La donna nel Diritto privato, oggi
Gabriella Autorino
SOMMARIO: 1. Lo statuto del “cittadino donna” tra eguaglianza e dignità. La questione identitaria. Il “principio della differenza” e la gestione delle diseguaglianze. La c.d. discriminazione indiretta. La cross fertilization tra le fonti. – 2. La posizione giuridica della donna nelle relazioni familiari. L’approccio costituzionale tra pari dignità, eguaglianza e solidarietà. – 3. Unità familiare e principio di eguaglianza. I rapporti familiari come “equilibrio delle libertà”. L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale. La riforma del 1975. – 4. Il governo diarchico della famiglia. La regola dell’accordo e il principio di meritevolezza di tutela. – 5. Ulteriori violazioni del divieto di discriminazione in ambito familiare. La cittadinanza. Il cognome familiare. – 6. Principio di eguaglianza e responsabilità genitoriale. Le diseguaglianze sostanziali. L’asimmetria della violenza. – 7. Il versante patrimonialistico. Il regime tra coniugi. La tutela del coniuge debole e l’assegno divorzile. – 8. La l. n. 162 del 2016: vulnus all’indisponibilità dello status familiare? La piena disponibilità dei diritti patrimoniali: critica. – 9. Impossibilità di ridurre il principio di eguaglianza alla mera parità di trattamento. Il privilegio del c.d. parto anonimo. Il diritto di conoscere le proprie origini. – 10. Il principio nei settori del contratto e del mercato. La discriminazione dome violazione della dignità della persona anche in assenza di pregiudizio economico. Il pensiero femminista e l’eterogenesi dei fini. Il rifiuto di stereotipi. La parte debole e gli strumenti di protezione. Solidarietà e meritevolezza di tutela come criteri di soluzione.
- Lo statuto del “cittadino donna” nel nostro ordinamento, come in tutti quelli che si riconoscono nella nozione di tradizione giuridica occidentale, si fonda sui pilastri del principio di eguaglianza e del principio di dignità della persona: entrambi, tuttavia, hanno necessità di essere riempiti di contenuto attraverso la contestualizzazione nei tempi e con riferimento agli obbiettivi di tutela che di volta involta, nei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, si offrono all’indagine. Il concetto di dignità abbraccia e colora quello di eguaglianza e lo trasforma in questione identitaria, dell’eguaglianza tra uomo e donna nella differenza. Una questione identitaria che non si riferisce solamente al singolo individuo come titolare dell’interesse, ma abbraccia un’intera comunità, assai più ampia di quella racchiusa nei confini nazionali, che in quei valori riconosce le scelte fondamentali consegnate alle Carte fondamentali. Le scelte comuni che concernono il principio di eguaglianza e il divieto di discriminazione sotto tutti i profili che attengono ai diritti politici, economici, sociali e della giurisdizione in genere sono per l’appunto identitarie e come tali s’impongono come regole giuridiche di una società moderna e democratica. È singolare tuttavia accorgersi che culture, ideologie, sensibilità assai diversificate concordino nel trascorrere ai nostri giorni dall’affermazione assolutistica dell’eguaglianza dei sessi alla definizione del principio egualitario come “principio della differenza”, secondo l’espressione di John Rawls(1), principio che presuppone nei fatti, la “gestione delle diseguaglianze”. Da giuristi diremmo che per questa via si giunge all’affermazione della eguaglianza sostanziale anche nell’applicazione del principio al trattamento giuridico dell’uomo e della donna.
Il cammino tuttavia parte da lontano e non è ancora giunto alla sua meta di pieno riconoscimento sociale della parità uomo donna, anche se al momento iniziano ad emergere questioni che concernono il divieto di discriminazioni pregiudizievoli per l’uomo.
“Io credo che le relazioni sociali dei due sessi, che subordinano un sesso all’altro in nome della legge, sono perniciose nella propria sostanza e costituiscono oggi uno dei principali ostacoli che si frappongono al progresso dell’umanità; io credo che esse debbano lasciare il passo a una perfetta eguaglianza, senza privilegio né potere per un sesso, come senza incapacità per l’altro”. Le appassionate parole che John Stuart Mill scriveva nella seconda metà del diciannovesimo secolo emozionano ancora per la loro attualità e meritano di essere ricordate(2).
Il principio di eguaglianza sostanziale che la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo sancirà alla fine della seconda guerra mondiale scaturisce dalle ferite che essa ha prodotto e per questo assume accenti di sacralità nell’esperienza di un popolo.
Infatti, il concetto di dignità è il fulcro dell’eguaglianza, poiché una misura discriminatoria si lega strettamente all’idea inespressa secondo cui l’individuo che subisce la discriminazione sia meno idoneo e meno degno di essere riconosciuto e valorizzato in quanto essere umano: è anche in questo profilo che l’individuo si trasforma per il diritto in persona, percepito e garantito nel tessuto delle sue relazioni sociali.
E tuttavia, nonostante il riconoscimento solenne che tali principi hanno nelle Costituzioni e nelle legislazioni, nell’ambito del lavoro, della famiglia, della salute, dell’accesso alle cariche pubbliche e via enumerando, il pericolo sorge da quella che è stata definita come “discriminazione indiretta”, poiché non proviene esplicitamente da previsioni legislative ed è per questo assai più insidiosa. Essa può nascondersi in profili “sistemici” della società, come ad esempio per come si struttura il mondo del lavoro. Per tale ragione nell’esperienza giuridica il principio che impone identica retribuzione a parità di prestazione di lavoro si è trasformato da prestazione uguale in “prestazione equivalente”.
