La lettera e lo spirito della legge, oggi. L’esperienza del diritto canonico
Francesco Coccopalmerio
Per tentare di svolgere con efficacia il complesso tema in argomento, credo sia necessario partire da qualche riflessione relativa al concetto di diritto. Pertanto l’attuale relazione sarà divisa in due momenti: I. La persona, il diritto, il dovere e la legge; II. Lo spirito della legge e la lettera della legge.
I. La persona, il diritto, il dovere e la legge
Vogliamo lasciarci guidare, nella riflessione sulla identità del diritto, dal Beato Antonio Rosmini, il quale compendia il suo geniale pensiero nella straordinaria espressione: “La persona è il diritto sussistente”.
Per Rosmini, persona e diritto sono realtà coincidenti. Di conseguenza, conoscere la persona significa conoscere il diritto.
Dobbiamo, però, specificare o dettagliare questa affermazione. E, in effetti, per conoscere la persona e quindi il diritto, dobbiamo conoscere, in modo congiunto, quattro elementi: la persona, il diritto, il dovere, la legge. E dobbiamo conoscerli in successione logica per il semplice motivo che un elemento determina e spiega l’altro: la persona determina e spiega il diritto; la persona e il diritto determinano e spiegano il dovere; la persona, il diritto e il dovere determinano e spiegano la legge.
In altre parole, ci troviamo in presenza di una catena concettuale: a partire dalla persona fino alla legge, dalla concezione corretta di ciascun elemento è determinata la concezione corretta di ciascun altro.
Procediamo ora, in estrema concisione, all’esame dei quattro elementi che abbiamo sopra indicati.
1. Al fine di conoscere la persona e di conoscere, in dipendenza dalla stessa, il diritto, il dovere e la legge, appare opportuno considerare la persona, da una parte, come realtà, ovviamente, unitaria, ma, dall’altra, come realtà non monolitica.
a) E, in effetti, esaminando la persona nella sua struttura intima, per dire così molecolare, possiamo facilmente scoprire che essa ha in sé molteplici realtà personali, molteplici beni personali.
Alcuni beni sono già, sono attualmente, nella dotazione della persona (pensiamo, ad esempio, al bene personale della vita fisica, al bene personale della buona fama). Altri beni, sono, invece, in ulteriore acquisizione, sono, anzi, in continua acquisizione da parte della persona (pensiamo, ad esempio, al bene degli alimenti, al bene delle conoscenze provenienti dalla istruzione).
Questi beni personali compongono o strutturano la persona, o attualmente o in futuro, per cui possiamo dire che almeno in qualche modo sono la persona stessa.
Da qui deriva l’ovvia constatazione che i suddetti beni personali sono necessari alla persona e lo sono di necessità vitale o per la sua esistenza o per la sua sussistenza.
Da qui, poi, deriva l’ulteriore ovvia constatazione che la persona ha la duplice esigenza, cioè la duplice necessità vitale, di conservare i beni in dotazione e di ottenere i beni in acquisizione.
Se ora – come naturale – collochiamo la persona nell’ambito comunitario, quindi tra altre persone compresenti nella medesima comunità, nascono in modo immediato due ulteriori esigenze, due ulteriori necessità vitali. Una in capo alla persona titolare dei beni e una in capo alle altre persone nella comunità.
In capo alla persona titolare dei beni nasce la ulteriore duplice esigenza di ricevere da tutte le persone compresenti nella medesima comunità l’astensione da lesioni dei beni in dotazione e di ricevere da certe persone il conferimento dei beni in acquisizione. In altre parole, l’esigenza di ricevere rispetto e incremento.
E in capo alle altre persone in modo del tutto corrispondente nasce la duplice esigenza di rispettare i beni in dotazione e di conferire quelli in acquisizione. In altre parole, l’esigenza di dare rispetto e incremento.
b) Ripensando ora globalmente quanto sopra affermato, l’attenzione si orienta, quasi spontaneamente, all’ontologia della persona, per cui rileggiamo il tutto alla luce di tale aspetto.
Assumiamo di ontologia un concetto elementare per cui chiamiamo realtà ontologica la realtà esistente in sé e perciò non causata da alcuna intenzionalità umana.
Facciamo un’affermazione di partenza: la persona è costituita dai suoi beni personali e la persona con i beni personali è realtà ontologica, quindi esistente in sé e perciò non causata da alcuna intenzionalità umana. Ciò comporta che l’intelligenza e la volontà possono soltanto conoscere e quindi accettare la persona come previamente esistente alla stessa intelligenza e volontà.
2. Con quanto detto, siamo giunti al secondo anello della catena logica e cioè al diritto.
a) Mi pare importante rilevare subito la relazione che intercorre in modo necessario tra la struttura della persona e il concetto di diritto: è la struttura della persona che determina il concetto di diritto.
E, in effetti, abbiamo affermato che la persona ha la duplice esigenza, la duplice necessità vitale, di ricevere da tutte le persone compresenti nella medesima comunità l’astensione da lesioni, cioè il rispetto, dei beni già in dotazione e di ricevere da certe persone il conferimento, quindi l’incremento, dei beni in ulteriore acquisizione.
A questo punto, possiamo affermare che il diritto è esattamente la predetta duplice esigenza, la duplice necessità vitale, di ricevere l’astensione da lesioni, cioè il rispetto, dei beni già in dotazione e di ricevere il conferimento, quindi l’incremento, dei beni in ulteriore acquisizione.
Orbene, notiamo facilmente che il diritto così inteso è una condizione della persona o, meglio ancora, è la persona stessa che si trova in questa condizione, che ha in sé questa condizione, ha in sé la esigenza, cioè la necessità vitale, di ricevere rispetto e incremento dei suoi beni personali.
Viene spontaneo il ricorso a un paragone che ci aiuta a capire, direi in modo plastico e soprattutto in modo emozionale, che cosa sia il diritto: il paragone con la fame e con la sete.
E, in effetti, la fame o la sete sono la necessità vitale di avere cibo o bevanda e sono una condizione della persona o sono la persona stessa che si trova in questa condizione, che ha questa sensazione, che ha fame o sete.
Da quanto detto sopra deriva la soddisfacente comprensione e al contempo la convinta approvazione della sintesi di Antonio Rosmini: se, infatti, il diritto è una condizione della persona o è la persona stessa che si trova in questa condizione, che ha in sé questa condizione, è allora di immediata evidenza che la persona si identifica con questa sua condizione o, in altre parole, si identifica con la sua esigenza di ricevere rispetto e incremento, quindi si identifica con il suo diritto, è il suo diritto, per cui risulta pienamente giustificato affermare che la persona è il diritto.
È facile notare che l’insieme dei beni personali e dei diritti con questi connessi costituisce la ontologia della persona sotto il profilo giuridico.
b) Tenendo ora in considerazione quanto appena affermato, il discorso anche qui si sposta sull’ontologia del diritto.
