Lettera e spirito della legge: la prospettiva teologica
Pierangelo Sequeri
Sommario: 1. La legge come forma dello spirito. – 2. L’alleanza ermeneutica della lettera. – 3. La legge che riscatta la libertà.
1. La legge come forma dello spirito.
La complessità dei rimandi teologici, e non solo teologici, ai quali invita la sintetica formulazione dell’assunto che ispira il nostro Convegno impone comprensibilmente la scelta di qualche punto di ingresso capace di renderne governabile l’orizzonte. In via preliminare, suggerirei intanto di tenere presente la suggestione di una duplice scansione prosodica della formula (“La lettera e lo spirito della legge”) che ne illumina virtualmente una duplice articolazione semantica.
In un primo senso, facendo leva sulla coppia di lettera e spirito, abbiamo la possibilità di leggere il tema orientandolo alla trattazione della comparazione – o della competizione – tra lettera e spirito in riferimento all’interpretazione/applicazione della legge. E’ la chiave d’ingresso più corrente, che deriva dalla volgarizzazione di un’espressione di san Paolo, la quale ha rappresentato un casus belli della polemica attivata nel cristianesimo dalla Riforma protestante. La sua circolazione si è tuttavia resa largamente autonoma nei confronti della questione teologica del rapporto – ovvero dell’opposizione – fra Legge e Spirito, per diventare, in generale il tema del rapporto tra formalismo dell’applicazione letterale della legge, che non si pone il problema del rapporto con la concreta attuazione della giustizia, e l’ermeneutica della sua funzione umanistica, che tiene conto della funzione di indirizzo valoriale e pedagogico che la ispira. In questa accezione, per altro piuttosto generale, si tratta perciò di chiarire, da un lato, il rapporto del senso etico che ispira e custodisce l’agire propriamente umano con il dettato positivo (la formulazione verbale, la determinazione testuale) dell’ingiunzione e della norma.
Dall’altro lato, si tratta di precisare l’intrinseca relazione della legge e del diritto con il piano umano della decisione e del giudizio, del comportamento e dell’azione, esplicitando l’orizzonte storico (sociale, culturale) in cui deve essere apprezzato l’adempimento corrispondente all’ingiunzione[1].
Esiste però, virtualmente, una seconda possibilità di lettura, che pone l’accento sullo “spirito della legge” quale sintagma unitario, dotato di autonoma significazione: a proposito del quale ci si interroga sulla pertinenza e sulla competenza della “lettera” a rendere accessibile lo“spirito della legge”: ossia la ragione profonda – ed eticamente connotata – inerente al fatto di iscrivere l’azione e la coscienza, il comportamento e l’intenzione dell’essere umano nella struttura di una descrizione e di una valutazione che fanno riferimento alla norma e alla giustificazione, all’ingiunzione e all’obbedienza, al diritto e al dovere, alla coercizione e alla sanzione. In questa prospettiva, prima che sulle condizioni di interpretazione e di applicazione, ci si interroga a riguardo dell’origine ultima della forma-di-legge che assume il profilo del dover-essere e la relativa costituzione del diritto. E a partire di qui, conseguentemente, della possibilità e delle condizioni che rendono lo spirito della legge formulabile, esprimibile, pronunciabile. Infine “attestabile” nella forma di un “testo”, appunto, nel senso materiale e simbolico del termine: ossia, mediante l’incorporazione dello spirito (dell’idea e dell’intenzionalità) della legge in una testualità intelligibile, che, proprio in quanto tale, fa testo anche per l’immaginazione dello spirito della legge[2].
Questo secondo profilo di lettura è quello prevalente nella tradizione antica delle origini greche della filosofia. Tra i miti cosmogonici e teogonici dell’ordine del chaos e la nascita della filosofia dell’ordine del logos, si colloca la poetica del tragico, che affronta direttamente il tema dell’ambivalenza dell’ordine medesimo, nell’esperienza di quell’essere enigmatico – magnifico e terribile – che è l’uomo (Sofocle, Antigone).