Le discriminazioni indirette si nascondono nei costumi, nelle tradizioni e nelle culture: la patria potestà, la poligamia, la violenza, i matrimoni forzati, ma anche il considerare legittimo utilizzare una donna come “fattrice” a pagamento, non possono essere tollerati in nome della privacy, della tradizione o della libertà di professione religiosa. È essenziale che in una società sempre più multiculturale la libertà di religione, in concordia con gli artt. 2 e 3 della nostra costituzione, non possa mai essere definita o interpretata in modo tale da comportare aggressioni alla pari dignità morale e sociale tra uomo e donna.
Di particolare rilievo si mostrano in proposito, anche quando non vincolano direttamente gli Stati, le Convenzioni internazionali come ad esempio la CEDU. Infatti, attraverso il richiamo che le Corti supreme dei vari Stati sempre più di recente fanno reciprocamente alle loro decisioni – per il fenomeno studiato sotto il nome di cross fertilization – sono considerate, per quel che concerne i diritti fondamentali, fonti “pertinenti e persuasive” sia per quanto riguarda l’esame di costituzionalità di norme interne sia per la stessa interpretazione delle proprie regole costituzionali. Il che può essere uno strumento potente di evoluzione e di cambiamento anche del nostro diritto.
Il campo da arare che mi è stato assegnato è immenso e impercorribile nello spazio di un saggio o di una relazione: occorre necessariamente scegliere i confini dell’indagine ed eleggere alcuni settori come esemplificativi o maggiormente significativi. S’impone immediatamente all’attenzione la materia familiare(3).
- Per quanto attiene alla posizione giuridica della donna nell’ambito delle relazioni familiari, il cammino verso l’affermazione dell’eguaglianza rispetto all’uomo è stato lento e faticoso. Per secoli la donna è stata considerata come “elemento debole” di un rapporto connotato verticisticamente dalla presenza di un “capo”, e dunque come “persona da proteggere”, destinataria solo indiretta di diritti dei quali all’uomo era assegnato l’obbligo di rendere possibile la realizzazione mediante la sua tutela (v. art. 145 c.c. del 1942)(4).
Questa visione ha per lunghissimo tempo favorito, a livello giuridico, una disciplina dei rapporti familiari incentrata sulla differenziazione dei ruoli assegnati all’uomo e alla donna. La diseguaglianza fra i coniugi emergeva sia nell’ambito dei rapporti personali sia in quello dei rapporti patrimoniali. La rottura con il passato si ha soltanto con la Costituzione del 1948, che sancisce la piena eguaglianza morale e giuridica dell’uomo e della donna, in linea con i valori fondanti il nuovo ordinamento, il quale rigetta il principio di autorità per edificare, invece, le relazioni umane sul rispetto della dignità dell’essere persona(5).
Il valore della pari dignità sociale diviene, nell’art. 3 cost., la “cerniera” fra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, attribuendo alla prima un significato nuovo, che non viene assorbito dalla seconda, ma ne rappresenta il presupposto e l’obiettivo da raggiungere(6).
Se si parte dalla generale affermazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 cost., il Costituente individua la famiglia come il primo dei tre ambiti specifici – accanto al lavoro ed alla politica – nei quali tale principio dovrà declinarsi tramite la successiva regolamentazione legislativa. L’eguaglianza tra i sessi si traduce, così, nell’eguaglianza dei coniugi, escludendo che i rapporti familiari possano fungere da ostacolo alla realizzazione del principio sancito dall’art. 3 cost.
La famiglia, da entità gerarchicamente ordinata che vede nel marito il suo “capo”, diviene “società naturale” fondata sulla pari dignità di entrambi i coniugi (art. 29 cost.).
E tuttavia, la garanzia dell’eguaglianza dei coniugi assume un’ autonoma rilevanza rispetto all’eguaglianza senza distinzioni di sesso, di cui all’art. 3 cost., poiché, com’è stato efficacemente osservato, essa “non è riducibile alla soddisfazione di un’istanza individualistica”, poiché, in caso contrario, “l’istanza egualitaria rappresenterebbe addirittura la negazione della famiglia o comunque apparirebbe in antitesi all’ipotesi di un organismo familiare fondato sulla coesione e sulla solidarietà dei suoi membri”(7).
L’eguaglianza e la solidarietà tra persone in comunione di vita, quali elementi fondanti lo “statuto minimo inderogabile della famiglia”, sono perciò legati da uno “stretto rapporto di circolarità ed implicazione reciproca”(8).
È in questa prospettiva che va letto anche il limite dell’unità familiare, posto dall’art. 29 cost. all’eguaglianza reciproca. È a tutti noto il dibattito sviluppatosi in dottrina, all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, in merito alla prevalenza da dare all’eguaglianza piuttosto che all’unità familiare e viceversa.
Secondo l’orientamento conservatore, l’unità rappresentava il prius rispetto all’eguaglianza, sicché l’eguaglianza tra i coniugi non avrebbe potuto condurre a rompere l’unità della famiglia e “l’interesse dello Stato alla unità della famiglia” avrebbe giustificato “il sacrificio anche dell’eguaglianza tra i coniugi”(9).
Sicché, alla luce di una visione «pubblicistica» o «superindividuale» della famiglia, l’unità familiare, tutelata dall’art. 29, comma 2, cost., consentiva limitazioni ai diritti e alle libertà fondamentali dei singoli, giustificando la possibilità di non dare piena attuazione, all’interno della comunità familiare, ai principi di eguaglianza e di pari dignità morale e sociale tanto tra i coniugi quanto tra genitori e figli. Fino alla prima metà degli anni Sessanta, tale concezione ha caratterizzato anche l’attività della Corte costituzionale, che ha salvato dal giudizio di illegittimità le disposizioni codicistiche discriminatorie nei confronti della donna, ponendo l’accento sui limiti, più che sulla regola dell’eguaglianza dei coniugi.