E, in effetti, se il diritto, inteso come esigenza, come necessità vitale di ricevere rispetto e incremento dei propri beni personali, è una condizione della persona o è la persona stessa che si trova in questa condizione, che ha in sé questa condizione, paragonabile a una fame o a una sete, risulta, allora, assolutamente chiaro che il diritto partecipa all’ ontologia della persona, ha, in altre parole, la medesima ontologia della persona, verificandosi anche qui la particolare forza di significato della sintesi di Antonio Rosmini: la persona è il diritto sussistente, cioè il diritto ontologico.
3. Il terzo anello della catena logica è il dovere.
a) Anche qui, mi pare importante rilevare subito la relazione che intercorre in modo necessario tra la persona e il diritto, da un parte, e il concetto di dovere, dell’altra.
E, in effetti, anche qui, ricordiamo quanto detto illustrando la struttura della persona e il conseguente concetto di diritto: la duplice esigenza della persona di ricevere rispetto e incremento dei suoi beni personali determina nelle altre persone compresenti nella medesima comunità la corrispondente duplice esigenza di rispettare i beni in dotazione e di conferire i beni in acquisizione.
Anche qui, possiamo affermare che il dovere è esattamente la predetta duplice esigenza di rispettare i beni in dotazione e di conferire quelli ulteriori.
Per tale motivo, diciamo subito, e con piena convinzione, che possiamo capire il dovere solo in relazione al diritto, solo partendo dal diritto.
Diritto e dovere sono tra loro in essenziale relazione, che possiamo efficacemente specificare come successione logica: il diritto viene prima, il dovere viene dopo. In questo preciso senso: il diritto determina il dovere. E ciò avviene per quanto concerne sia la realtà sia l’intenzionalità.
Per quanto concerne la realtà, il diritto determina sia l’esistenza del dovere sia le modalità del dovere. E, in effetti, rileviamo con immediatezza che dove c’è un diritto, lì c’è un dovere; dove c’è un diritto di ricevere rispetto, lì c’è un dovere di dare rispetto; dove c’è un diritto di ricevere conferimenti, lì c’è un dovere di attuare conferimenti.
Per quanto concerne la intenzionalità, il diritto determina sia la conoscenza del dovere sia la accettazione del dovere. E, in effetti, constatiamo facilmente che di fronte alla persona titolare del diritto e alla sua duplice esigenza di ricevere rispetto e conferimenti, la persona titolare del dovere reagisce in due momenti o compie due atti.
In un primo momento, la persona compie un atto di intelligenza, con il quale conosce l’esistenza di un diritto dell’altra persona e in perfetta conseguenza logica conosce il dovere corrispondente, cioè il proprio dovere.
In un secondo momento, la persona compie un atto di volontà, con il quale accetta il proprio dovere.
b) Da quanto detto possiamo rilevare che il dovere è una risposta, è la risposta di una persona al diritto di un’altra persona, all’appello di un’altra persona. E poiché tale risposta consiste – come sappiamo – nel dare rispetto e conferimenti cioè nel compiere atti che apportano un bene a una persona e sono, quindi, atti di amore, possiamo rilevare che il dovere è espressione di amore, è risposta di amore.
Possiamo usare una formula sintetica, un po’ a effetto: il diritto chiama e il dovere risponde, il diritto chiede amore e il dovere dà amore.
Immediata si presenta alla memoria una celebre pagina della Bibbia e cioè quella che ci tramanda la parabola del buon Samaritano, nella quale ritroviamo facilmente gli elementi che abbiamo indicati presentando il concetto di dovere: e, in effetti, il buon Samaritano si imbatte nella vittima dei briganti, sa perfettamente che il poveretto ha necessità vitale, ha esigenza, ha diritto, di ricevere il conferimento di quei beni che gli permetteranno di sopravvivere, conosce di conseguenza il suo dovere di portare soccorso e decide pertanto di rispondere a questo appello di aiuto, conferendo cure immediate e il successivo trasporto in alloggio.
4. E siamo arrivati al quarto anello della catena logica e cioè alla legge.
a) Abbiamo affermato poco sopra che il diritto determina il dovere nel duplice senso che, da una parte, l’esistenza del diritto determina l’esistenza del dovere e, dall’altra, la conoscenza del diritto determina la conoscenza del dovere e quindi l’accettazione del dovere.
Tale consequenzialità, ontologica e intenzionale, tra diritto e dovere vale anche per l’opera del legislatore.
Possiamo infatti rilevare che il legislatore nella statuizione della legge si muove in due momenti o compie due atti.
In un primo momento, compie un atto di intelligenza, nel quale conosce l’esistenza di un diritto e in perfetta conseguenza logica conosce il dovere corrispondente.
In un secondo momento, compie un atto di volontà, con il quale, da un lato, assume il predetto dovere e, dall’altro, formula e presenta il dovere come un proprio comando.
Nel percorso di statuizione della legge è innanzitutto da rilevare consequenzialità tra i due atti posti in essere dal legislatore. L’atto di intelligenza precede e determina l’atto di volontà: se il legislatore conosce, e solo se conosce, quali sono i diritti e quali i doveri conseguenti, può statuire una legge nella quale indica i diritti e i doveri previamente conosciuti e al contempo comanda l’adempimento dei doveri. Ancora più precisamente: se il legislatore conosce, e solo se conosce, quali siano i beni personali da conservare o da ottenere e quali siano i diritti e i doveri corrispondenti di ricevere e di dare rispetto o conferimento dei suddetti beni, può statuire una legge.
Il diritto che determina il dovere è con formula tradizionale denominato “ratio legis”. In altre parole, la “ratio legis” è il motivo del dovere contenuto in una certa legge. O, ancora, è il motivo che ha determinato il legislatore a indicare un certo dovere nella statuizione di una determinata legge. Intendendo sempre un dovere come risposta a un diritto.
b) Il duplice atto del legislatore che abbiamo sopra delineato – conoscenza dell’esistenza di un diritto e statuizione di un dovere conseguente – ci consente ora di entrare – diciamo così – nel sacrario della legge, ci permette cioè di conoscerne il cuore.
E, in effetti, se è vero che legislatore, nel processo di statuizione della legge, conosce l’esistenza di un diritto e statuisce un dovere conseguente, ciò significa che la legge contiene un dovere e un diritto, un dovere determinato da un diritto.
Possiamo affermare che la legge si identifica con tale dovere. In realtà ogni legge, anche la più complessa, contiene in definitiva un dovere e potrebbe sintetizzarsi o compendiarsi nel dovere in essa contenuto.
Per tale motivo, dire “legge” oppure dire “dovere contenuto nella legge” è la medesima cosa, così che la prima espressione appare una brachilogia della seconda.
Da questo deriva che il significato e il valore del dovere determinano direttamente il significato e il valore della legge che concretamente contiene tale dovere.
A propria volta ciò significa che il postulato ermeneutico fondamentale per capire e valutare la legge è di conoscere e valutare il dovere contenuto nella stessa.
E questo rende necessario rimeditare ciò che del dovere nelle pagine precedenti abbiamo affermato: il dovere è da considerarsi come risposta a un diritto, come espressione di amore, come risposta di amore.