Nell’Antigone, appunto, l’aporia della legge è posta chiaramente: l’ingiunzione della legge è sacra, anche quando è a rischio della vita, ma il sacro rende fatale la trasgressione, anche quando essa cerca di essere evitata[3].
L’enigma rimane. Lo spirito della legge non può essere contraddetto, perché è così che si rivela il volere del divino e viene suscitata la responsabilità dell’umano.
Nell’Antigone, le leggi inviolabili degli dèi, custodite dalla tradizione immemoriale dell’umano sentire, sono radicalmente iscritte nell’ordine degli affetti e della sua giustizia. E impongono il sacrificio della vita, pur di essere onorate. Le leggi della città, tuttavia, che sono in potere degli uomini, non hanno un obiettivo diverso: e chiedono il sacrificio dei legami del sangue in ordine alla salvezza dei legami della comunità: che sono pure affetti, i quali chiedono di essere onorati e salvaguardati a costo della vita. L’onore del padre e della madre, non possono essere violati senza attirare su di sé la catastrofe. Nondimeno Edipo sperimenta la fatalità della loro violazione, come conseguenza inevitabile della ricerca dell’affermazione di sé e dell’accesso alla sovranità sulla comunità.
In qualche modo, agendo – e anche semplicemente esistendo – l’integrità di Dike, che regge contemporaneamente l’ordine del kosmos e del logos, è violata come annuncia Eraclito. Nella differenziazione dell’esistere è immanente una trasgressione dell’armonia dell’essere che va espiata. Lo spirito della legge, che tiene in grembo il mistero della generazione (physis), qui, coincide con il dinamismo della conciliazione degli opposti: che deve essere apertamente affrontato e non rimosso. Dike è il presidio, sacro e inviolabile, del nesso dell’essere e del senso, rispetto al quale nessun bene è semplicemente dovuto, e nessun divenire è propriamente innocente. La sfera del diritto (il nomos della polis) è un compromesso necessario, per la regolazione della vita sociale: ma non garantisce Dike, né può ritenersi automaticamente garantita da essa[4].
Il rilievo di questa sfera di mediazione, imposto dallo sviluppo della polis che non trova nelle incertezze e nelle reticenze del mythos un’attestazione sufficiente del nomos che le è necessario, condurrà al passaggio dalla problematica “ontoteologica” della rivelazione di Dike a quella “etico-politica” del discernimento della dikaiosyne: ossia, della giustizia come virtù umana che giustifica la dignità dell’appartenenza civile e il rispetto del bene comune[5].
Il passaggio prende forma ed evidenza ne la Repubblica di Platone (il cui tema proprio è appunto la giustizia, in tutti i suoi aspetti e le sue dimensioni, più che il sistema della politica o il governo della res publica. In Platone, per altro, il profilo “escatologico”, e dunque l’orizzonte “trascendente”, della giustizia è ancora intrinseco alla compiuta trattazione del tema (che include il passaggio sapienziale del logos attraverso il mythos!). L’imperscrutabile gestione conciliazione della storia con la giustizia, da parte della volontà divina, si intreccia, in modo ambivalente, con l’assegnazione di responsabilità alle scelte dell’uomo (il mito di Er). Libertà e fatalità, come nella lezione della tragedia, si intrecciano inestricabilmente. La questione della formulazione della legge e del diritto, che ha il compito di assicurare alla polis la pratica e l’habitus della giustizia, nondimeno, è polarizzata dalla riflessione sul rapporto con la prevaricazione del potere dispotico e l’ingovernabilità del desiderio umano[6]. Le remote premesse della secolarizzazione del rapporto fra la giustizia (lo “spirito” fondatore della legge) e la norma (la “lettera” ingiuntiva della legge), croce e delizia della moderna separazione dell’etica e del diritto, sono poste[7] in realtà, per parafrasare Böckenförde, la costruzione sociale del diritto continua a basarsi su presupposti etici e antropologici che la determinazione positiva della norma non è in grado di giustificare[8].