- A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, tuttavia, ha iniziato a farsi strada anche nel pensiero della Corte l’opposta visione per cui, rispetto al principio cardine dall’eguaglianza, il ricorso all’unità familiare avrebbe natura eccezionale e tale da doversi applicare soltanto in ipotesi circoscritte.
Secondo la lettura già prospettata da Aldo Moro in sede di assemblea costituente, l’unità familiare non si pone in contrapposizione con l’eguaglianza, ma anzi è da quest’ultima consolidata e resa effettiva ben più di quanto non possa fare una relazione autoritaria dei rapporti coniugali.
Se l’art. 29 cost. viene letto in combinato disposto con gli artt. 2 e 3, inquadrando il tema della famiglia in quello più ampio delle comunità intermedie, la famiglia non può che essere intesa come strumento per la realizzazione dell’armonico sviluppo della persona umana, sì che non sono più individuabili interessi familiari diversi e preminenti rispetto a quelli dei singoli componenti. I rapporti interni della famiglia si configurano pertanto come «equilibrio delle libertà» o meglio dei diritti fondamentali, non in funzione di una compressione delle libertà fondamentali intese come incompatibili o estranee al rapporto coniugale, ma al contrario nel senso di una loro espansione, sia pure nel segno del rispetto e della solidarietà.
Infatti, il singolo, calato nel contesto sociale e della famiglia, è necessariamente legato agli altri dai «doveri di solidarietà politica, economica e sociale», e dunque familiare, di cui discorre l’art. 2 cost. Il che non consente di proporre visioni esasperatamente individualistiche del diritto, della società e della famiglia.
Si può asserire, allora, che nel nostro ordinamento l’unità della famiglia, elevata a valore nel comma 2 dell’art. 29 cost., in tanto riceve tutela in quanto assicuri all’individuo nel (e quindi riguardo al) gruppo familiare l’armonico sviluppo della personalità e la garanzia dei diritti di libertà e di dignità umana. Allorché in concreto viene a mancare l’idoneità della famiglia a svolgere tali funzioni, cade altresì l’interesse della collettività al mantenimento della sua coesione, sì che divorzio e separazione personale dei coniugi appaiono come gli estremi mezzi di tutela attribuiti all’individuo contro l’intollerabile compressione dei propri diritti esistenziali, causata dalla compromessa situazione familiare.
Tale orientamento ha ricevuto ampia conferma dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, con alcune sentenze definite «storiche». Ad esempio, in tema di rapporti tra coniugi, si segnala la decisione del 19 settembre 1968, n. 126, che ha cancellato dal codice penale il delitto di adulterio della moglie; la Corte cost., 19 dicembre 1968, n. 127, che ha fatto cadere la distinzione tra adulterio semplice della moglie e adulterio ingiuria grave del marito; la Corte cost., 13 luglio 1970, n. 133, che ha eliminato l’obbligo di mantenimento posto a carico del marito indipendentemente dalle condizioni economiche della moglie e la Corte cost., 18 aprile 1974, n. 99, che ha escluso il diritto di fedeltà tra quelli compatibili con lo stato di separazione personale, sostituito da un obbligo del coniuge separato di rispetto dell’onore e della dignità dell’altro.
I principi costituzionali vengono, tuttavia, in gran parte attuati solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che afferma, all’art. 143 c.c., l’eguaglianza di diritti e doveri coniugali, senza nemmeno più temperarla a garanzia dell’unità familiare; fissa, all’art. 144 c.c., la regola dell’accordo coniugale come metodo di determinazione dell’indirizzo familiare(10) – regola che non può essere derogata nemmeno col consenso di entrambi i coniugi –, recidendo inoltre il nesso, prima esistente, fra potestà maritale e obbligo di coabitazione; introduce la comunione dei beni come regime legale, dimostrando la “volontà di parificare la partecipazione dei coniugi alle ricchezze conseguite dopo le nozze, agli incrementi patrimoniali realizzati durante la vita matrimoniale”; elimina la separazione per colpa; realizza il principio paritario anche nei rapporti genitori-figli minori, sostituendo alla patria potestà la potestà genitoria.
In particolare, lo statuto generale dei rapporti tra i coniugi, stabilito dal legislatore del 1975, si sviluppa attraverso tre linee di situazioni giuridiche: poteri e doveri essenzialmente reciproci (fedeltà, assistenza morale e materiale, coabitazione); poteri e doveri reciproci, ma funzionali all’interesse familiare e dunque preordinati alla solidarietà (collaborazione nell’interesse della famiglia e determinazione dell’indirizzo familiare); poteri e doveri essenzialmente solidali (contribuzione).
Fra questi diritti e doveri di carattere personale, il dovere di contribuzione presenta anche un immediato riflesso patrimoniale, costituendo quello che viene definito il regime primario della famiglia: “regime imperativo, ispirato a rigidi criteri di proporzionalità diretti a realizzare l’eguaglianza sostanziale fra i coniugi”(11).
Dal principio di pari dignità scaturisce altresì l’equiparazione a fini giuridici tra l’attività lavorativa svolta all’esterno della famiglia e quella prestata all’interno della medesima, secondo un principio che riappare più volte nelle disposizioni sui rapporti patrimoniali: si pensi all’art. 230 bis cod. civ. o alla scelta di sostituire a quello di separazione dei beni il regime di comunione legale, destinato ad operare automaticamente in mancanza di una contraria ed espressa dichiarazione dei coniugi.
- Tuttavia, poiché la legge si guarda bene – né sarebbe legittimata a farlo – dal predeterminare una ripartizione di ruoli tra i coniugi circa l’adempimento di tale obbligo, la scelta delle modalità di attuazione è uno degli aspetti che ricade nell’ambito dell’indirizzo della vita familiare, la cui determinazione è affidata, dall’art. 144 cod. civ., alla decisione congiunta dei coniugi. In tal modo, si rivela un necessario collegamento tra i due grandi temi della riforma del diritto di famiglia. La regola del governo diarchico della famiglia, dettata dall’art. 144 cod. civ., è infatti di fondamentale importanza nel quadro normativo che si va ricostruendo.