Non diversamente, anche la legge deve considerarsi come risposta a un diritto, come risposta di amore.
Detto a “contrariis”: qualora una legge – come purtroppo può avvenire – non contenesse un dovere con le caratteristiche appena richiamate, non sarebbe una legge.
Ciò corrisponde al pensiero di Paolo sul rapporto che intercorre tra il dovere e l’amore e quindi la legge: “Infatti (i vari doveri): non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai’’, e qualsiasi altro comandamento (in altre parole – diremmo noi in linguaggio tecnico – non ledere i beni in dotazione o conferire beni ulteriori) si ricapitola in queste parole: ‘’Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità’’ (Rm 13, 9-10); “mediante l’amore siate … a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Gal 5, 13-14).
II. Lo spirito della legge e la lettera della legge
Esperita la presentazione, assolutamente sintetica, della catena concettuale che collega tra sé persona, diritto, dovere e legge, credo sia possibile formulare qualche riflessione sul complesso problema della lettera e dello spirito della legge.
1. Possiamo iniziare il discorso tentando di offrire una descrizione di spirito della legge e di lettera della legge, descrizione del tutto personale, che per tale ovvio motivo prescinde volutamente e comodamente da tanti e complessi aspetti, ma che possa – come mi auguro – favorire una ulteriore riflessione sul nostro difficile argomento.
a) Vogliamo, in primo luogo, offrire un aliquale concetto o almeno alcune indicazioni che servano per arrivare a un concetto di spirito della legge e di lettera della legge.
Lo spirito della legge, a nostro giudizio, coincide con il dovere contenuto nella legge.
Il dovere, però, inteso in modo veritativo, inteso, cioè, come terzo anello di quella catena logica, che parte dalla persona nella sua ontologia, passa per il diritto e arriva al dovere. Il dovere, quindi, come conseguente a un diritto connesso con la ontologia della persona. Il dovere, in definitiva, come risposta a tale diritto. Il dovere così inteso è il contenuto della legge ed è lo spirito della legge.
In questo senso, lo spirito della legge, è la “ratio legis”, è appunto un dovere come risposta a un diritto ed è pertanto il motivo che ha determinato il legislatore a indicare un dovere nella statuizione di una legge.
La lettera della legge è, invece, quello che il legislatore ha, di fatto, conosciuto del dovere, quello, cioè, che il legislatore ha, di fatto, conosciuto della persona nella sua ontologia con i diritti connessi e con i doveri conseguenti e quello che ha, in definitiva, indicato del dovere nella statuizione della legge.
Diciamo, allora, che lo spirito della legge è qualcosa di oggettivo perché dipende dalla persona nella sua ontologia, mentre la lettera della legge è qualcosa di soggettivo perché è opera del legislatore e perciò dipende dal legislatore e precisamente dalla sua intenzionalità, cioè dalla conoscenza che legislatore ha dell’ontologia della persona.
b) Possiamo, a questo punto, esaminare la relazione reciproca tra spirito della legge e lettera della legge.
Tale relazione consiste in una corrispondenza o in una non corrispondenza, in una “adaequatio” o in una non “adaequatio” tra la lettera della legge e lo spirito della legge.
La corrispondenza, la “adaequatio”, della lettera della legge con lo spirito della legge si verifica per il motivo che la lettera della legge esprime con verità e con adeguatezza un dovere conseguente a un diritto connesso con la ontologia della persona.
La non corrispondenza, la non “adaequatio”, tra la lettera della legge e lo spirito della legge può verificarsi, e spesso si verifica, quando lo spirito della legge è eccedente relativamente alla lettera della legge, nel senso che lo spirito della legge è più ampio o più esteso che non la lettera della legge, così che questa non riesce – diciamo così – a contenere il dovere, è un recipiente con dimensioni limitate.
La suddetta non corrispondenza mi pare possa configurarsi almeno in due tipologie.
La prima si verifica nel caso in cui la lettera della legge esprime con verità, senza, però, una sufficiente adeguatezza, un dovere conseguente a un diritto connesso con la ontologia della persona, nel senso che esprime tale dovere solo imperfettamente o solo in parte, in modo, quindi, non adeguato.
Ciò dipende dal fatto che legislatore conosce con verità la ontologia della persona e, quindi, il diritto e il dovere, conosce, però, tutto questo solo imperfettamente o solo in parte, in modo, appunto, non adeguato.
Un esempio elementare di legge nella tipologia sopra indicata: i figli hanno il diritto di ricevere dai loro genitori la educazione e la istruzione e per tale motivo i genitori hanno il dovere di conferire ai loro figli le nozioni necessarie per leggere e scrivere. È evidente che la lettera della legge esprime con verità il dovere dell’istruzione, però esprime tale dovere in modo assai limitato e quindi non adeguato.
La seconda tipologia si verifica quando la lettera della legge esprime con verità un dovere conseguente a un diritto connesso con la ontologia della persona, non considera, però, situazioni diverse o nuove relativamente a quelle indicate nella lettera della legge stessa.
Ciò dipende dal fatto che il legislatore non conosce, né facilmente lo potrebbe, l’ontologia della persona particolare o eccezionale e per tale motivo non conosce situazioni di persone, luoghi e tempi diverse da quelle da lui conosciute e indicate nella legge.
Esempio, ancora elementare, di legge nella seconda tipologia appena sopra indicata: I figli hanno il diritto di ricevere dai loro genitori i beni che sono necessari per la conservazione e lo sviluppo della vita e perciò i genitori hanno il dovere di dare ai figli quanto è necessario per la loro nutrizione giornaliera, cioè il cibo e le bevande. Oggi, però, uno dei figli è malato e potrebbe morire di tale malattia. Ha perciò il diritto di ricevere dai suoi genitori quanto è necessario per la conservazione della vita in condizioni di malattia, cioè una medicina. Tuttavia la lettera della legge, che indica il dovere dei genitori di conservare la vita dei figli dando a loro cibo e bevande, non considera la condizione di malattia e non indica il dovere di dare ai figli le medicine.
È, però, facile verificare che la “ratio” è la stessa: conservare la vita dei figli. E, dunque, non la lettera, bensì la “ratio legis”, cioè lo spirito della legge, indica il dovere dei genitori di dare ai figli le medicine.
Per quanto detto, possiamo ritenere che la non corrispondenza tra la lettera della legge e lo spirito della legge dipende dal legislatore e quindi dalla conoscenza che il legislatore ha dell’ontologia della persona, dei diritti connessi e dei doveri conseguenti.
2. Dopo aver esaminato il concetto e le relazioni reciproche tra lettera e spirito della legge, l’attenzione si orienta, in modo spontaneo, al legislatore canonico al fine di esaminare se tale legislatore abbia la possibilità di conoscere l’ontologia della persona e perciò di statuire leggi in cui possa verificarsi la corrispondenza tra la lettera e lo spirito.
a) Siamo in grado di affermare, senza particolari difficoltà, che il legislatore canonico ha la possibilità di conoscere la ontologia della persona e di conoscerla in modo adeguato.
