Abstract

Pubblichiamo l’introduzione al Focus scelto per questo fascicolo e firmato dal Segreterio Centrale dell’UGCI il Prof. Fabio Macioce, oggetto del  LXVII Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani svoltosi a Roma il 9 e 10 dicembre 2017, ed intitolato: “Lo spirito e la lettera della legge, oggi”.

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La lettera e lo spirito della legge: presentazione del Focus

Fabio Macioce

I testi che presentiamo in questa sezione della rivista sono stati discussi in occasione del Convegno Nazionale di studio dell’UGCI, nel dicembre del 2017, dedicato ad un tema centrale per la scienza giuridica, e tuttavia spesso non adeguatamente tematizzato: il rapporto fra la lettera e lo spirito della legge.

Ora, non v’è giurista (cattolico, ma non solo, perché vi sono parole che penetrano nella cultura e la formano) che non ricordi il detto evangelico: «La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica». Certo, il contesto in cui sono dette queste parole è altro da quello strettamente giuridico, ed è legato, in chi ascolta, tanto alle polemiche con i farisei, quanto all’idea di una nuova Alleanza fondata non già su un testo di legge (come sul Sinai) ma scritta nei cuori e stabilita sullo Spirito Santo. E tuttavia, il messaggio è penetrato con forza nella cultura occidentale, mettendo al centro di essa il contrasto fra una lettera che limita, irrigidisce e chiude, e uno spirito che apre e consente uno spazio di libertà: in tutti i campi dell’esperienza umana, non solo in quello teologico, o spirituale, o ecclesiale. Questo precetto evangelico, insomma, ha avuto una forza paradigmatica immensa, ponendosi come struttura epistemologica fondamentale ben al di là dell’ambito – quello religioso – nel quale era stato enunciato da principio.

Ma cosa significa, per i giuristi, che la lettera uccide e lo spirito vivifica? Il nesso fra lettera e spirito della legge, oggi come può essere correttamente inteso? In che modo quel paradigma oppositivo (se pur non contraddittorio) fra lettera e spirito, per il quale ogni cristiano sa che la lex nova consiste nella grazia effusa dallo Spirito Santo, e che a nulla giova obbedire formalisticamente alla lettera della legge, può essere tradotto nell’esperienza del giurista?

Certo, può dirsi ormai acquisita alla cultura giuridica l’idea che il giudice non sia un mero, e passivo, applicatone di norme, il cui unico compito sia quello di procedere ad una ricognizione del significato nascosto dietro la lettera del testo normativo. E che pertanto la sua opera, così come quella di ogni giurista, non sia riducibile alla semplice chiarificazione del significato implicito negli enunciati normativi, operando piuttosto per attribuire ad essi un significato, e producendo in tal modo norme congiuntamente al legislatore. Tuttavia, il contrasto fra lettera e spirito non si esaurisce in questo, o non necessariamente.

Non è insomma solo il passaggio fra segno e significato, fra testo e messaggio, che rileva in questa prospettiva, quanto piuttosto la definizione dell’orizzonte all’interno del quale si deve muovere il giurista, e degli obiettivi della sua azione. Nessuno, come detto, nega il ruolo interpretativo del giurista, al giorno d’oggi: ma per molti tale ruolo si riduce all’ambito dell’analisi e della comprensione linguistica, nell’idea che al di là del linguaggio non vi sia nulla, se non un pensiero fatto di parole, e riducibile ad esse. Interpretare, in questo senso, significa dare alle parole il loro significato più proprio, o più adeguato, e chiarirlo ove esso sia oscuro. Neppure l’analisi della ratio iuris, o della intenzione del legislatore, esce da queste strettoie, così come l’analisi sistematica. Tutti questi pur utilissimi strumenti interpretativi restano all’interno della logica, dell’analisi linguistica, ovvero nell’analisi di quel particolare tipo di testi che sono i testi normativi: con questi strumenti, l’interprete resta vincolato al testo, se pure in connessione con altri testi (normativi o giurisprudenziali), e con l’intenzione e gli obiettivi politici che in quei testi si sono cristallizzati.

Il richiamo allo spirito, per il giurista, deve perciò implicare il riferimento ad un’altra dimensione: alla dimensione dello jus, che del diritto positivo potrebbe rappresentare davvero la Ragione, lo spirito, ciò che rende le norme vive. I giuristi, compiendo il Passaggio dalla lettera (della legge) allo spirito (del diritto), si fanno artefici di quel Kampf um’s Recht che Jhering ha indicato come loro orizzonte d’azione; cercando lo spirito del diritto, i giuristi operano perché la legge, nella sua dimensione inevitabilmente letterale, si faccia luogo della giustizia, che – come lo Spirito nel Vangelo – vivifica.

Ecco perché, con molta lungimiranza, nei paesi anglosassoni, i giudici sono designati con il termine Justice: per ricordare a tutti e a loro stessi in prima battuta, che compito del giurista è andare oltre la lettera, e cogliere lo spirito del diritto. Coglierne il senso, certamente, ma non in modo puramente linguistico, o storico, o sistematico, perché tutte queste dimensioni non trascendono la lettera della legge, semplicemente la rendono più comprensibile e coerente; cogliere il senso delle norme significa far sì che in esse emerga lo spirito del diritto, la sua capacità di rendere giustizia all’essere umano, di dare un ordine di giustizia alle relazioni umane.

Questo, per i giuristi, significa non fermarsi alla lettera del testo, che uccide, ma cercare di coglierne lo spirito. Come ciò si possa fare, ovviamente, è tutt’altro che facile da capire. Ed è la domanda alla quale, nei diversi ambiti dell’esperienza giuridica, gli autori dei testi che seguono cercano di rispondere.