine, l’invidia:

We see envy on both the “right” and the “left”. On the right, a sense of stagnation, helplessness, and even despair propels many lower-middle-class people into envious denigration of Washington elites, of mainstream media, of successful minorities, of women taking “their jobs”. People wish ill to those by whom they feel eclipsed, or displaced, or neglected. On the left, many have-nots envy the power of bankers, of big business, and of political insiders who support those interests. Envy […] involves animus and destructive wishes: it wants to spoil the enjoyment of the “haves”. (107)

L’invidia è pericolosa per le sorti di una democrazia in quanto la dipinge come un gioco a somma zero: affinché il soggetto o il suo gruppo di appartenenza possa godere di maggior benessere, è necessario che un’altra persona o gruppo ne paghi le conseguenze. Tale emozione si focalizza sui vantaggi altrui (veri o presunti); chi prova invidia soffre perché il proprio “rivale” è in possesso di un bene, di cui egli è, invece, sprovvisto. In questo modo, l’invidia sfocia inevitabilmente in animosità e tensioni, impedendo la creazione di un sistema di cooperazione improntato alla concordia.

Tra le vittime di queste emozioni, Nussbaum dedica particolare attenzione alle donne. Immagini e commenti sessisti e misogini, infatti, sono stati all’ordine del giorno durante la campagna elettorale trumpiana e trovano ampie simpatie nel suo elettorato.[1] Ad essere profondamente radicata, afferma la filosofa, è una paura del mondo femminile che unisce le tre emozioni analizzate. C’è la paura rabbiosa causata dall’emancipazione delle donne dal controllo maschile. Esiste la paura legata al disgusto di un essere considerato troppo avvinto al mondo – peccaminoso – della corporalità. E, infine, è presente una paura invidiosa del successo che le donne ricevono nella società americana odierna. Esse, scalzando molti uomini dalle loro posizioni, hanno, infatti, suscitato la paura di chi si è sentito “indebitamente” marginalizzato e messo da parte.

Data questa panoramica, sembrerebbe che il futuro possa riservare ben poche sorprese positive. Eppure Nussbaum mantiene un’attitudine fiduciosa, rifacendosi alla – a lei cara – tradizione greca e romana, che vede la paura come il rovescio della medaglia di un sentimento di cui la contemporaneità ha grande bisogno, la speranza. Senza paura non c’è speranza, e viceversa. Sicuramente, la democrazia prevede al suo interno una componente di paura e ciò può essere utile al fine, ad esempio, di prevenire tragedie. Ma, soprattutto laddove ad essere posto sotto indagine è il futuro stesso del progetto democratico, è importante che sia la speranza a farsi largo, una speranza pervasa di fede e amore.

Sentire queste parole potrebbe indurre non soltanto i più cinici a pensare che si tratti di riflessioni naif. Ma non è così, osserva Nussbaum, in quanto speranza, fede e amore sono stati i sentimenti distintivi di alcune delle figure più influenti del secolo scorso. Martin Luther King, ad esempio, predicava un amore, fatto di piccoli gesti di fratellanza e fondato sulla capacità di separare l’agente dall’atto. Egli non smetteva mai di abbracciare l’umanità dell’altro pur mantenendo una ferrea condanna dei suoi crimini. I gesti e le azioni possono essere condannati irrefutabilmente; le persone no, in quanto sempre suscettibili di cambiamento e redenzione. Nelson Mandela è un altro leader carismatico che la filosofa innalza a modello per l’Occidente odierno.

Mandela’s stance combined our three attitudes. During a long, dark period, with an uncertain future, he embraced hope. He did so, it seems, through an unwavering faith in the prospects of his troubled nation, not for perfect justice, but for the ultimate rejection of apartheid in favor of multiracial democracy. At its deepest level, though, both faith and hope were sustained by Mandela’s almost heroic capacity for love: for seeing the potential for good in his fellow countrymen, white and black […]. (162)

Pur nella loro straordinarietà, entrambe le figure costituiscono esempi formidabili, a cui ispirare la propria azione specialmente nell’ambito delle relazioni interpersonali. Ora che si vivono spaccature sociali – tra appartenenti a schieramenti differenti, ma anche tra persone di diversa etnia, religione e cultura (impossibile non pensare alla questione dei migranti) – lo sforzo dei cittadini dev’essere teso a vedere nell’altro, talvolta distante eticamente e culturalmente o autore di azioni difficili da comprendere e giustificare, non un mostro o un nemico, ma una persona che è e rimarrà sempre un essere umano e, in quanto tale, non sarà mai definitivamente malvagio.

Ma come può una società fare in modo che nei cittadini si diffonda un’attitudine di questo genere? Nussbaum avanza cinque pratiche che possono aiutare le persone a passare dalla paura alla speranza e, in particolar modo, ad una speranza fatta di dialogo costruttivo: 1) le arti; 2) il pensiero critico “socratico” (promosso in scuole, università e istituzioni di vario genere); 3) gruppi religiosi e/o civicamente attivi, che promuovano pratiche non violente di rispetto e giustizia; 4) la riflessione sulle teorie della giustizia; e 5) un programma di servizio civile obbligatorio, che ponga i giovani in contatto con persone di differente età, censo ed etnia.

È un invito alla speranza, dunque, quello che caratterizza la parte finale del libro, o meglio l’invito a mettere da parte la paura per impegnarsi in prima persona al miglioramento della propria società. Tutto ciò in nome di una convinzione, tratteggiata efficacemente dal presidente Obama in un tweet dell’agosto 2017: “[n]o one is born hating another person because of the color of his skin or his background or his religion. People must learn to hate, and if they can learn to hate, they can be taught to love, for love comes more naturally to the human heart than its opposite” (123). E ciò vale tanto nel paese in cui si costruisce un muro per chiudere la miseria fuori dal proprio territorio quanto nel continente dove, al fine di preservare interessi e privilegi, si gira lo sguardo di fronte alla morte in mare di migliaia di esseri umani.

[1] Nussbaum distingue il sessismo dalla misoginia, pur affermando che negli USA sono presenti entrambi. Per sessismo, ella intende il comportamento derivante dalla convinzione che le donne siano esseri inferiori, da confinare preferibilmente all’ambito domestico. Con il termine misoginia, invece, ella indica una gamma di comportamenti volti a mantenere il mondo femminile “al suo posto”. La misoginia, spesso giustificata attraverso il sessismo, contribuisce alla conservazione di ingiuste differenze di genere e trova frequentemente fondamento nell’interesse personale e nella paura di perdere status o privilegi (131-133).