Il motivo di tale affermazione è che l’autorità ecclesiale unisce in sé la potestà legislativa e quella magisteriale. Ed è esattamente in quanto titolare non soltanto della potestà legislativa, bensì al contempo di quella magisteriale che il legislatore canonico ha la capacità di leggere la ontologia e ha quindi la possibilità di conoscere la ontologia della persona.
E, precisando, il legislatore canonico ha la possibilità di conoscere la persona non soltanto nella sua condizione di persona nella Chiesa, bensì al contempo nella sua condizione di persona umana nella società civile.
Conosciuta la persona nella sua ontologia, il legislatore canonico formula delle norme: i canoni dei due Codici e altre molteplici norme a livello di Chiesa universale.
Ora, è chiaro che, formulando le suddette norme, il legislatore dichiara l’ontologia e in nessun modo la crea, essendo l’ontologia preesistente al legislatore.
A motivo di ciò, il legislatore canonico compie un atto non di legislazione, bensì di magistero oppure compie un atto che è formalmente di legislazione, ma è sostanzialmente di magistero. Molte norme canoniche sono mere dichiarazioni, puri atti di magistero, con cui il legislatore canonico dichiara l’ontologia della persona, i diritti connessi e i doveri conseguenti. Si può a tale riguardo vedere il Libro II del Codice di diritto canonico, particolarmente nei canoni iniziali.
In considerazione di quanto detto, mi pare che la recente dottrina sia intelligentemente arrivata a distinguere canoni con contenuto ontologico (evidentemente in toto o in parte) e per tale motivo atti di magistero, da canoni con contenuto positivo e quindi atti di legislazione intesa in senso proprio.
Abbiamo a questo riguardo un “proprium” del diritto canonico e quindi del legislatore canonico.
Il legislatore civile non ha, né potrebbe avere, la capacità di leggere l’ontologia allo stesso modo del legislatore canonico, non avendo, come ovvio, una potestà magisteriale. Tuttavia, la possibilità di conoscere la persona nella sua ontologia deve assolutamente valere anche per il legislatore civile, il quale dovrà quindi trovare le metodiche efficaci per arrivare a tale risultato.
b) Ammesso con sicurezza che il legislatore canonico ha la capacità di leggere l’ontologia e ha per tale motivo la possibilità di conoscere la persona, possiamo ora constatare, non senza interesse, che il legislatore canonico ha la capacità di leggere l’ontologia e ha quindi la possibilità di conoscere l’ontologia della persona, non soltanto, come ovvio, usando la ragione, ma anche, e peculiarmente, ascoltando la Rivelazione, attingendo specialmente dalla Sacra Scrittura.
E, invero, tutta la Rivelazione, in modo particolare la Sacra Scrittura, parla della persona, richiama i diritti connessi e indica i doveri conseguenti alla persona e a suoi diritti. Innumerevoli sono, pertanto, i passi che autorevolmente ne trattano, nel Primo e nel Nuovo Testamento. Si confrontino i grandi passi del Deuteronomio, di Isaia, di Geremia ed, evidentemente, del Nuovo Testamento, a cui il legislatore canonico può abbondantemente riferirsi
È evidente che quanto più il legislatore canonico indicherà nella legge un dovere che proviene dalla Sacra Scrittura, in modo particolare dal Vangelo, tanto più procurerà la adeguazione della lettera della legge allo spirito della legge: Le mie parole sono spirito e vita.
Anche qui abbiamo un “proprium” del diritto canonico e del legislatore canonico.
Il legislatore civile non ha, come ovvio, la possibilità di riferirsi, almeno direttamente, alle fonti della Rivelazione, anche se tali verità possono, almeno indirettamente, esercitare la loro influenza anche sul legislatore civile.
c) È evidente che il legislatore canonico può conoscere la persona anche nel tipo di ontologia che abbiamo denominato particolare o eccezionale.
E, in effetti, ricordiamo che la persona può trovarsi in condizioni particolari o eccezionali, sia interne alla persona sia esterne alla stessa, condizioni che costituiscono la persona in un tipo di ontologia particolare o eccezionale, con diritti connessi particolari o eccezionali.
Il legislatore ha la necessità di conoscere il più possibile queste particolarità dell’ontologia e i diritti connessi con tali particolarità, per l’ovvio motivo che solo così potrà conoscere i doveri conseguenti e indicarli nella legge.
A tale riguardo, notiamo immediatamente che la Chiesa cattolica è presente in tutti i luoghi e in tutte le culture per cui deve necessariamente rispondere a molte particolarità. D’altra parte, il diritto canonico espresso nei due Codici e nelle altre leggi universali non può considerare le particolarità dei vari ambiti.
Per questo motivo, il legislatore canonico a livello universale, cioè l’autore dei Codici del 1983 e del 1990, lascia ai legislatori di livello particolare, in modo particolare alle Conferenze episcopali, di valutare le particolarità di ciascun luogo e di ciascuna cultura e di venire incontro a tali esigenze con normative adeguate.
In più, si tenga presente che le Chiese cattoliche orientali, a differenza della Chiesa latina, sono molteplici e ciascuna di esse ha il dovere di statuire una propria legislazione particolare.
Sta di fatto che il diritto canonico va evolvendosi verso un sistema di normative particolari sempre più variegate, pur nel rispetto della normativa universale.
A me pare che anche nella struttura appena illustrata ritroviamo un “proprium” del diritto canonico e del legislatore canonico, che è composto da un legislatore universale e da legislatori particolari, costituenti così una rete di legislatori a livello mondiale.
I legislatori civili si collocano, invece, almeno attualmente, solo a livello di territori particolari.
Con quanto fin qui detto, abbiamo potuto constatare che il legislatore canonico ha la possibilità di conoscere la persona nella sua ontologia, perché ha la capacità di leggere l’ontologia stessa e può ricavare i dati, non solo dalla ragione, ma anche e specialmente dalla Rivelazione, in modo particolare dalla Sacra Scrittura.
Dobbiamo, per quanto detto, presumere che il legislatore canonico conosca in modo veritativo persona, diritti, doveri e indichi nella legge tali doveri. Dobbiamo, per tale motivo, presumere una buona corrispondenza tra la lettera e lo spirito della legge.
3. Dopo aver esaminato il concetto e le relazioni reciproche di lettera e spirito della legge e dopo aver precisato l’opera del legislatore canonico, mi pare ora necessario condurre qualche riflessione sul nostro rapporto con la legge.
E, in effetti, di fronte a qualsiasi legge siamo sempre chiamati a operare un attento discernimento, che ha precisamente lo scopo di enucleare dalla lettera della legge lo spirito della legge stessa, per esaminare se si verifichi una eventuale non corrispondenza tra lettera della legge e spirito della stessa e ciò nelle due tipologie indicate poco sopra: dobbiamo quindi vedere se la lettera della legge esprima il dovere in modo adeguato e vedere se la “ratio legis” possa essere applicata anche ad altre situazioni di per sé non previste nella lettera della legge stessa.
