L’opera che Claudio Sartea recensisce in questo contributo, parte da un’evidenza fattuale: “l’aumento dell’età media […] ed i progressi strepitosi della scienza medica, soprattutto il trionfo sulla mortalità infantile, ha reso possibile “vedere” l’infanzia: gli adulti, nel mutato scenario culturale e psicologico, da alcuni decenni per la prima volta nella storia umana hanno cominciato a “vedere” i bambini.”.
Marcel Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, (2009), trad. it. di D. Frontini, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 90.
Claudio Sartea
Il libro è del 2009, la versione italiana a cui fa riferimento la presente recensione è del 2018. Elemento in più che avvalora la tesi che ispira la scelta di recensirlo oggi per Iustitia: nella gran messe degli studi degli ultimi tempi sulla famiglia (di stampo psicologico, sociologico, filosofico, antropologico, giuridico, pedagogico, etc.), questo si distingue per l’acume dell’interpretazione e la profondità della diagnosi. Il libro non nasce unitario, perché è costituito dall’assemblaggio di due saggi già apparsi in francese sulla rivista diretta dall’autore, Le Débat, nel 2004, rispettivamente intitolati “La redéfinition des âges de la vie” e “L’enfant du désir”, a cui a mo’ d’introduzione Gauchet ha aggiunto l’inedito “Il bambino immaginario”. L’ulteriore allontanamento nel tempo della riflessione pubblicata in queste pagine ne attesta a maggior ragione la forza teoretica: a distanza di quindici anni queste pagine parlano ancora con forza e chiaroveggenza a tutti coloro che vogliono confrontarsi francamente e senza infingimenti con la situazione specialissima in cui si trova oggi l’istituto familiare.
Il volume è agile e denso: non muove questa recensione la pretesa di darne esauriente conto, ma solo di motivarne la lettura attenta evidenziando alcune linee guida essenziali nella traccia del percorso seguito dall’autore. Marcel Gauchet è un pensatore ben conosciuto, non solo in Francia (dov’è Direttore di Studi presso la prestigiosa École des Hautes Études en Sciences Sociales, ovviamente a Parigi), ma in tutto il mondo intellettuale per le sue opere sulla secolarizzazione e le sue originali e penetranti analisi della cultura e della politica tardomoderne (o, come lui preferisce chiamarle, “ipermoderne”: p. 18). In questi saggi si concentra sulla trasformazione della famiglia e delle relazioni familiari seguita alla rivoluzione del “figlio del desiderio”, e sulle sue ricadute psicologiche, pedagogiche, antropologiche (come vuole il sottotitolo) in genere.
Il punto di partenza è fattuale: l’autore osserva che l’aumento dell’età media (e della aspettativa di vita di ognuno di noi, almeno nei Paesi cosiddetti evoluti e del benessere), ed i progressi strepitosi della scienza medica, soprattutto il trionfo sulla mortalità infantile, ha reso possibile “vedere” l’infanzia: gli adulti, nel mutato scenario culturale e psicologico, da alcuni decenni per la prima volta nella storia umana hanno cominciato a “vedere” i bambini. Questo ha prodotto numerosi cambi di paradigma, che Gauchet passa in rassegna con puntualità e forza di sintesi: “Il bambino è diventato un figlio del desiderio, del desiderio di un figlio. Era un dono della natura o il frutto della vita attraverso di noi, certo, ma senza di noi o malgrado noi. D’ora in poi non potrà che essere il risultato di una volontà espressa, di una programmazione, di un progetto” (p. 8). Beninteso: questa riflessione non si limita ai processi di fecondazione artificiale, che ovviamente la confermano nella maniera più accentuata possibile; è un discorso che vale in generale, ed anzi molto prima della nascita di Louise Brown a Londra, nel 1978, perché affonda le proprie radici nella rivoluzione culturale legata alla diffusione delle tecniche contraccettive ed all’idea, che oggi ci sembra scontata ma si è affacciata per la prima volta sulla scena della psicologia di massa da pochi decenni soltanto, che il figlio possa essere cercato, voluto, programmato, rifiutato, evitato, che insomma la nostra partecipazione alla perpetuazione della specie sia qualcosa di ottativo e quasi completamente dipendente dal nostro volere. “La procreazione è ormai il frutto di un’azione deliberata e controllata” (p. 49).