Tale norma, richiedendo da un lato l’accordo dei coniugi sull’indirizzo della vita familiare ed attribuendo, dall’altro, a ciascuno di essi il potere di attuare l’indirizzo concordato, realizza in pieno il principio costituzionale di eguaglianza tra i coniugi, garantendo una partecipazione paritetica alla conduzione del ménage, ed è anzi l’unica compatibile con il suddetto principio.
Con ciò non si vuole escludere che i coniugi possano, nell’esercizio della propria autonomia privata, accordarsi su una ripartizione dei compiti, ma poiché un siffatto accordo differisce rispetto al modello cui il legislatore si è ispirato nella formulazione dell’art. 144 cod. civ., pur non potendosi certo sostenere a priori la sua illiceità, andrà concretamente e attentamente vagliata la sua meritevolezza di tutela. In particolare, l’ammissibilità di una divisione di funzioni andrà esclusa quando si traduca nell’esautorazione di un coniuge da scelte fondamentali in merito all’indirizzo della vita familiare, o nell’attribuzione all’altro di una posizione di supremazia.
In merito al potere di attuazione dell’indirizzo concordato, è tuttavia discusso se esso abbia una esclusiva valenza inter partes o rilevi anche erga omnes, implicando l’imputabilità degli atti compiuti separatamente da ciascun coniuge nei confronti dei terzi anche all’altro coniuge e dunque la responsabilità di entrambi per le obbligazioni assunte in esecuzione dell’accordo sulla conduzione del ménage.
E tuttavia ben può affermarsi che nell’ambito dei rapporti patrimoniali tra coniugi la regola dell’accordo viene in evidenza come principio ulteriore e diverso rispetto a quelli generali del contratto e della comunione ordinaria, che giustifica le apparenti «deviazioni» da questi ultimi: la responsabilità solidale dei coniugi per le obbligazioni del ménage è infatti coerente con il combinato disposto degli artt. 143 e 144 cod. civ. ed è regola più rispondente ai principi costituzionali che reggono l’attuale sistema familiare, dei quali la normativa codicistica riformata rappresenta attuazione.
- Se, dunque, la riforma del diritto di famiglia ha rappresentato la più importante opera legislativa di attuazione e specificazione dei principi costituzionali, essa non ha, peraltro, eliminato tutte le disparità esistenti fra uomo e donna nell’ambito delle relazioni familiari.
In materia di rapporti personali fra i coniugi, la disparità fra uomo e donna derivante dall’art. 10, comma 1, l. n. 555/1912, per cui la donna maritata non poteva assumere una cittadinanza diversa dal marito, con conseguente perdita automatica della cittadinanza italiana per la donna che sposava uno straniero, era stata solo attenuata dall’art. 143 ter c.c., secondo il quale la moglie conservava, salvo espressa rinunzia, la cittadinanza italiana, se per effetto del matrimonio assumeva una cittadinanza straniera.
Solo nel 1992 la l. n. 91 ha abrogato anche tale disposizione, sancendo la regola generale per cui chi possieda, acquisti o riacquisti una cittadinanza straniera conserva quella italiana, salvo che, risiedendo all’estero, vi rinunzi espressamente.
Tuttora in vigore è, invece, l’art. 143 bis c.c., che deroga, in materia di attribuzione del cognome, al principio di eguaglianza, stabilendo che la donna aggiunge al proprio il cognome del marito. Nella precedente formulazione, la norma in questione statuiva l’obbligo per la moglie di assumere il cognome del marito, misconoscendo del tutto il suo diritto all’identità personale(12).
Di contro, la garanzia di quest’ultima si mostra attualmente come esigenza fondamentale della tutela della persona e della personalità ben oltre il tradizionale contenuto che ad essa si collega. Il bisogno di rispetto è trasversale in tutte le relazioni umane, in tutte le posizioni in cui l’uomo si rinviene in rapporto con gli altri uomini. Il che consente di leggere il collegamento tra gli artt. 29, comma 2 e 2 cost. con la consapevolezza che nel confronto tra pari dignità e unità familiare, la seconda non può travolgere, per non ridursi ad aporia di se stessa, l’identità di ciascun coniuge, sia nella componente ampia sia in quella più ristretta dell’identificazione.
Del resto, sebbene l’opinione per cui l’aggiunta del cognome del marito sia obbligatoria venga avvalorata dall’art. 156 bis c.c. (il quale prevede che la donna separata possa essere autorizzata dal giudice a non portare il cognome del marito), la tesi dominante in dottrina e corrispondente al costume sociale è che la donna sia libera di identificarsi con il solo cognome originario, non essendo tra l’altro pensabile alcuna sanzione a carico della moglie che non usi il cognome maritale(13).
Di contro, la denegata possibilità, per il marito, di aggiungere al proprio il cognome della moglie, seppur risulta allo stato priva di interesse, rappresenta una discriminazione all’inverso, resa ancor più evidente dalla recente disciplina in tema di unioni civili che invece consente alle parti di assumere, per la durata della relazione, un cognome comune liberamente scelto tra i propri, anteponendolo o posponendolo al proprio.
“La necessaria opzione negoziale accolta dal legislatore rafforza la convinzione che il negozio familiare ex art. 144 c.c. di attribuzione del cognome familiare dovrebbe costituire la fonte primaria in materia, attribuendo alla norma di sistema una funzione meramente suppletiva. L’autonomia negoziale, infatti, assolve la duplice funzione di ovviare al difetto di flessibilità del sistema e di attribuire ai diretti interessati la scelta del cognome familiare, scelta allo stato affrontata nei limiti della volontà di esercitare il proprio diritto di trasmissione del cognome e di voler concorrere alla funzione di identificazione dei discendenti”(14).