2. L’alleanza ermeneutica della lettera
La questione dello spirito e della lettera, in teologia, al momento, privilegia decisamente il tema del discernimento intelligibile e vincolante dell’applicazione della legge, come adattamento della sua forma normativa al caso singolo, rispetto al tema della costituzione esperienziale e linguistica dell’ispirazione della legge, che istituisce l’esemplarità concreta dell’atto come simbolo del valore universale[9].
Questa impostazione, del resto, non vale soltanto per la legge, in senso giuridico,ma per ogni forma dell’intelligenza normativa della rivelazione: a partire dal rapporto di lettera e spirito che si attesta nelle scritture sacre[10].
In effetti, la ricerca dei metodi dell’interpretazione capaci di comporre l’evento storico con il significato dottrinale, o il legame fra il significato letterale del dogma e la Parola rivelata di Dio, per esempio, si sporge ben al di là della riflessione teorica dedicata alle modalità di correlazione che si attestano in fase di composizione della tradizione e della testualità. Detto in termini tecnici, esiste uno scarto significativo fra l’elaborazione della dottrina dell’ispirazione scritturistica, che istituisce il canone di riferimento ultimo della Parola di Dio che ispira la tradizione dottrinale, e la fioritura di metodi ed espedienti per venire a capo di una interpretazione non letteralistica della rivelazione attestata nelle sacre scritture. Mi sembra evidente che questo scarto – al quale ora si cerca di porre rimedio – è anche il sintomo di una impostazione teologica e dottrinale che ha perso di vista lo spirito della testimonianza: ossia la disposizione dello spirito a iscriversi nella forma dell’attestazione, inclusiva della scrittura sacra, che vincola il testimone, come il destinatario a futura memoria, alla normatività dell’evento di rivelazione che la coscienza credente ha colto nell’esperienza della comunicazione di Dio. Analogamente, lo spirito della legge indica l’attitudine dello spirito umano a iscriversi nella forma dell’ingiunzione, ossia dell’autorevolezza che autorizza (P. Ricoeur): che è poi il modo in cui si formano le leggi e il diritto, a partire dall’istanza di una verità che deve essere fatta per poter onorare la sua destinazione al dover essere[11].
In altri termini, non sarebbe male se la teologia, e la stessa filosofia del diritto, sollevassero con più vigore l’interrogazione su come si fa una “legge” capace di riflettere lo “spirito”, prima di accanirsi terapeuticamente sulla ricerca ermeneutica e applicativa di uno spirito che sta radicalmente fuori e oltre la legge, che consentirebbe di interpretarla oltre l’astratto formalismo della deduzione pratica di un dettato anonimo e senz’anima: il fatto è che la legge, senza “testo”, sarebbe anche senza “attestazione” capace di rendere disponibile la sua “ispirazione”[12]. Dopo tutto, è grazie allo “spirito della legge”, ossia alla qualità spirituale della forma dell’ingiunzione e dell’attestazione del giusto dover-essere, che possiamo parlare di una “legge dello spirito” (in generale, e persino – secondo l’attestazione biblica – nel contesto della rivelazione e della fede cristiana)[13]. Se la determinazione della legge, che comporta un’attestazione della lettera capace di resistere all’arbitrio, non avesse nulla a che fare con lo spirito, la stessa formula “legge dello Spirito” sarebbe un puro ossimoro. E lo spirito della legge non sarebbe riconoscibile, perché non starebbe da nessuna parte. Se non esiste un orientamento della rivelazione della giustizia alla legge – in spirito e verità – la lettera non lo restituirebbe di certo, a dispetto di qualsiasi metodo o espediente ermeneutico: perché vorrebbe dire che in alcun modo quella lettera potrebbe essere stata ispirata dallo Spirito, che si oppone semplicemente alla legge. Lo spirito non sarebbe libero e trascendente, ma semplicemente anarchico e incompetente nei confronti del comandamento (molti lo pensano: ma non è questa la libertà che nasce dove c’è lo Spirito). Né alcun normativismo calcolabile, né alcun decisionismo sovrano potrebbero evitare l’approdo kafkiano della pura coincidenza – terroristica e nichilistica ad un tempo – del legalismo e dell’arbitrarismo, orfani di verità e pertanto anche di giustizia[14]. In tal caso, certo, la lettera non giova a nulla: lascia la tua vita senza giustificazione, proprio come lascia la colpa senza remissione e il debito senza risarcimento.