Perciò, “nel quadro della vecchia famiglia-istituzione, dedita alla funzione sociale della perpetuazione del lignaggio, la famiglia faceva il bambino; nel quadro delle nuove famiglie affettive, che trovano la loro giustificazione nella ricerca emotiva dei loro membri, è il bambino che fa la famiglia. Precisiamo: è la presenza di un figlio che consacra la famiglia come ambito sociale distinto, dedito alla realizzazione di valori specifici che, rispetto alla sfera pubblica, non sono solo distinti, ma preminenti – valori che, in quanto portatori di realizzazione personale, sono opponibili a quelli della sfera pubblica” (p. 9).
L’allungamento della speranza di vita ha altresì prodotto una confusione nuova e poco tematizzata nella divisione delle fasi dell’esistenza: l’infanzia, posta al centro, si è dilatata, fino ad assorbire l’adolescenza, che a sua volta si è estesa verso l’età adulta rendendone impercettibili i confini e le caratteristiche. “Quella dell’adulto non è ormai che un’età, senza un particolare rilievo o privilegio sociale. Nessuno deve più essere maturo, nel senso che non sussiste più l’obbligo pubblico della riproduzione collettiva. La vita familiare e la procreazione sono divenute questioni puramente private” (p. 43). A sua volta, e conseguentemente, la vecchiaia è stata spinta in avanti, e molti anziani – con l’aiuto delle risorse economiche e mediche – prevengono molti acciacchi e condizionamenti, permettendosi una vita da adulti di durata imprevedibile: “Restare giovani diviene l’ideale esistenziale se si scopre di avere molto tempo davanti a sé e si ha tutta l’intenzione di sfruttarlo” (p. 43).
Sul piano sociale questo ha sviluppi inattesi e mai tematizzati: “La giovinezza senza ribellione conduce a un mondo senza adulti – senza adulti consenzienti, in ogni caso, o con adulti per metà rassegnati e per metà frustrati. Ancora una volta, questo è l’effetto della definitiva dissoluzione del vincolo istituzionalizzato alla riproduzione, la cui assunzione era esattamente ciò che definiva la maturità” (p. 46).
Pur senza esplicitare le remote origini rousseauviane dell’idea, Gauchet nota la connessione tra questa inedita centralità dell’infanzia ed il nuovo ideale del sé come ritorno o meglio ancora conservazione dello stadio infantile dell’esistenza: luogo (presunto) dell’autenticità, della pienezza, della sincerità senza finzioni né commedie di ruolo, dell’armonia con noi stessi non frammentata dall’ipocrisia necessaria per sopravvivere nel mondo adulto: “Dall’infanzia dalla quale ci si doveva liberare si è passati all’infanzia alla quale si sogna di restare fedeli. È in questo senso che possiamo parlare dell’infanzia come ideale del sé” (p. 12).
L’ultimo passaggio di questa esaltazione del bambino consiste nella sua valenza politica: secondo Gauchet, “l’infanzia è divenuta la nostra ultima utopia politica, in un mondo dove quest’ultima non ha più manifestamente un posto. […] L’utopia di una società di individui integralmente realizzati” (pp. 14 e 15).
Proiezioni ideali, tutte quelle che Gauchet riporta e critica nella prima parte del suo libro, che guardate con distacco rendono ben poca giustizia al bambino in carne ed ossa, alla sua condizione indiscutibile di “essere umano in tutto e per tutto”, che “può essere tormentato, anche se con modalità che per noi restano incomprensibili”, se non addirittura inaccettabili, vista la pienezza di vita che (illusoriamente) attribuiamo alla sua situazione, che invece è precaria, incerta, sfidante perché costantemente sfidata da tutte le circostanze (nuove e perciò temibili) che incrociano la sua puerile ed incerta esperienza dell’esistenza nel mondo.