Infatti, il medesimo rispetto dell’identità prescrive, con riguardo ai figli comuni, che essi siano riconoscibili come componenti di un gruppo familiare: da qui l’esigenza di un cognome che conservi al figlio quelli di entrambi i genitori e che sia eguale per tutti i figli comuni. Il rilievo dell’accordo nella conduzione familiare impone che siano gli stessi genitori a decidere sul cognome da trasmettere alle successive generazioni, tranne nelle ipotesi in cui prevalga l’interesse del minore dotato di discernimento alla conservazione di una identità precedente di cui l’identificazione, legata al cognome, sia elemento essenziale. Motivi di tal sorta sono comuni a tutte le forme di filiazione, di sangue o civile, da genitori coniugati o non coniugati, con le differenze di disciplina che la specificità delle situazioni comporta.
La garanzia costituzionale della persona – e nel profilo statico e in quello dinamico – è tutta scandita sui ritmi dell’eguaglianza e della pari dignità. Essa sembrerebbe implicare la necessaria presenza nel momento della identificazione tanto del segno della linea paterna che di quella materna.
La diversa opzione in favore della linea paterna, il cui cognome si trasmette di generazione in generazione, si riconduce generalmente, in mancanza di un’espressa previsione normativa, tanto alla forza della tradizione quanto all’esigenza di ancorare la garanzia costituzionale dell’unità della famiglia (art. 29, comma 2, cost.) all’unicità del cognome atto a individuare all’esterno il soggetto sia come singolo sia come componente di una famiglia, a sua volta intesa sia come nucleare che come famiglia allargata, e dunque idoneo a designare, al contempo, l’intero gruppo familiare di appartenenza.
In siffatta prospettiva, il riconoscimento di un interesse ad aggiungere (o sostituire) per ragioni di natura morale, affettiva o familiare, al cognome paterno quello materno, ai fini di una diversa proiezione sociale della propria identità personale, non può che essere eccezionale, altresì legato alle specifiche circostanze che qualificano la situazione, in modo tale che quell’interesse, nel caso specifico, possa essere considerato meritevole di tutela(15).
In posizione speculare si pone, in nome dell’eguaglianza e della pari dignità, l’interesse della madre – questa volta in via di principio – a veder identificato il figlio anche con il proprio cognome, insieme con quello paterno. Per lungo tempo nella nostra esperienza un’esigenza di tal sorta emerge soltanto nelle ipotesi in cui si verifica un cambiamento di stato (adozione, legittimazione, riconoscimento del padre successivo a quello della madre nella filiazione naturale e così via) tale da modificare il cognome precedente e solamente per quanto corrisponde al diritto del soggetto di conservare anche il vecchio cognome come segno distintivo della propria identità.
Nella decisione del 16 febbraio 2006, n. 61 la Consulta, pur giudicando inammissibile la questione di legittimità costituzionale, riconosce la “disarmonia tra il sistema di trasmissione del cognome e l’attuale configurazione delle relazioni matrimoniali, fortemente improntate al principio paritario” ma “si arresta di fronte alla declaratoria di illegittimità nel timore del vuoto legislativo conseguente alla pronunzia”, limitandosi a dichiarare l’opportunità che il legislatore introduca un differente sistema di attribuzione del cognome, come del resto già da tempo dottrina, giurisprudenza di merito, giurisprudenza comunitaria e fonti internazionali caldeggiavano(16).
Un differente approccio alla questione – che tuttavia non ha avuto seguito – è proposto due anni dopo dalla Corte di Cassazione(17) la quale, sulla scorta del principio costituzionale per cui il legislatore ordinario è tenuto a rispettare gli obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale, pena la violazione dell’art. 117 cost., ipotizza, alla luce del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, della Convenzione di New York del 1979 e della CEDU, il potere del giudice di leggere in senso costituzionalmente orientato la norma sull’applicazione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, almeno in presenza di concorde, difforme volontà dei genitori. Per la Corte, vieppiù, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona consentirebbe l’applicazione diretta delle norme del Trattato e di quelle cui il Trattato rinvia, nonché un controllo di costituzionalità tra diritto interno e diritto comunitario, dal momento che si tratta di diritti fondamentali della persona.
I giudici di legittimità, dunque, spostano il problema dalla competenza regolamentare di carattere generale, spettante esclusivamente al legislatore, alla regolamentazione del caso concreto e dunque alla derogabilità o meno della norma implicita di sistema, sostenendo che i coniugi possano limitare negozialmente l’automatismo nell’attribuzione del cognome paterno.
Più recentemente, la questione della legittimità dell’automatismo nell’attribuzione e nella trasmissione del cognome paterno è stata risolta negativamente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza n. 77/2014, la quale l’ha affrontata nella duplice prospettiva della tutela della vita privata e familiare (art. 8 CEDU) e del principio di non discriminazione di genere (art. 14 CEDU), giungendo a concludere che la trasmissione del cognome materno è un diritto fondamentale a valenza generale, il cui esercizio viene precluso dall’attuale sistema normativo italiano, senza che possano giustificarne il sacrificio ragioni di interesse pubblico prevalente, data l’inattualità del richiamo all’unità familiare. L’interesse statuale a regolamentarne l’uso dunque non è illegittimo in sé, ma “nella misura in cui esclude la configurabilità di un diritto strettamente personale di concorrere alla determinazione del cognome da trasmettere al proprio figlio, per di più operando una irragionevole disparità di trattamento tra i genitori”(18).
