La legge sulle DAT: una legge da rivedere
Francesco Napolitano
- Nella recente assemblea dei soci (Roma, 12-13 ottobre 2018) si è incisivamente discusso sulle “nuove tensioni ordinamentali”. Una sessione dell’assemblea ha riservato attenzione alla Legge cosiddetta sul “fine vita” o anche sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento).
Anche nella mia veste di Presidente da 21 anni di ente associativo che si occupa specificamente di GCA (Gravi Cerebrolesioni Acquisite) e in particolare di assistenza a persone in SV (Stato Vegetativo) o in SMC (Stato di Minima Coscienza), mi permetto offrire alla attenzione dei lettori alcune umili riflessioni critiche sulla legge su cui si è discusso in assemblea.
Mi permetto altresì svolgere queste riflessioni in una forma terminologica e anche contrattistica – divulgativa, al fine di tentare di offrire una più facile lettura ai non addetti ai lavori.
Gli addetti ai lavori – nei confronti dei quali chiedo venia. Troveranno alcuni passaggi scontati, banali, forse anche irrispettosi.
Ma, ripeto, il tentativo e il desiderio è quello di raggiungere lettori anche estranei al mondo giuridico e con poca dimestichezza con istituti e studi di diritto e con un linguaggio troppo tecnico.
- Ci sembra dunque utile tra una legislatura e l’altra, richiamare e attualizzare la attenzione sulla recente legge cosiddetta sul “fine vita” o sulle DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) o anche sul “bio-testamento”, legge che tante, lunghe e laceranti divisioni ha comportato, sia nelle aule parlamentari che nella società civile.
Ciò in quanto lo scopo e il contenuto della legge sono tali da coinvolgere, emotivamente ed operativamente, da una parte il mondo delle gravi disfunzioni (e cerebrali e in particolare degli Stati Vegetativi e di Minima Coscienza) e dall’altra parte, in modo “insinuoso” e anche prevaricante e supponente, il mondo medico e, in particolare, il segmento che ha come oggetto le situazioni di malattia progressivamente infausta o allo stadio terminale ovvero di disabilità estrema, questa ultima che si riscontra appunto negli Stati Vegetativi.
È dunque utile ripercorrere insieme, nel tempo, le coordinate ed i contenuti di questa legge, partendo, cosa che facciamo in questa sede, da premesse di carattere generale.
Qualunque sia la opinione giuridica, sociologica, filosofica, esistenziale, etica su questa legge, è innegabile che essa entri “a gamba tesa” nei rapporti tra medici da una parte e “pazienti” ovvero suoi familiari o fiduciari dall’altra parte.
Non vi è altrettanto dubbio che questi rapporti sono basati su e presuppongono:
- Principi etici
- Principi morali
- Principi deontologici
- Principi sociologici
- Principi clinici
- Principi scientifici
- Principi fideistici
Nessuno di questi principi può e/o dovrebbe essere regolamentato e racchiuso in una legge dello Stato.
La legge può e deve regolamentare rapporti giuridici, economici, finanziari, di sicurezza, contrattuali, insomma rapporti di convivenza civile, ma senza poter entrare a disciplinare principi e sfere immanenti all’uomo stesso e dunque afferenti la sua concezione di vita e la sua “morale”, ancorché connesse a rapporti con altri individui della società.
Questi principi e sfere immanenti possono semmai trovare spazio in regolamenti o consigli deontologici o comportamentali emanati da singole categorie di persone o ordini professionali o enti morali, etc.
Tutt’al più essi possono essere disciplinati da norme esecutive della pubblica amministrazione; ma non formare oggetto di una Legge di Stato.
La prima preliminare considerazione che occorre fare è dunque che il legislatore, nella fattispecie, ha ecceduto, anche in senso costituzionale, dai propri poteri.
Sotto un profilo costituzionale, i poteri dello stato sono costituiti, in estrema sintesi e schematizzazione in:
- Potere legislativo
- Potere esecutivo
- Potere giudiziario
Così come un organo giudiziario è deputato a interpretare la legge in un ambito controverso e non può “creare” una norma impositiva valida erga omnes , così come una pubblica amministrazione può emanare provvedimenti, regolamenti o anche decreti, ma pur sempre nei limiti dei provvedimenti normativi esistenti che siano approvati e provenienti dal potere legislativo ovvero su espressa delega di questo ultimo, allo stesso modo il potere legislativo non può (e non dovrebbe) eccedere dai propri limiti costituzionali di competenza, fino ad invadere la potestà regolamentare della pubblica amministrazione, ovvero del potere esecutivo, ricordando che i pubblici uffici sono organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità della amministrazione.
La legge qui in esame è dunque connotata da un eccesso di potere, ancorché si volesse estendere il potere del Parlamento, oltre a quello legislativo, anche a quello definibile “normativo”.