E alla fine “uccide”, perché la siepe sempre più folta delle regole che dovrebbero garantire la coerenza della legge e dello spirito la soffocano e la allontanano dalla giustizia, accumulando frustrazione e disperazione[15].In altre parole, l’ossessione della lettera della norma, che cerca di sopperire all’originaria assenza dello spirito della legge, crea l’idolo e modella i suoi schiavi. L’invocazione di uno spirito della legge in grado di ribaltare questa deriva, le concede semplicemente il campo, collocandosi all’estremo opposto. E suscita la reazione uguale e contraria, facendo crescere il risentimento nei confronti dell’ingiunzione pura, che definisce la mera legalità dei comportamenti conformi al potere governamentale della giurisprudenza di fatto vigente. Nella prospettiva teologica, l’accostamento della lettera e dello spirito, a riguardo della legge, accende immediatamente una associazione mentale alla tradizionale interpretazione polemica del detto paolino: “[…] la lettera (to gramma) uccide, lo Spirito invece dà vita”[16]. L’associazione è tanto più provocante, quanto più si considera che il radicalismo di questa opposizione è stato al centro dei momenti “assiali” del cristianesimo, ossia quelli nei quali il tema cristologico dell’incarnazione, e delle sue ripercussioni sull’impianto metafisico-religioso del cristianesimo si è posto come discriminante. Il contesto del cristianesimo nascente, interpretato da Paolo di Tarso è certamente uno di questi momenti, che, di fatto e in via di principio, fa parte dell’evento fondatore della fede ecclesiale, che si trasmette a noi nella sua unità di rivelazione con l’evento cristologico, quale parte integrante del suo canone normativo per la trasmissione della fede. La dialettica dello Spirito e della Legge, in Paolo, ha di nuovo infiammato drammaticamente la comunità ecclesiale, come sappiamo, nell’epoca della Riforma protestante, investendo direttamente la concezione della fede, oltre che la problematica del rapporto fra azione morale dell’uomo e opera della grazia di Dio[17].
Non è il caso neppure di sfiorare la complessità di questo intreccio, comunque incessantemente indagata. Mi limiterò mettere a fuoco l’equivoco che ha accompagnato e accompagna ancora la sovrapposizione (largamente diffusa anche nella cultura laica) di questa doppia chiave di lettura (dogmatica e morale). Lo scopo è unicamente quello di introdurre un secondo aspetto che mi sembra importante per l’aggiornamento teologico del tema in esame.
L’equivoco, per quanto interessa qui, riguarda sia la “lettera” che la “legge”. Spirito e Legge (con l’iniziale maiuscola, ma anche minuscola) appaiono in tensione, indubbiamente, nell’insegnamento di Paolo. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito non siete più sotto la Legge (Gal 5,18). Però non possiamo dimenticare che esiste anche una Legge dello Spirito: “La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2).