Approfondendo questi temi, nel capitolo centrale del libro l’autore riflette sulla metamorfosi radicale che ha investito la percezione della società di ognuno di noi, l’idea di rapporti tra le generazioni, la stessa relazione che intratteniamo con il tempo storico. “Le trasformazioni dell’ultimo periodo sono caratterizzate dalla scomparsa, se non addirittura dalla liquidazione in tutto e per tutto, del ruolo che i legami di parentela (e l’ordine delle classi d’età), conservavano in quanto legami sociali” (p. 21). L’altro fattore culturale dirompente è il rovesciamento della prospettiva, che in società religiosamente ispirate (non si dimentichi l’importanza degli studi di Gauchet sulla secolarizzazione, che lo hanno reso celebre a livello mondiale), è fondata nel passato come “tempo sociale legittimante” (p. 23), nelle società secolaristiche è invece proiettata verso il futuro. Anche per questo le nuove generazioni assumono una centralità che non hanno mai avuto, e vengono caricate di responsabilità, aspettative, cure, investimenti. Ma proprio qui sorge il paradosso: “L’educazione non è mai stata così legittima. La richiesta di formazione non è mai stata così grande. […] Eppure, mai come ora si è stati così incapaci di conoscere quale contenuto dare e per quali vie far passare questa formazione. Tutto passa per la scuola, su questo tutti sono d’accordo; il fatto è che nessuno sa bene che cosa debba passare” (p. 47).
L’ultima parte del saggio, intitolata come l’intero libro, indaga le premesse e le conseguenze psicologiche (individuali e collettive) della rivoluzione antropologica su cui riflette il volume: “Il figlio del desiderio è il figlio di un desiderio privato, di una famiglia de-istituzionalizzata, di una coppia intimizzata, di una donna che considera il parto un’esperienza personale” (p. 51). Quali sono le ripercussioni di questo nel vissuto personale del figlio così generato? La dipendenza così radicale da un progetto altrui lascia intatta la libertà di ognuno? Di più, come afferma Gauchet: “Il bambino è due volte figlio del desiderio. Lo è socialmente, in virtù dello statuto che gli si attribuisce; lo è tecnicamente, in virtù delle condizioni nelle quali è concepito” (p. 55). A quest’ultimo proposito, “è il risultato di un desiderio espresso, diverso dal desiderio sessuale e consapevolmente rivolto al concepimento di un essere, indipendentemente da qualsiasi altro legame di riferimento – non ci si accontenta più di avere un figlio, si fa un figlio, e ci sono solo figli legittimi in quanto legittimati dal desiderio di averli” (p. 56). Difficile concentrare in parole più efficaci e sintetiche tanti concetti di enorme rilevanza sia per la riflessione biogiuridica sull’inizio della vita umana sia il discorso legale ed istituzionale che riguarda la famiglia oggi: spostato su questo livello, l’intero dibattito sulla procreazione medicalmente assistita ed i suoi legami con la coppia genitoriale (quale coppia? perché coppia?), o quello sulla maternità surrogata (chi è madre? perché dovremmo preoccuparci di tutelare i legami biologici e genetici?), cambiano di segno e mutano radicalmente riferimenti antropologici, con incalcolabili ricadute normative.
È chiaro che qui è la famiglia in discussione: in un crocevia nuovo e del tutto provocatorio nei riguardi degli stilemi con cui ci siamo da secoli abituati a descriverla e parlarne, anche sul piano giuridico. “Ciò che rendeva la famiglia un’istituzione era la funzione che occupava nella costituzione della società. Era investita di una funzione strategica: tenere insieme e resistere nel tempo” (si noti che entrambe queste funzioni strategiche sono intimamente giuridiche, in relazione al senso cooperativo e garante della durata che per esempio l’ontofenomenologia di Sergio Cotta attribuisce al diritto). “Posta alla cerniera tra natura e cultura, la famiglia era l’istanza mediatrice incaricata di produrre esseri viventi e di trasformarli in esseri-per-la-società. […] La prodigiosa novità della nostra situazione sta nel fatto che la famiglia non detta più legge, a nessun livello. Non le si chiede più di produrre il legame sociale; l’imperativo della riproduzione non è più un imperativo sociale” (p. 58).