Vediamo allora dove soprattutto la legge entra “a gamba tesa” in un ambito più propriamente regolamentare che non legislativo/normativo.
L’art. 1, comma 3, stabilisce quanto segue: “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole”.
Questa è una disposizione tipicamente regolamentare e non legislativa.
E così rimangono senza risposta alcune domande.Da chi si ha diritto di conoscere le proprie condizioni? Quando è che una informazione può dirsi completa, aggiornata e comprensibile?
È mai possibile, anche costituzionalmente, che una legge dello Stato possa indicare a soggetti (per lo più si tratterà di operatori sanitari) come “parlare” a chi è da loro in cura, per poter il loro linguaggio essere definito completo, aggiornato e comprensibile? Chi valuta che sono stati esplicitati bene i rischi diagnostici? Chi valuta la correttezza clinica di “possibili alternative o di conseguenze di eventuale rifiuto”?
Il rifiuto di ricevere informazioni ovvero la possibilità che un fiduciario le raccolga che ampiezza e delimitazione hanno?
E soprattutto quale reazione di tipo “sanzionatorio” vi è qualora una o altre persone non agiscano in conformità a quanto in modo così genericamente regolamentare è previsto?
Le stesse domande si possono porre in ordine al contenuto della seconda parte del comma 5 dell’art. 1, che così prevede: “Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.
Anche qui si è in presenza di norma carente, perché ha l’iniziale contenuto, senza però averne anche le caratteristiche di competenza amministrativa, di una disposizione regolamentare.
Altri esempi di disposizioni che hanno connotati tipicamente regolamentari sono i seguenti.
Art. 1 c. 6, seconda parte: “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.
A quali professioni ci si riferisce per verificare la deontologia? E dove individuare quest’ultima?
Quali sono le “buone” pratiche clinico-assistenziali? Come si individuano?
Solo per il medico si esclude, nei casi menzionati, l’obbligo professionale? E per le altre professioni sanitarie, che pure sono coinvolte nella cura?
Il comma 9 dell’art. 1 stabilisce che: “Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale”.
Come si individua la “modalità” organizzativa? Quale è “l’informazione necessaria” da dare ai pazienti?
Lo stesso dicasi per il comma 1 dell’art. 4 laddove, in punto di normazione sulle disposizioni anticipate di trattamento (DAT), si riferisce che possono essere espresse “dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze della sua scelta”.
Chi può o come può stabilire quale sia una “adeguata informazione medica”?
Tanto questa domanda è rilevante, se si pensa che il successivo comma 5 stabilisce che il medico può disattendere le DAT qualora queste appaiano “palesemente incongrue”.
È poi ancora a contenuto tipicamente regolamentare e non normativo buona parte dell’art. 5 in punto di “pianificazione condivisa delle cure”, per i casi di una “patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabili evoluzioni con prognosi infausta”.
- Quelle qui svolte sono osservazioni critiche “pregiudiziali” sulla correttezza anche costituzionale del provvedimento qui in esame.
Una analisi della portata delle singole disposizioni in esso contenute ci porterà a verificare che è una legge allo stesso tempo inutile, su parecchi punti dannosa, pericolosa e, certamente, foriera di un (più che probabile) certo contenzioso giudiziario di previsione e interpretazione così difficile da far presumere giudicati tra loro molto contrastanti.
Con queste riflessioni vorremmo inizialmente e sommessamente accostarci alla utilità della legge. Possibili successivi interventi ci faranno meditare sulla dannosità, pericolosità e divisività.
- L’art. 1, c.1, vuole preliminarmente illustrare lo scopo della legge stabilendo che “La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1,2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.
Già questa “introduzione” palesa la inutilità della legge, in quanto le norme sovraordinate ivi richiamate contengono in sé i principi base cui la legge vuole (ma diremmo “deve”, in quanto legge sottordinata) conformarsi, con la conseguenza di creare una duplicazione di norme positive, che non possono che essere foriere di concrete difficoltà interpretative anche nella quotidiana operatività.
Non è dunque un caso che ogni frase, ogni periodo, ogni parola di questa legge abbiano dato vita ad accesi dibattiti parlamentari (che hanno ovviamente e giustamente trovato riflesso nei controversi dibattiti della società civile), che poi si sono inevitabilmente tradotti in un testo contraddittorio in sé stesso, in molte parti poco comprensibile quando proprio non applicabile nel concreto, presuntuosamente invasivo del campo scientifico e della deontologia operativa delle professioni sanitarie e profondamente incerto nella disciplina dei rapporti tra questi ultimi e i pazienti e loro familiari.
Queste sono le inevitabili conseguenze di una legge inutile, che, come tale, non può che creare una enorme, ingiustificata confusione, che sarebbe ben stato meglio evitare ab ovo.