3. La legge che riscatta la libertà
La legge, non è semplicemente la lettera della legge, è la legge dello Spirito. La lettera stessa, nella sua marcatura immodificabile, ha una precisa contro-figura spirituale. “Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rom 2, 14-15a). Questo motivo della legge scritta “nei cuori”, come si sa è già un tema della critica profetica vetero-testamentaria (Geremia), che già adombra il superamento della riduzione della legge legata all’esteriorità simbolica delle tavole mosaiche (“di pietra”). Il superamento non elimina l’attestazione, la rende disponibile mediante la sua scrittura nel cuore (incisa nel cuore “di carne”, dunque attestata da una “lettera” più indelebile della pietra e della carta). Questo motivo è letteralmente richiamato da Paolo proprio nel testo della Seconda Corinzi che si conclude con la drammatica contrapposizione della lettera che uccide e dello Spirito che vivifica, “La nostra lettera (epistolé) siete voi, lettera scritta (engegrammene) nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. E’ noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2Cor 3, 2-8).
E’ chiaro dunque che il ministero della nuova alleanza è un ministero dello Spirito, non della lettera, perché la sua scrittura produce anche una “lettera nuova”: una lettera che si scrive nei cuori, il cui inchiostro è lo Spirito del Dio vivente, una lettera di Cristo che ha la forma della comunità stessa. I due motivi qui si intrecciano, come accade spesso in Paolo: quello storico-salvifico del superamento dei limiti dell’antica elezione, la cui grazia è compiutamente definita in Cristo e alla quale la potenza dello Spirito assicura universalità “senza barriere” culturali e religiose; e quello etico-salvifico, che concerne il superamento dei limiti di una prospettiva della santificazione e della virtù che si immagina nei termini di un adempimento precettistico nel quale risolvere il compimento “alla lettera” dello “spirito dell’alleanza” con Dio.
La questione radicale posta da Paolo, alla fine, al potere del peccato sulla lettera e lo spirito della legge, che apre un varco alla legittimazione dell’uso iniquo della legge e non soltanto al dispendio amorale del desiderio[18]. “Dov’è lo Spirito del Signore, lì è la libertà” (2Cor 3, 17). La libertà è questo potere di resistere all’ingiunzione del desiderio peccaminoso, che si giustifica come fatalità della sua legge, nella quale si giustifica. “Voi fratelli siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate al servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5, 13-14). Questa alternativa della libertà e del libertinaggio – e l’opposta concentrazione della legge divina nell’amore del prossimo – è diventata un tema serio, oggi, nel momento in cui lo spirito del tempo ha imboccato la strada della seconda secolarizzazione. Ossia, dopo la rimozione della Rivelazione, quella della Legge.
In effetti, come ha giustamente notato J. Lacan, la via non è quella del desiderio come sinonimo di libertà e della legge come equivalente di schiavitù[19]. Il desiderio sa essere dispotico e sacrificale come e anche più della legge. Il tema cruciale è quello del potere di cercare e di perseguire la giustizia degli affetti: tema che appare oggi nel fuoco di una grande rimozione, che induce una endemica rassegnazione all’impotenza – individuale e collettiva – del volere. E quindi tema di un lasciar-essere, ma non di un voler-essere. L’interpretazione e l’applicazione della legge sono sempre permeabili a questo spirito di schiavitù e rispettivamente, alla giustificazione del desiderio corrotto (“sul filo della legalità”). Non è strano che questa piegatura del senso della forma-di-legge – alla quale è attribuito uno spirito intrinsecamente dispotico e nella quale è nondimeno cercata legittimazione per la corruzione – si rifletta indifferentemente, nella nostra temperie culturale, sul modo di trattare la burocrazia della lettera come anche l’appello allo spirito.
Lo spirito del diritto vincolante per la comunità è ossessivamente interpretato nei termini di crescita illimitata dei diritti umani individuali, a rischio di svuotamento della lettera della legge che protegge l’umano della comunità (e perciò, tutti i suoi membri). La lettera sembra rigorosamente impegnata a incorporare uno spirito affettivamente agnostico nei confronti di ogni possibile ingiunzione che riguardi l’ordine umano e comunitario degli affetti (liberando la volontà d’amore dal dispotismo del desiderio)[20]. Lo Spirito della Legge nuova, come rivelazione (attestazione) della verità che libera dalla schiavitù del desiderio, quale configurazione riconosce al comandamento di Dio (l’ingiunzione) che indica la giustizia dell’amore del prossimo come libertà necessaria, senza la quale non possiamo vivere insieme?