Tale ricerca è delicata e ci possiamo chiedere dove cercare luce così da arrivare a ottenere un adeguato e soddisfacente discernimento.
a) Per trovare una risposta dobbiamo ricordare – come detto poco sopra – che l’autorità ecclesiale unisce in sé la potestà legislativa e la potestà magisteriale. Per tale motivo, l’autorità ecclesiale può agire sia in fase legislativa sia in fase magisteriale.
L’autorità ecclesiale in fase legislativa, in altre parole il legislatore canonico, conosce l’ontologia della persona e quindi formula delle norme: i canoni dei due Codici e altre norme universali.
L’autorità ecclesiale in fase magisteriale conosce l’ontologia della persona e dichiara tale ontologia compiendo atti di magistero. E nel complesso degli interventi magisteriali, nel complesso della dottrina cristiana, il magistero della Chiesa ci illustra compiutamente l’identità del fedele cristiano con i suoi diritti e doveri.
È ovvio notare che gli atti dell’autorità ecclesiale che agisce in fase legislativa e quelli dell’autorità stessa che agisce in fase magisteriale, trovano collocazione in documenti distinti: i primi nei due Codici e in altre norme universali, i secondi in Costituzioni apostoliche o in Lettere encicliche o in documenti similari.
Risulta ora assolutamente rilevante porre l’attenzione su questo fatto peraltro ovvio: l’autorità ecclesiale che agisce in fase legislativa compiendo atti legislativi e l’autorità ecclesiale che agisce in fase magisteriale compiendo atti magisteriali, sono sempre e comunque la stessa autorità ecclesiale, il medesimo soggetto agente.
Ed è sempre e comunque la stessa autorità ecclesiale che produce sia documenti dottrinali sia documenti normativi, che promulga – per fare degli esempi – sia la Costituzione “Lumen gentium” sia il Codice di diritto canonico.
b) Da ciò deriva una possibilità ermeneutica di incalcolabile valore. E, in effetti, la unicità dell’autorità ecclesiale e quindi la unicità dell’autore sia della legislazione sia del magistero permette alla nostra conoscenza di non essere limitata al prodotto univoco della legislazione, ma le consente di venire estesa ai dati amplissimi del magistero.
Per tale fondato motivo, appare del tutto giustificato indagare se l’autorità ecclesiale in fase squisitamente magisteriale e quindi in documenti magisteriali abbia forse espresso una conoscenza dell’ontologia della persona più precisa e soddisfacente e possa quindi offrirci o almeno aiutarci ad acquisire una migliore conoscenza dello spirito della legge.
E, ancora ricordando quanto detto sopra, appare giustificato, per condurre l’indagine appena indicata, passare liberamente da documenti contenenti atti formalmente legislativi a documenti contenenti dati puramente magisteriali, passare, in altre parole, dal Codice di diritto canonico alla costituzione “Lumen gentium” o alla enciclica “Laudato si’” o alla esortazione apostolica “Evangelii gaudium”[1].
In quanto detto, notiamo con facilità un altro “proprium” del diritto canonico e una essenziale differenza dal diritto civile.
E, in effetti, il legislatore civile non potrebbe ragionevolmente riferirsi a una sorta di complesso dottrinale che non sia ovviamente il complesso dei testi legislativi corredato dall’insieme della dottrina, però puramente esegetica, dei relativi testi legislativi e non potrebbe avvalersi di documenti dottrinali che fossero diversi dai testi legislativi.
4. Presupposto globalmente quanto sopra, mi sembra ora interessante portare alla nostra attenzione alcuni casi in cui – almeno a mio giudizio – è possibile riscontrare una certa non corrispondenza tra lettera della legge e spirito della legge. Prendiamo tre esempi dal Codice di diritto canonico. Due di essi mi sembrano rappresentare la prima tipologia, sopra indicata, di non corrispondenza, nel senso che la lettera della legge esprime con verità e autenticità lo spirito della legge, però lo esprime in modo limitato e quindi solo imperfettamente o solo in parte. Un terzo esempio mi sembra riferibile alla seconda tipologia di non corrispondenza, nel senso che la lettera della legge non prende in considerazione situazioni diverse o nuove relativamente a quelle indicate nella lettera della legge stessa.
a) Il primo esempio, che ritengo utile portare all’attenzione come esempio di una certa non corrispondenza o non piena corrispondenza tra lettera della legge e spirito della legge mi sembra di ritrovare in due testi: i cann. 228, § 2 e 212, §3 da leggersi congiuntamente.
Il can. 228, § 2 così si esprime: “I laici che si distinguono per scienza adeguata, per prudenza e per onestà, sono abili a prestare aiuto ai Pastori della Chiesa come esperti o consiglieri, anche nei consigli a norma del diritto”[2].
A tale previsione corrisponde il canone 212, § 3, che così recita: “In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa…”[3].
I due testi appena citati esprimono la posizione che il legislatore canonico ha assunto nel Codice di diritto canonico nei confronti dei fedeli laici relativamente alla loro partecipazione con i sacri Pastori nel governo della Chiesa.
Orbene, i fedeli laici sono dichiarati capaci di collaborare con i sacri Pastori mediante i loro consigli nel compiere le molteplici attività necessarie per il governo della Chiesa (can. 228, § 3) e in modo coerente si afferma che, se i fedeli laici sono capaci di collaborare con i sacri Pastori nel governo della Chiesa, ciò significa che essi hanno nello stesso tempo anche il diritto e il dovere di esprimere ai sacri Pastori il loro parere su ciò che riguarda il bene della Chiesa (can. 212, § 3).
Ma, allora, perché il legislatore afferma che i fedeli laici hanno tale dovere solo “talvolta” (“aliquando”)? Se solo talvolta e quindi non sempre essi hanno il dovere di cooperare con i loro Pastori, ciò significa che i Pastori, almeno in certi casi, non avrebbero necessità di agire con la cooperazione dei laici. Ciò significa che il legislatore non avrebbe valutato in modo sufficientemente convinto la necessità vitale dei Pastori, cioè il loro diritto, di ricevere aiuto dai laici e quindi il dovere dei laici di dare aiuto ai Pastori, i quali, per tale motivo, potrebbero in certi casi agire senza i laici. La lettera della legge avrebbe dunque espresso l’ontologia dei Pastori e dei laici solo imperfettamente o solo in parte, in modo, quindi, non adeguato.
La riprova di tutto ciò possiamo facilmente ritrovare nella previsione relativa ai consigli pastorali, diocesani e parrocchiali, che non sono, almeno nella previsione del Codice, considerati strettamente obbligatori (cfr. cann. 511 e 536).
La aliquale insoddisfazione per la lettera della legge, rappresentata dal can. 212, § 3 in quell’ “aliquando”, ci porta a ricercare lo spirito della legge fuori dal contesto formalmente legislativo per trovarlo invece entro un contesto propriamente magisteriale. Tale operazione ermeneutica è resa possibile dal fatto che – come detto poco sopra – l’autorità ecclesiale, che unisce in sé la potestà legislativa e quella magisteriale, può esprimere le proprie indicazioni sia in fase formalmente legislativa sia in ambito propriamente magisteriale.