L’art. 2 della Costituzione, richiamato dalla legge, già riconosce i diritti inviolabili dell’uomo come “singolo” e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, anche economica e sociale.
Il diritto solidale alla dignità e dunque alla autodeterminazione dignitosa della “persona” è pertanto già costituzionalmente garantito e non c’era di certo bisogno di una norma sottordinaria che lo ribadisse.
E così già l’art. 13 Costituzione, pur esso citato nella legge qui in esame, stabilisce che la libertà personale è inviolabile e che non è ammessa alcuna restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria.
Anche l’art. 41 della Costituzione, non richiamato da questa legge, stabilisce che l’attività economica non può svolgersi in modo da recare danno alla libertà e alla dignità umana.
L’art. 32 della Costituzione è poi dirimente nel precisare che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività a garantire cure gratuite agli indigenti”. Aggiunge poi, in modo decisamente chiaro, che “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Non si vede dunque quale utilità possa avere o novità possa contenere la presente legge, laddove stabilisce, come principio generale, che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”.
È allo stesso tempo una inutile (e pertanto non giustificabile) duplicazione del dettato costituzionale e un “tentativo” di aggiunta, con il riferimento al consenso libero e informato, che, come vedremo, è, in quanto non delimitato, di davvero difficile interpretazione e ancor più di ardua applicazione pratica.
La legge richiama poi, per espressa volontà di rispettarli, i principi contenuti negli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei Diritti fondamentali della Unione Europea.
Quest’ultima, dopo aver premesso che la UE si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà, stabilisce, all’art. 1, che “la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”, all’art. 2 che “ogni persona ha diritto alla vita” e, all’art. 3, che ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica e che, nell’ambito della medicina e della biologia, devono essere in particolare rispettati:
- Il consenso libero e informato della persona interessata
- Il divieto delle pratiche eugenetiche
- Il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro
- Il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani.
Lo scopo della legge qui in commento era già dunque raggiunto, oltre che dalla nostra Costituzione, anche dalla Carta europea.
C’è da chiedersi pertanto il perché di una legge il cui iter ha diviso la società civile italiana, quando già i principi base erano consacrati in norme sovraordinate.
Si è allora voluto evidenziare che tra gli scopi perseguiti in via generale della legge vi sia quello della necessità di disciplinare le “disposizioni anticipate di trattamento”, circostanza che forma oggetto dell’art.4 della legge.
E’ nostro potenziale intendimento ritornare su questo specifico punto.
Qui intanto appare utile evidenziare, da una parte, che se si voleva introdurre tale disciplina, ben si poteva circoscrivere la legge ad essa, senza necessità di tutte le altre fluide e dannose disposizioni “di contorno”.
D’altra parte la convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina – firmata il 4 aprile 1997 e recepita dall’Italia con Legge 28 marzo 2001 n.145 e dunque a tutti gli effetti già inserita nell’ordinamento giuridico del nostro paese – già disciplina compiutamente e regole cui attenersi in ordine alle disposizioni anticipate di trattamento.
In particolare l’art. 9 dispone che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.
Vi era già dunque una norma, inserita per ratifica nel nostro tessuto legislativo, che indica i criteri da seguire proprio in ordine a disposizioni anticipate.
E allora non solo con ciò ora sì crea disarmonia in quanto una stessa fattispecie è oggi regolata da due diverse disposizioni, ma inoltre si ha, come vedremo, che le due disposizioni non sono sovrapponibili, con la conseguenza che il contenuto dell’una non è compatibile con il contenuto dell’altra.
La recente legge è pertanto inutile (e dannosa) anche sotto questo profilo.
Non è inoltre inutile osservare, tornando ai primi articoli della legge qui in commento, che la stessa Convenzione di Oviedo già comunque disciplina anche il consenso informato stabilendo, all’art.5 quanto segue: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. L’art. 6 ai primi 3 commi, stabilisce poi quanto segue: “Un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa. Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità. Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. La persona interessata deve nei limiti del possibile essere associata alla procedura di autorizzazione”.
Va infine rilevato che l’art. 3 già citato della Legge 28 marzo 2001 n.145 di ratifica della Convenzione di Oviedo prevede che il governo è delegato ad adottare decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi della Convenzione.
Ciò conferma quello che abbiamo precedentemente osservato in ordine alla circostanza che la disciplina della fattispecie è di competenza del potere esecutivo/amministrativo e non di quello legislativo.
- Se il Signore vorrà e, se l’editore lo consentirà e se i lettori avranno la pazienza e l’interesse di affrontare insieme ulteriori riflessioni, in successivi interventi approfondiremo ulteriori criticità dalla legge in commento, attraverso una analisi delle singole sue disposizioni.