A me sembra che la risposta più stimolante possa essere formulata in questi termini: il comandamento nuovo preme per l’elaborazione di una lettera che collochi il vertice dello spirito della legge nuova dell’amore nella edificazione dell’umano che è comune, dentro la dialettica di prossimità e fraternità. Prossimità come vicinanza responsabile del “chiunque” (questo è il prossimo evangelico), fraternità come libero legame dei “discepoli” che attesta la reale possibilità di portarsi oltre l’attestazione (la dimostrazione, la coscienza) dell’intrinseca autoreferenzialità del desiderio e di resistere all’ingiunzione (al dispotismo, alla schiavitù) del godimento come spirito e lettera di una polis interamente amministrata dalla rassegnazione della burocrazia e dalla reticenza del diritto nei confronti della giustizia dell’umano che è comune – e messo in comune – come oggetto d’amore e tema del dover essere in cui si decide di noi e dei nostri sogni migliori[21].
La fraternità umana – e la sua elaborazione nello spazio civile del diritto, come lettera e spirito dell’umanesimo della legge – è la promessa mancata della modernità europea (e di tutte le sue rivoluzioni)[22]. Il pensiero cristiano ha avuto un soprassalto di reazione all’anomia del collettivismo burocratico (in ieri versione “ideologica” e oggi “democratica”), con l’elaborazione del personalismo. Passaggio necessario, ma – alla prova della storia – insufficiente alla promozione di un “diritto fraterno”.
Nella fase attuale, l’indifferenza tecno-economica alle dimensioni affettive del legame sociale ci sta sfiancando: contro le sue promesse di emancipazione della società dei liberi e uguali, corrompe la comunità e mortifica il singolo[23]. Un soprassalto di creatività, nei confronti di una filosofia del diritto e di una deriva della giurisprudenza che appaiono latitanti nei confronti dell’interesse per i beni relazionali, avrebbe proprio qui il suo kairos. E qui, lo spirito sarebbe pronto (almeno a giudicare dal dispendio di retorica sui valori): è la lettera che ci manca[24].
[1] Il sintagma, adottato come chiave sintetica della filosofia del diritto, compare nell’intestazione della munumentale opera di teoria politica di Montesquieu, De l’esprit des loix ou du rapport que les loix doivent avoir avec la Constitution de chaque Gouvernement, les Meurs, le Climat, la Religion, le Commerce etc., Amsterdam 1748 (pubblicata anonima nella Ginevra di J.J. Rousseau). Per la frequentazione della filosofia del diritto in questa chiave, tutt’altro che frequente, è d’obbligo ricordare i Lineamenti di filosofia del Diritto (1821) di G. W. F. Hegel. Cfr. l’interessante “ritrattazione” del tema in G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Monza 2007; G. Duso, Libertà e Costituzione in Hegel, Franco Angeli, Milano 2013. Il tema compare, praticamente solitario e non più ripreso, nell’opera di uno degli iniziatori della filosofia del diritto nel nostro paese: V. Frosini, La lettera e lo spirito della legge, Giuffré, Milano 1998.
[2]Cfr. P. Hèritier, Estetica giuridica. I. Primi elementi, dalla secolarizzazione alla globalizzazione; II. A partire da Legendre. Il fondamento funzionale del diritto positivo, Giappichelli, Torino 2012.