E, in effetti, leggendo attentamente la “Lumen gentium” al Capitolo IV intitolato “I laici” e almeno due dei documenti nei quali il magistero della Chiesa ci descrive più ampiamente l’ontologia dei fedeli laici e cioè “Apostolicam actuositatem” e “Christifideles laici”, troviamo con abbondanza elementi dottrinali che possono rappresentare lo spirito della legge[4] e farci concludere che quell’ “aliquando”, cioè la lettera della legge, potrebbe essere corretto secondo lo spirito della legge stessa.
E, dunque, lo spirito della legge spinge verso un completamento di ciò che la lettera della legge sembra, almeno per ora, non aver recepito.
Oggi, in modo particolare, la coscienza del dovere dei laici di partecipare con i loro consigli alle decisioni che i sacri Pastori prendono per il bene della Chiesa è notevolmente aumentata perché si esalta il principio della sinodalità.
b) Il secondo esempio, che mi pare utile portare all’attenzione e che mi pare rappresenti una non corrispondenza tra lettera della legge e spirito della legge, è costituito dal can. 222, § 2, che così recita: “(I fedeli) sono anche tenuti all’obbligo di promuovere la giustizia sociale, come pure, memori del comandamento del Signore, di soccorrere i poveri coi propri redditi”[5].
Vogliamo sottolineare le parole: “tenuti all’obbligo… memori del comandamento del Signore, di soccorrere i poveri”.
Dobbiamo riconoscere che la lettera della legge è, nel caso, assolutamente scarsa e richiede, perciò, di essere capita con più esattezza.
Mi pare che anche qui, come nel caso precedente, siamo fortemente invogliati a ricercare lo spirito della legge fuori dal contesto formalmente legislativo per ritrovarlo invece entro un contesto propriamente magisteriale.
Se, in effetti, il legislatore canonico afferma che è un comandamento del Signore quello di soccorrere i poveri, ciò equivale a riconoscere che egli ha attinto questo dato dalla Sacra Scrittura. Per tale evidente motivo, possiamo, anzi dobbiamo, uscire dal testo codiciale e accedere a testi scritturali.
Possiamo riferirci a vari luoghi, ma è particolarmente illuminante rileggere la straordinaria pagina di Matteo 25,31-46.
Gesù stesso, il legislatore divino, nella previsione grandiosa e tragica del giudizio alla fine dei tempi, istruisce e ammonisce i suoi discepoli: Ci sono persone – avverte Gesù – che sono prive di beni personali: il cibo, la bevanda, la abitazione, il vestito, la salute, la libertà. Pertanto queste persone hanno la necessità vitale, cioè hanno il diritto, di ricevere il conferimento dei beni predetti. E di conseguenza i discepoli di Gesù hanno la necessità vitale, cioè hanno il dovere, di conferire i beni stessi.
E notiamo con meraviglia che nel misterioso testo Gesù stesso si identifica con la persona dei vari bisognosi, così che il dovere di conferire loro i vari beni diventa un dovere verso Gesù.
I diritti e i doveri contenuti nel brano di Mt 25 sono stati in seguito recensiti e, direi, codificati, dalla riflessione orante dei fedeli e dallo stesso magistero della Chiesa, nelle quattordici opere di misericordia, divise al contempo in sette corporali e sette spirituali: dar da mangiare agli affamati… Certamente si tratta di doveri fondamentali dei discepoli di Gesù, dei christifideles.
Tanto è vero che di opere di misericordia parla, con una certa ampiezza, il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2447.
Se, a questo punto, dopo aver rivisitato l’eccezionale brano evangelico, ritorniamo alle parole del can. 222, § 2, rimaniamo, a dir poco, stupiti o quasi increduli di fronte alla avarizia del testo codiciale. Dove, mai, è finita la enorme ricchezza, cristologica ed ecclesiologica, del brano di Matteo? Dove è finito il molteplice e variegato dovere di dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, da abitare ai forestieri, da vestire ai nudi … E soprattutto servendo in loro la persona di Gesù stesso?
Tutto, nel Codice, viene compendiato, cioè ridotto e reso incomprensibile, nella vacua espressione: “soccorrere i poveri” (“pauperibus subveniendi”). Espressione vacua nel senso di vuota, nel senso, cioè, di priva del ricchissimo contenuto evangelico che abbiamo sopra richiamato. Le parole del canone potrebbero esprimere, questa volta in modo adeguato, il dovere di un adepto in una comunità umano-filantropica, ma sono assolutamente insufficienti e perciò del tutto inefficaci per esprimere il dovere del fedele cristiano, del seguace di Gesù.
Orbene, tali doveri dovrebbero essere contenuti nel Codice di diritto canonico, là dove, nel Libro II, Titolo I, reca il titolo: “Obbligazioni e diritti di tutti fedeli”. È appunto da lì che tutti dovrebbero conoscere quali sono i diritti e quali sono i doveri dei fedeli cristiani, dei discepoli di Gesù. E i doveri potrebbero, con felice formulazione, essere espressi con le opere di misericordia. Dobbiamo rilevare con schiettezza che il Codice di diritto canonico, nel nostro particolare caso, non si dimostra all’altezza del suo importantissimo servizio. Dobbiamo, anzi, riconoscere con disappunto che in questo caso la lettera della legge ha soffocato o ha, quasi, annientato lo spirito della legge. Non meravigliamoci poi della apatia o della antipatia di tanta parte dei fedeli nei confronti del diritto canonico, o di questo diritto canonico, insieme con il Codice che lo contiene.
Vogliamo, però, chiederci che cosa abbia determinato il legislatore canonico a non recensire le opere di misericordia (come invece fa il Catechismo della Chiesa Cattolica) e quindi a non trasformare le opere di misericordia in appositi canoni.
Non possiamo accettare una risposta peraltro ricorrente, però del tutto superficiale e per tale ragione sbrigativa, la quale consiste nel ritenere che certi comportamenti dei fedeli, come le opere di misericordia, siano doveri non giuridici, bensì morali. Il che non è vero, almeno per due motivi.
Il primo è che le opere di misericordia sono già qualificate dallo stesso legislatore canonico come doveri giuridici nelle laconiche, però inequivocabili, espressioni del can. 222, § 2: “tenuti all’obbligo… di soccorrere i poveri”.
Il secondo chiaro motivo è che le opere di misericordia sono comportamenti interpersonali, tra una persona che ha il diritto di ricevere un certo bene e una persona che ha il dovere di conferire il bene in questione. Come sarebbe concepibile di negare a tali comportamenti la qualifica di doveri giuridici?
Ripetiamo che tale qualifica è già data dallo stesso legislatore canonico nelle citate espressioni: “tenuti all’obbligo… di soccorrere i poveri”.
Però qualcuno potrebbe insistere facendo notare che i comportamenti in oggetto, le opere di misericordia, non sono sanzionabili da parte di un giudice ecclesiastico, né in giudizio contenzioso né in giudizio penale.