Anche dopo tale pronunzia rimane imprescindibile l’intervento del legislatore interno, il quale però è stavolta obbligato a conformarsi alla sentenza in adempimento di un obbligo convenzionale: obbligo, al momento, ancora inadempiuto, dato che il Testo unificato, improntato alla più ampia libertà di scelta dei genitori nell’attribuzione del cognome, che fu celermente approvato alla Camera, non è mai approdato al Senato e solo da qualche mese è stato riproposto.
Nel frattempo, la Corte costituzionale(19), ponendo fine alle sue esitazioni, ha finalmente eliminato il necessario automatismo nell’attribuzione del cognome paterno, ammettendo la derogabilità della norma implicita di sistema tramite un negozio familiare tra i genitori.
Centrale nell’argomentazione è l’esigenza di valorizzare in ogni suo aspetto l’identità personale, per la cui tutela la Consulta rafforza la propria funzione garantista di diritti costituzionalmente rilevanti, con una pronuncia di accoglimento anche laddove necessiti l’intervento discrezionale del legislatore. La preclusione della possibilità di attribuire il cognome materno, e dunque della possibilità per il figlio di essere identificato anche con riferimento al ramo materno, pregiudica il diritto all’identità personale del minore oltre a perpetuare una irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, non più giustificabile con la salvaguardia dell’unità familiare.
Concorrente è il secondo profilo di illegittimità, la violazione del principio di eguaglianza dei coniugi, che non trova giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare (art. 29, co. 2, cost.), in quanto è proprio l’eguaglianza a garantire l’unità mentre la diseguaglianza la mette in pericolo. La mortificazione del diritto della madre a trasmettere al figlio il proprio cognome costituisce violazione del principio di eguaglianza «morale e giuridica» dei coniugi e, dunque, contraddice quella finalità di garanzia dell’unità familiare sistematicamente indicata come ratio giustificatrice di eventuali deroghe alla parità coniugale, come più volte la Corte aveva già stigmatizzato.
- La materia del cognome non è l’unica in cui il legislatore del 1975 aveva perpetuato disparità di trattamento fra uomo e donna, in contrasto con il principio di eguaglianza.
In ordine alla potestà dei genitori, l’art. 316, comma 1, c.c., attribuiva al padre il potere di adottare provvedimenti urgenti ed indifferibili in caso di incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio, cagionando un evidente vulnus al principio della perfetta parità tra i genitori nell’esercizio della potestà, di assai dubbia costituzionalità.
Occorrerà attendere altri quarant’anni perché il legislatore, con la legge di riforma della filiazione, eliminasse tale disposizione, realizzando così appieno il principio di eguaglianza fra padre e madre nell’esercizio della responsabilità genitoriale nei confronti della prole.
Il discorso in merito alla piena attuazione del principio di eguaglianza fra uomo e donna nelle relazioni familiari non può, inoltre, esaurirsi nell’analisi delle sole disparità formali, ma deve estendersi alle ipotesi di diseguaglianza sostanziale tra i coniugi, molto frequenti anche nell’attuale realtà sociale.
Un primo, drammatico ambito in cui la situazione concreta di debolezza della donna non trovava, fino a poco tempo fa, un rimedio efficace da parte del legislatore era quello della violenza nelle relazioni familiari.
Quotidianamente all’attenzione della cronaca si pongono violenze e sopraffazioni perpetrate dall’uomo nei confronti della donna. La famiglia, teoricamente luogo degli affetti, è di fatto il primo ambiente nel quale si consumano abusi sulle mogli e sulle figlie.
La violenza implica una “drammatica asimmetria”, una posizione di diseguaglianza di fatto fra le parti della relazione che richiede di essere superata, ai sensi degli artt. 3 e 9 cost., per cui è compito della Repubblica “promuovere le condizioni affinché la libertà e l’eguaglianza dell’individuo e dei gruppo dei quali fa parte siano reali ed effettivi; rimuovere gli ostacoli che impediscono o rendono difficoltosa la sua pienezza e facilitare la partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica, economica, culturale e sociale” del Paese.
Con la l. n. 154/2001, sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari, si è finalmente dato vita ad un sistema articolato di norme volte a contrastare ogni forma di violenza commessa, all’interno del nucleo familiare, ai danni del convivente più debole, prevedendo una tutela inibitoria nei confronti delle condotte del coniuge o di altro convivente che causino grave pregiudizio all’integrità fisica o morale o alla libertà dell’altro coniuge o convivente.
- Sul versante patrimoniale, invece, tuttora permangono disparità di fatto nei confronti delle quali mancano adeguati strumenti di tutela.
Si è già detto come il regime di comunione legale degli acquisti sia stato introdotto dal legislatore del 1975 per tutelare maggiormente il coniuge debole, che quasi sempre era allora la donna. A partire dagli anni Settanta, tuttavia, è sempre più in crescita il numero dei coniugi che scelgono la separazione dei beni, sia per la complessità della disciplina legale, sia per la diffusa instabilità matrimoniale.
Questa trasformazione è suscettibile di ripercuotersi sulla parità tra i coniugi, soprattutto in caso di divorzio, quando uno dei due non lavori e non abbia redditi propri. Ciò a ragione della natura assistenziale dell’assegno di divorzio, la cui determinazione sembrerebbe ora prescindere dall’aspetto compensativo e risarcitorio che, secondo dottrina e giurisprudenza anteriori alla riforma del 1987, erano alla base della sua attribuzione e commisurazione.
Sebbene, infatti, i suddetti aspetti ricorrano ancora come criteri di quantificazione dell’assegno, l’unico presupposto per la sua attribuzione è rappresentato dallo stato di bisogno del coniuge che non ha mezzi adeguati e non può procurarseli per ragioni oggettive.