[3] F. Guerrera Brezzi, Antigone e philia. Le passioni tra etica e politica, Franco Angeli, Milano 2004; A.M. Belardinelli – G. Greco, Antigone e le Antigoni. Storia, forme, fortuna di un mito, Le Monnier, Firenze 2010; P. Montani, Antigone e la filosofia, Donzelli, 2017; F. Ciaramelli, Il dilemma di Antigone, Giappichelli, Torino 2017.
[4] P. Vernant, Le origini del pensiero greco, Feltrinelli Milano 2011 (1962); S. GIVONE, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Laterza, Roma-Bari 2000.
[5] A. Jellamo, Il cammino di Dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli, Roma 2005; Cfr. A. Schiavone, Jus. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005; C. Bearzot La giustizia nella Grecia antica, Carocci, Roma 2008. 6 F. De Luise, La civiltà nell’anima. Note sulla questione della giustizia in Platone, Franco Angeli, Milano 2003. V. anche E. A. Havelock, Dike e la nascita della coscienza, Laterza, Roma-Bari 1981.
[6] L’interpretazione di Havelock, molto discussa, è nondimeno interessante per il nostro tema, in ragione del fatto che il critico identifica nella sintassi concettuale resa possibile dal passaggio dall’oralità alla scrittura il luogo proprio della nascita della coscienza come orizzonte della riflessività giudiziale, che porta Dike a far parte della struttura noetica del logos: cfr. ID., Cultura orale e civiltà della scrittura, Laterza, Roma-Bari 1971.
[7] G. Brambilla, Itinerari della giustizia. Appunti per una antropologia giuridica, prefazione di E. Borgna, introduzione di L. Violini, Guerini e Associati, Milano 2014.
[8]E d’altra parte, l’alternativa fra la riduzione immanente della legittimazione del diritto alla legalità dell’ingiunzione (prescrizione o interdetto, rispettivamente), e simmetricamente, e il riconoscimento dell’origine teologica della forma stessa del diritto, che si sviluppa come potere di ordinamento della storia sociale della contesa (pace e guerra rispettivamente), non appare risolutiva. La giustizia, in entrambi i casi, spirito o lettera della legge, come che sia, perde semplicemente la sua sovranità. Cfr. M. Borghesi, Critica della teologia politica – da Agostino a Peterson. La fine dell’era costantiniana, Marietti, Torino 2013. A. Cavaliere, Le ragioni della secolarizzazione. Böckenförde tra diritto e teologia politica, Giappichelli, Torino 2016.
[9] G. Angelini, “Diritto e teologia. Una mediazione dimenticata: la morale”, in Hermeneutica, 1998, 81-108 (l’intero numero è dedicato alla puntualizzazione del tema “Diritto e teologia”).
[10] G. Angelini – A. Bertuletti– P. Sequeri, La rivelazione attestata. La Bibbia tra testo e teologia, Glossa, Milano 1998. Com’è noto l’origine dell’istanza ermeneutica nell’affinità del dominio della teologia e di quello del diritto è stata ripresa con originale impostazione dal filosofo italiano del diritto Emilio Betti: cfr. I. W. Korzeniowski, L’ermeneutica di Emilio Betti, prefazione di G. Mura, Città Nuova, Roma 2010. Sull’attualità e l’interesse specifico di questa omologia, vedi F. D’Agostino, Il diritto come problema teologico, Giappichelli, Torino 1997; V. Sala, Italo Mancini, filosofo del diritto, Giappichelli, Torino 2014.
[11] Nell’introduzione a Juste 1, Ricoeur si stupisce che l’antropologia della giustizia sia così poco studiata nella filosofia contemporanea . P. Ricouer, Le juste entre le legal et lebon, in: P.R., Lectures, I. Autour du politique, Seuil, Paris 1991; A. Lentiampa Shenge, Paul Ricoeur, La justice selon l’ésperance, Lessius, Bruxelles 2009: Cfr. F. D’Agostino, Giustizia. Elementi per una teoria, Einaudi, Torino 2010.