Si dimentica, però, che nella Chiesa e quindi nell’ordinamento canonico esiste non soltanto il giudice di foro esterno, bensì nello stesso tempo il giudice di foro interno, in altre parole, il confessore.
Ora, in foro interno il confessore può sanzionare con le sue autorevoli ammonizioni certi comportamenti dei fedeli indicandone il dovere anche grave. E la infrazione di un dovere grave significa peccato grave, cui consegue “latae sententiae” la pena della esclusione dal sacramento dell’Eucaristia.
Tutto considerato, lo spirito della legge dovrebbe convincere legislatore canonico a uscire dalle strette del can. 222, § 2 e inserire nel Libro II, Titolo I: “Obblighi e diritti dei fedeli laici”, le opere di misericordia come doveri fondamentali di tutti i christifideles.
E aggiungiamo, per dire schiettamente la verità, che non si riesce a capire perché si sia instaurata e perché tuttora permanga una dualità di documenti della Chiesa universale come, da una parte, il Codice di diritto canonico e, dall’altra, il Catechismo della Chiesa cattolica, entrambi per indicare ai fedeli la loro identità, i loro diritti e i loro doveri. Non sarebbe più comprensibile che ci fosse a tale riguardo un solo documento ecclesiale? A meno di pensare che il Codice di diritto canonico contenga l’indicazione dei diritti e dei doveri dei fedeli, mentre, in aggiunta, il Catechismo della Chiesa cattolica offra una esplicitazione, appunto catechistica, di tali realtà.
c) Il terzo esempio, che mi pare utile portare all’attenzione è il can. 1399, l’ultimo del Libro VI dedicato al diritto penale, che così recita: “Oltre i casi stabiliti da questa o da altre leggi, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con giusta pena, solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli scandali”[6].
Che cosa afferma il citato testo? Afferma che, oltre alle azioni gravemente negative, cioè oltre ai delitti, e oltre alle pene stabilite in conseguenza di tali azioni, ci sono altre azioni che possono essere considerate come gravemente negative e c’è la possibilità che tali azioni abbiano come conseguenza la inflizione di pene canoniche.
Vediamo però di capire meglio questo caso speciale mediante una scaletta logica.
L’azione gravemente negativa causa vari danni, tra cui soprattutto lo scandalo.
La “ratio legis” del diritto penale è soprattutto la riparazione dello scandalo mediante la inflizione di una pena da intendersi come conseguenza di una azione gravemente negativa.
Le azioni gravemente negative insieme con le pene conseguenti sono puntualmente indicate negli attuali canoni penali contenuti nel Libro VI del Codice di diritto canonico.
Dunque, la “ratio legis”, cioè lo spirito della legge del diritto penale canonico è la riparazione dello scandalo mediante la inflizione di una pena, mentre la lettera della legge sono i canoni penali contenuti nel Libro VI.
Abbiamo perciò coincidenza tra lettera e spirito della legge.
Ci sono, però, altre azioni gravemente negative che causano scandalo e che richiedono di per sé uguale riparazione, di modo tale che potrebbero avere come conseguenza l’inflizione di una pena.
Ma – ecco il punto – queste altre azioni e queste altre pene non sono recensite negli attuali canoni penali, cioè nella lettera della legge.
Abbiamo, perciò, una non corrispondenza tra la lettera della legge e lo spirito della legge.
Il can. 1399 vuole, pertanto, correggere la non corrispondenza e applicare la “ratio legis”, cioè lo spirito della legge, anche ad altre azioni da considerarsi gravemente negative. E notiamo che in questo caso lo stesso legislatore canonico ci esorta a non fermarci nel considerare la lettera della legge, ma ci invita a coglierne lo spirito.
Tale previsione codiciale (che – si noti bene – era già contenuta nel Codice di diritto canonico del 1917 can. 2222, § 1 e quindi gode di una certa stabilità, segno di importanza agli occhi del legislatore) ha suscitato reazioni, ha fatto gridare allo scandalo: La Chiesa cattolica non osserva un principio ormai acquisito da tutte le legislazioni moderne, quello della legalità della pena, che così solennemente sancisce: “nullum crimen, nulla poena sine lege”.
Occorre, dunque, esaminare con calma la delicata questione.
In primo luogo, dobbiamo chiederci come intendere con esattezza il principio della legalità della pena contenuto nella riferita sintesi: “nullum crimen, nulla poena sine lege”.
Il principio contiene due elementi o severi moniti: una certa azione non può essere considerata come gravemente negativa, appunto come crimine, senza che ci sia una legge che la dichiari come tale; una determinata pena non può esistere né ovviamente può essere inflitta come conseguenza di un’azione gravemente negativa senza che ci sia una legge che la sancisca come tale.
Tutto, dunque, dipende dalla legge, che, da una parte, dichiara una certa azione come gravemente negativa e statuisce una determinata pena come conseguenza della azione, mentre, dall’altra, fa conoscere a tutti sia l’azione negativa sia la pena conseguente.
E, forse, è soprattutto la necessità che delitti e pene siano previamente conosciuti che rende così importante il principio della legalità della pena. Non sarebbe, infatti, giustificabile considerare responsabile di un delitto una persona che non conoscesse che l’azione da lei commessa è, appunto, un delitto. Né sarebbe, soprattutto, giustificabile infliggere alla persona una sanzione penale.
A questo punto, se rimeditiamo il misterioso can. 1399, avvertiamo con immediata evidenza che altri delitti e altre pene previsti dal testo come possibili non sono sanciti perché mancano canoni a ciò appositamente dedicati. Per tale motivo, questi ipotetici altri delitti con le pene conseguenti non sono dalla lettera della legge portati a conoscenza degli interessati, cioè dei christifideles. E, in questo senso, si può giustamente gridare che non è rispettato il principio della legalità della pena, perché – giova ripeterlo – le azioni gravemente negative e le sanzioni penali conseguenti non sono conosciute in assenza di una legge che le sancisca e le dichiari.
Ma non è così. Per arrivare a una soluzione, siamo fortemente indirizzati, ancora una volta, a cercare lo spirito della legge fuori dal contesto formalmente legislativo per ritrovarlo invece entro un contesto propriamente magisteriale. E, in effetti, come notato nelle pagine precedenti, i doveri fondamentali dei christifideles possono essere dichiarati con atti di puro magistero e sono ritrovabili e conoscibili in documenti diversi dai Codici e da altri documenti normativi. Per questo motivo, che certe azioni siano gravemente negative e che coloro che le compiono possano almeno prevedere la inflizione di una sanzione penale è conosciuto da tutti non mediante canoni a ciò formalmente sanciti, bensì attraverso il magistero e quindi la dottrina della Chiesa.
Il principio sacrosanto della legalità della pena è pienamente rispettato, perché il “sine lege” diventa un “sine magisterio” o, in altre parole, se manca una “lex” che faccia conoscere a tutti sia un “crimen” sia una “poena”, c’è però un magistero e quindi c’è una dottrina che compie con uguale efficacia tale funzione conoscitiva.