La situazione del coniuge debole (per lo più la donna) si è ulteriormente aggravata a causa dell’orientamento restrittivo recentemente adottato dalla Suprema Corte, ma per fortuna non costantemente seguito dalle corti di merito e recentissimamente parzialmente corretto dalla Corte di cassazione, recuperando il profilo compensativo dell’assegno. Infatti la sentenza n. 11504 del 2019, nel mutare il precedente orientamento per cui lo stato di bisogno non andava inteso in senso assoluto bensì relativo, come concreta inidoneità del coniuge e mantenere il tenore di vita goduto – o che avrebbe potuto godere – in costanza di matrimonio, ha ravvisato il presupposto dell’assegno postmatrimoniale nella sola mancanza di autosufficienza economica, ovverosia nell’incapacità di provvedere alle fondamentali esigenze di vita(21).
Di là dall’incoerenza logica della decisione, in ogni caso, il suo risultato pratico è esattamente quello che il legislatore voleva evitare, e cioè che il divorzio penalizzi il coniuge debole.
- Analogo risultato è raggiunto, per altri versi, dalla nuova disciplina in materia di separazione e divorzio ed in particolare dal d.l. n. 132/2014, convertito in l. n. 162/2014, recante “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”. Con questa riforma l’ago della bilancia tra autonomia privata e controllo pubblico ha finito per pendere decisamente a favore della prima, ponendo al giurista il delicato problema di una ridefinizione complessiva dei limiti e dei confini dell’indisponibilità dei diritti connessi allo status familiae, ma, a ben vedere, anche e soprattutto dello stesso istituto matrimoniale.
Finora, nei rapporti tra i coniugi, l’autonomia privata si è infranta – anzitutto – nell’impatto con il principio di indisponibilità dello status coniugale, persistente fino alla pronunzia di scioglimento del matrimonio, quale logico corollario della natura d’ordine pubblico normativo della disciplina dei rapporti familiari.
Di conseguenza, separazione consensuale e divorzio su domanda congiunta, pur essendo i momenti più significativi di emersione della negozialità nel diritto di famiglia, hanno sempre rispettato il principio della necessaria giudizialità dei procedimenti di mutamento di status, pur con le debite differenze tra il mero allentamento ed il definitivo scioglimento del vincolo.
Da una lettura assiologicamente orientata degli istituti emerge, inoltre, come il principio di solidarietà economica possa e debba ritenersi valevole anche nella fase patologica, tanto nella separazione quanto nel divorzio, imponendo di riconoscere l’inderogabilità degli obblighi di natura patrimoniale finalizzati a garantire al beneficiario un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso. Una conferma di ciò può venire, ad esempio, dalla disciplina dell’accordo sulla liquidazione una tantum dell’assegno divorzile, che sottrae alla clausola rebus sic stantibus la determinazione convenzionale: accordo il quale è subordinato al controllo equitativo del giudice, in merito alla idoneità dell’assegno capitalizzato ad assicurare, nel futuro, al coniuge beneficiario adeguati redditi.
L’opposta tesi, avanzata in dottrina, che predica la piena disponibilità dei diritti di natura patrimoniale conseguenti alla separazione e al divorzio, appare in singolare contrasto, oltre che con il principio solidaristico che impronta di sé tutta la disciplina dei rapporti familiari, con la stessa evoluzione normativa in tema di autonomia negoziale, sempre più sensibile alle esigenze di tutela del contraente debole e, in definitiva, di giustizia contrattuale. Ora, proprio nel diritto di famiglia – ove, più che in ogni altra area del diritto civile, “la logica patrimonialistica deve cedere di fronte all’ineludibile salvaguardia delle istanze della persona”(22) – la tutela del coniuge “debole” assurge a principio di carattere generale, direttamente ricavabile dal combinato disposto degli artt. 2, 3 e 29 cost., anche nella fase patologica, in cui l’esigenza di protezione si fa anzi più intensa.
Per quel che qui interessa, è da notare che l’assenza di controlli sull’accordo coniugale, nel caso delle procedure di separazione e divorzio svolte, ex art. 12, dinanzi al Sindaco, o la presenza di un mero controllo di regolarità, come nei procedimenti di negoziazione assistita ex art. 6, svolti, in mancanza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, ovvero economicamente non autosufficienti, dinanzi al p.m., insieme alla mancata previsione di poteri di impugnazione del provvedimento finale, inducono ad avvalorare il sospetto che il legislatore abbia inteso limitare i diritti indisponibili a quelli dei figli. E i diritti del coniuge debole?!
Anche nella disciplina della fase fisiologica del vincolo coniugale non mancano criticità derivanti dalla frequente diseguaglianza di fatto fra marito e moglie.
Si pensi, ad esempio, al problema della casa adibita a residenza familiare che, ove in esclusiva proprietà di uno dei coniugi (spesso il marito), può, in tal fase – a differenza che in quella patologica – costituire oggetto di atti di disposizione da parte del titolare, senza che l’altro coniuge dissenziente possa contrastare tale decisione o comunque tutelare i propri diritti e quelli dell’eventuale prole, a differenza di quanto è previsto in materia di separazione e divorzio e di quanto altri ordinamenti europei, come la Francia, stabiliscono (v. art. 215, comma 3, Code civil, secondo il quale gli sposi non possono singolarmente disporre dei diritti attraverso i quali è assicurata l’abitazione della famiglia, né dei beni mobili che l’arredano).
- In linea più generale, si avverte la diffusa tendenza, da parte del legislatore nazionale, sulla scia di quello comunitario, a ridurre la portata del principio di eguaglianza alla semplice parità di trattamento, secondo una parabola inversa rispetto a quella che ha caratterizzato la prima fase di attuazione dei principi costituzionali.