[12] In concordia discors, si muovono nel solco di questa intrinseca correlazione: E. Castoriadis, L’istituzione immaginaria della società, Bollati Boringhieri, Torino 1995; P. Barcellona,(ed.), Nuove frontiere del diritto.Dialoghi su giustizia e verità, Dedalo, Bari 2001. Cfr. R. Ronchi, Filosofia della comunicazione, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[13]STh II-II q 90. Cfr. G. Azzoni, La reciprocità delle Grazie: oltre l’antinomia di universale e particolare nell’idea di giustizia, in: F. Botturi – F. Totaro, (edd.), La reciprocità delle Grazie: oltre l’antinomia di universale e particolare nell’idea di giustizia, Vita e Pensiero, Milano 2006, 35-55.
[14] A. Andronico, Viaggio al termine del diritto. Saggio sulla governance, Giappichelli, Torino 2012.
[15] P. Barcellona, Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice all’edonismo cognitivo, Dedalo, Bari 2005; A. Izzo – I. Strazzeri, Edonismo tragico. Aporia di un concetto sociologico, Progredit, Bari 2013.
[16] Rivisitazioni dei luoghi comuni accumulati nella storia degli effetti ermeneutici: N. Reali Lutero e il diritto. Certezza della fede e istituzioni ecclesiali, Marcianum, Venezia 2017; G. Angelini, La libertà a rischio. Idee moderne e radici bibliche, Queriniana, Brescia 2017.
[17] G. Angelini, Teologia morale fondamentale, Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999, 254-293 (Mosé); 429-464 (Gesù); 511-535 (Paolo).
[18]L’equivoco dell’interpretazione della libertà dalla (lettera della) legge come liberazione dall’etica (dello spirito) della legge compare già all’inizio: “Chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne” (5, 13).
[19] C. Furlanetto, Economie del desiderio. Legge e desiderio nella psicanalisi freudiana dopo Lacan: riflessioni a partire da G. B. Contri, J. Derrida e M. Foucault, (Diss.), Università degli Studi di Trieste, 2012. Cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2016; R. Gaboardi, “Un Dio a parte”. L’Altro? Jacques Lacan e la teologia, presentazione di P. Sequeri, postfazione di M. T. Maiocchi, Vita e Pensiero, Milano 2017.
[20] A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto, Bruno Mondadori, Milano 2006.
[21] Cfr. B. Montanari, (Ed.), Antropologia della giustizia (a partire da P. Sequeri), “Teoria e critica della ragione sociale”, Mimesis, Udine-Milano 2014. Cfr.: P. Sequeri, Diritto e teologia. Congetture e ritrattazioni, “Jus”, 2013/2, 183-199; ID., Deontologia del fondamento, Giappichelli, Torino 2017.
[22]F. Viola, Identità e comunità. Il senso morale della politica, Vita e Pensiero, Milano 1999; E. Resta, Il diritto fraterno, Laterza, Roma-Bari 2005; A. Marzanati – A. Mattioni, (edd.), La fraternità come principio del diritto pubblico, Città Nuova, Roma 2007; G. Bombelli, Occidente e ‘figure’ comunitarie, Jovene, Napoli 2010; P. Donati – R. Solci, I beni relazionali. Che cosa sono e quali effetti producono, Bollati Boringhieri, Torino 2011; A. M. BAGGIO, Caino e i suoi fratelli. Il fondamento relazionale nella politica e nel diritto, Città Nuova, Roma 2012.
[23] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano 2009; ID., La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano 2012.
[24] S. Zamagni – M. Nicoletti – F. D’Agostino, Persona e politica. Per la costruzione di un nuovo ethos, Pazzini, Rimini 2007; G. Mauri – G. Sbardella, (edd.) Personalismo oggi. La persona nell’era della biopolitica e del capitalismo tecnonichilista, Effatà, Torino 2009; G. Limone, Persona e memoria. Oltre la maschera: il compito del pensare come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soverìa Mannelli 2017.