Qualora, per fare un esempio, che può apparire risibile, un parroco si recasse in piazza San Pietro munito di un megafono e durante l’Udienza del mercoledì oppure l’Angelus della domenica gridasse insulti al Papa, per quanto tale comportamento non sia codificato, almeno attualmente, come delitto (cfr. can. 1370, § 1 che prevede solo la violenza fisica nei confronti del Papa), nessuno sano di mente si stupirebbe se al suddetto parroco fosse inflitta la pena della privazione dell’ufficio parrocchiale. E, in effetti, anche se la lettera del Codice non prevede attualmente l’insulto pubblico al Papa come delitto canonico, la dottrina della Chiesa lo presenta indubbiamente come tale per cui lo spirito del diritto penale canonico completa la lettera mancante.
Sicuramente, in tutto ciò, possiamo facilmente ritrovare qualcosa che si rivela assolutamente proprio del diritto canonico.
Per il diritto civile sarebbe impensabile o, almeno, assolutamente problematico, parlare di delitti e di pene che non siano puntualmente statuiti e quindi puntualmente recensiti in appositi documenti di normativa penale che li rendano da tutti conoscibili.
Non avrebbe senso parlare di delitti e di pene che siano conoscibili in un ambito dottrinale indipendentemente da quello formalmente legislativo.
Tuttavia, si potrebbe riflettere, che ci sono particolari delitti, quelli chiamati contro l’umanità, che sono percepiti con speciale chiarezza e particolare forza dalla stessa coscienza umana, la quale così costituirebbe un aliquale ambito “dottrinale” in cui le predette azioni sarebbero generalmente conosciute come delitti punibili prima ancora e forse anche senza necessità di essere recensiti in particolari normative.
Messo in salvo il principio giustissimo della legalità della pena, dobbiamo riconoscere che abbiamo scoperto un caso particolarmente interessante di non corrispondenza o di non piena corrispondenza tra lettera della legge e spirito della legge, in quanto tale caso è addirittura relativo al diritto penale canonico in tutta la sua estensione.
5. Abbiamo visto che lo spirito della legge consiste in definitiva nel rispondere con l’indicazione di un dovere a una esigenza, a un diritto della persona.
Il legislatore conosce, e può conoscere, solo i diritti della generalità delle persone o, al limite, di una pluralità di persone anche se queste non coincidono con la generalità. Per queste persone, e solo per queste, il legislatore indica dei doveri come risposta a diritti. Il legislatore non conosce, né può conoscere, i diritti delle persone singole.
D’altra parte, le persone singole, ogni persona in quanto singola, ha esigenze, ha diritti, che sono suoi propri e che quindi richiedono una risposta, cioè l’indicazione di doveri.
Il problema è – evidentemente – di conoscere tali esigenze. Senza tale conoscenza è impossibile una risposta, cioè l’indicazione di doveri.
Se, tuttavia, tale risposta non può – come detto – venire dal legislatore, quale sarà la persona che sia capace di conoscere le esigenze della persona singola? Non può che essere un’altra persona singola che conosce la persona in questione.
Per questo, ricercare lo spirito della legge dovrebbe diventare per il cristiano (o per ogni persona?) come un abito virtuoso, come una virtù abituale. Il cristiano dovrebbe sempre chiedersi, dovrebbe abitualmente chiedersi: quale è l’esigenza della persona che mi sta davanti?
Perché, però, parliamo di ricercare lo spirito della legge quando si tratta di conoscere le esigenze di una persona singola?
Perché c’è uno spirito della legge in quanto tale, cioè della legge considerata non come singola, bensì come tale.
E, in effetti, considerando che ogni legge indica un dovere come risposta a un diritto, possiamo facilmente dedurre che la legge in quanto tale deve essere intesa come risposta a un diritto. Lo spirito della legge in quanto tale consiste nel rispondere con un dovere a un diritto.
Quando, pertanto, una persona si chiede: quale è la esigenza della persona che mi sta davanti? in quel momento la persona attua lo spirito della legge.
Il legislatore non indica, né può indicare, in relazione a una persona in quanto singola, dovere alcuno. Però un’altra persona che conosca la esigenza della prima, può capire quale sia il dovere conseguente a tale esigenza e può diventare – diciamo così – legislatore per se stessa.
La persona, tuttavia, potrebbe fermarsi alla lettera della legge e quindi osservare: per la persona che mi sta davanti non c’è legge alcuna, nessuna lettera della legge, per cui non ho doveri verso questa persona.
Non possiamo non ricordare un misterioso passo del Vangelo: «(Gesù) diceva anche alle folle: “Quando vedete una nube che sale da ponente, voi subito dite: ‘Presto pioverà’, e così accade. Quando invece soffia lo scirocco, dite: ‘Farà caldo’, e così accade. Ipocriti! Siete capaci di prevedere il tempo che farà, e come mai non sapete capire questo tempo? Perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?”» (Lc 12, 54-57).
In questa misteriosa, ultima espressione, potremmo leggere un invito a discernere ciò che è giusto, ciò che è dovere come risposta a un’esigenza, e a conoscerlo da noi stessi, cioè senza la necessità che ci sia un’altra voce, in questo caso quella della legge, cioè della lettera della legge, che ce lo faccia conoscere.
Ma per arrivare a tale conoscenza è necessario attuare, con sapienza e disponibilità, in altre parole con amore fraterno, lo spirito della legge in quanto tale.
[1] In questo senso, la lettera del can. 19 non mi pare possa andare esente da ragionevoli critiche.
[2] “Laici debita scientia, prudentia et honestate praestantes, habiles sunt tamquam periti aut consiliarii, etiam in consiliis ad normam iuris, ad Ecclesiae Pastoribus adiutorium praebendum”.
[3] “Pro scientia, competentia et praestantia quibus pollent, ipsis ius est, immo et aliquando officium, ut sententiam suam de his quae ad bonum Ecclesiae pertinent sacris Pastoribus manifestent …”. Anche se il testo codiciale è di per sé inserito tra gli obblighi e diritti di tutti i fedeli (dall’ultimo battezzato fino ai Vescovi), è però rivolto soprattutto ai fedeli laici. E difatti proviene, quasi alla lettera, da “Lumen gentium” 31,1, che è dettato, in quel contesto, per i fedeli laici.
[4] Si veda, per esempio, “Lumen gentium” 30: “I sacri Pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune”. Anche se poi, Lumen gentium, al n. 37,1 ha il testo che ora è il can. 212, § 3 con l’ “aliquando”; cfr. poi. “Apostolicam actuositatem” specie ai nn. 10, 26; “Christifideles laici”, sui consigli pastorali diocesani (n. 25) e parrocchiali (n. 26) raccomandati con forza.
[5] “Obligatione quoque tenentur iustitiam socialem promovendi necnon, praecepti Domini memores, ex propriis reditibus pauperibus subveniendi”.
[6] “Praeter casus hac vel aliis legibus statutos, divinae vel canonicae legis externa violatio tunc tantum potest iusta quidem poena puniri, cum specialis violationis gravitas punitionem postulat, et necessitas urget scandala praeveniendi vel reparandi”.