Ciascuna delle figure classiche di riferimento ne viene intaccata e condizionata profondamente: “La figura del padre si è definitivamente liberata dell’investitura a rappresentante della comunità presso il nucleo domestico. Il padre è tornato ad essere un semplice privato, senza cariche né mandati. L’immagine della madre è stata altrettanto toccata, anche se in modo meno evidente, in virtù probabilmente della relativa penombra nella quale era stata relegata. La maternità non attribuisce più uno status. È nel lavoro che le donne devono ricercare quell’identità sociale che la cura del focolare, ormai ristretto alla dimensione di affare privato, non garantisce più” (p. 60). La coppia ne esce riconfigurata, e prevalgono le situazioni destrutturate ed informali (si pensi all’avanzata delle legislazioni che – anche nel nostro Paese – hanno parificato l’istituto matrimoniale ad istituti meno vincolanti): ciononostante, “qualcosa cambia quando arriva un figlio. Anche la coppia più intensamente interpersonale, la più deliberatamente extrasociale, a quel punto acquista tacitamente un nuovo status. Incontra di nuovo la società. È in questo senso che ‘il figlio fa la famiglia’, piuttosto di essere, come sempre stato, un suo prodotto” (p. 60).
La lettura che conclusivamente Gauchet presenta della nuova situazione (e del nuovo assetto della relazione cruciale tra famiglia e società) muove da una tensione che occorre chiarire: “Meno la famiglia è sociale in se stessa, più si apre alla società, più chiede di fare quello che non è più in grado di fare da sola, ma più, anche, si fa portatrice di una contestazione della norma istituzionale sulla quale si regge l’esistenza collettiva. […] In relazione a questa metamorfosi della famiglia, conviene ormai operare una distinzione tra le sfere, non più due: la sfera pubblica, la sfera privata organizzata dal diritto e che in un certo senso è una declinazione della vita pubblica […] e la sfera privata organizzata intorno ai legami interpersonali e che è preferibile definire come ‘sfera intima’, senza dimenticare che proprio qui vengono prodotti il senso e la rivendicazione dei diritti del ‘privato’ nella vita sociale. […] All’opposto della famiglia istituzionale, la famiglia intimizzata è aperta nei confronti della società, ma protettiva; debitrice del suo intervento, ma contestatrice della sua norma” (pp. 62 e 63).
Non è solo la famiglia a venire incisa, e così profondamente, dalle conseguenze di questo cambiamento, così come non lo è solo la comunità civile. L’individuo stesso, il punto focale di tutto il processo – il nuovo venuto al mondo, come lo chiamerebbe Hannah Arendt – è sottoposto ad una revisione completa dei suoi presupposti, perché adesso è il figlio del desiderio, e questo muta tutto. “Il figlio non desiderato di una volta, frutto del caso, figura esemplare dell’infelicità se visto con la sensibilità di oggi, aveva almeno la certezza di dovere la vita alla vita, di essere strettamente legato all’oggettività di un processo vitale del quale i suoi genitori non erano che ciechi strumenti. Al contrario, l’esistenza del figlio del desiderio è interamente sospesa all’intenzionalità dei suoi autori, alla quale è legata a doppio filo” (p. 82). “Molti figli del desiderio non riusciranno mai a sapere fino in fondo chi sono, né quello che vogliono. A livelli diversi, mancherà loro il potere che nasce dal sentirsi assolutamente responsabili dei propri atti e del proprio destino, così come della certezza della loro simultanea unicità e banalità – ossia, di tutto quel complesso di dimensioni che costituiscono la persona” (p. 88). La vaga eco habermasiana di questo riferimento non deve relativizzarlo alla manipolazione genetica, di cui parlava nel 2001 il pensatore tedesco: qui il discorso si dilata ed universalizza, annunciando una svolta antropologica ed invitando tutti, genitori, teorici, operatori sociali, politici, giuristi, ad affrontarla con cognizione di causa e con nuove (o forse antiche) competenze.