In tale prospettiva, il ruolo della donna nella famiglia, nella società e nella politica “non esclude, anzi espressamente ammette una possibile diversificazione rispetto all’uomo e quindi una sua garanzia specifica anche in funzione di particolari valori costituzionali concorrenti quali l’unità familiare e la maternità. Una diversità di posizioni, dunque, dalla quale, può certamente discendere una diversificazione di trattamenti che riconoscono la pari dignità, pur nella diversità, e che non pretendono di negare il diverso ruolo della donna nella società e nella famiglia, ma di riconoscerlo e di valorizzarlo”.
Da questo punto di vista, la porta dell’eguaglianza uomo-donna “si è bensì aperta, magari anche tanto, ma attende ancora di essere spalancata”(24).
L’ordinamento italiano, a differenza di altre esperienze europee, come ad esempio quella tedesca, conserva alla donna un privilegio che si giustifica soltanto con riferimento agli artt. 2 e 32 della costituzione.
La ratio della disciplina che attribuisce alla madre la possibilità di non essere nominata al momento della nascita del figlio (c.d. “parto anonimo”) risiede nella esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi perturbamento, connesso alla più eterogenea gamma di situazioni personali, ambientali, sociali e culturali, tali da generare l’emergenza di pericoli per la salute psicofisica o la stessa incolumità di entrambi e da creare, al tempo stesso, le premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili. Oggetto di tutela sono, dunque, certamente, la salvaguardia della vita e della salute della donna e del neonato da un lato ma dall’altro s’impone il diritto del figlio di conoscere le proprie origini e di accedere alla storia parentale, intesi come aspetti della personalità, che possono condizionare l’intimo atteggiamento e la stessa vita di relazione di una persona in quanto tale.
La tutela della salute psicofisica della donna è alla base anche della sentenza della Corte Costituzionale n. 278/2013, che ha ritenuto incostituzionale l’art. 28, co. 7 della L. 184/1987 sulle adozioni, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai sensi dell’art. 30, co. 1 del D.P.R. 396/2000, attraverso un procedimento stabilito dalla legge che assicuri la massima riservatezza e su richiesta del figlio, mediante interpello diretto ad assumere dalla madre l’eventuale revoca di siffatta dichiarazione.
Lasciare alla donna la possibilità di cambiare idea è, esso stesso un diritto che incide sulla salute psicofisica. Attualmente, benché vi sia un disegno di legge in itinere che ha già superato il vaglio della Camera, non vi è una razionalizzazione delle modalità di interpello della madre ma la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza n. 1946 del 2017, ha affermato che la summenzionata pronuncia della Consulta contiene non solo l’addizione di un principio ma anche una regola chiara circa l’opportunità di interpello della madre, da parte del giudice, su richiesta del figlio. Il giudice è chiamato, dunque, ad individuare e dedurre la regola del caso concreto a lui sottoposto, desumendola dai testi normativi e dal sistema, di cui fa parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte Costituzionale(25).
- Difficile risposta sembra ricevere l’interrogativo se nella società attuale vi siano vulnus del principio di eguaglianza e di pari dignità morale e sociale derivanti dalla diversità di genere nel settore della contrattualistica e del mercato. Ovviamente, non entro in specifiche questioni appartenenti al profilo lavoristico e alla tutela della donna lavoratrice sia sotto l’aspetto della garanzia della retribuzione equivalente sia sotto quella della tutela di aspetti esistenziali. Né peraltro intendo affrontare – impresa che necessita di approcci specifici – il profilo della donna imprenditrice, anch’esso variegato e multiforme. Panorama tuttavia che sembra dominato più dalla nozione di empowerment, che presuppone da parte dei pubblici poteri la messa in atto di interventi volti a realizzare l’obiettivo di promuovere la partecipazione sempre maggiore delle donne ai processi decisionali in ambito economico – come anche in quello politico -.
Per quanto attiene al settore dei contratti, l’opinione più diffusa è che gli strumenti che l’ordinamento offre in altri campi del diritto per contrastare comportamenti discriminatori non operino con altrettanta efficacia in questo specifico settore, poiché il divieto mal si concilia con il consueto concetto di autonomia contrattuale. A tal punto, si dubita che sia utile o opportuno appellarsi soltanto al principio di parità di trattamento, poiché potrebbe o non essere invocabile o condurre a conseguenze non volute dalle parti in causa, neanche da quella che soffre delle condizioni meno fortunate di partenza. Soccorre a tal proposito il richiamo delle tematiche che ritengono non coincidenti i due principi: quello di parità di trattamento e quello di non discriminazione, e neanche necessariamente legati l’uno all’altro, nel senso che il primo presupponga sempre il secondo. E ciò anche alla luce della normativa antidiscriminatoria sia comunitaria sia nazionale, che deriva dalla prima(26): è da respingere l’idea che, negli scambi contrattuali, la discriminazione si riduca sempre a disparità di trattamento. La discriminazione si atteggia sempre, nella prospettiva che stiamo seguendo, come violazione della dignità della persona, anche quando non vi sia pregiudizio economico. Tale considerazione, se ci riflette, è foriera di importanti implicazioni(27): secondo. la normativa vigente nel nostro ordinamento come in quello europeo l’autonomia dei privati non può essere esercitato in spregio del principio di dignità(28).
Quel che mi intriga e che vorrei sottoporre all’attenzione, per trarne le debite conseguenze – caso mai ve ne fossero – appartiene a certi momenti del pensiero femminista che possono far riflettere sulla eterogenesi dei fini: ovvero, come per vie differenti, partendo da concezioni assolutamente opposte si possa comunque giungere alle medesime conclusioni. E mi riferisco in particolare a ciò che rimane del pensiero femminista dopo la rivoluzione queer degli anni novanta(29). Superata la fase della pretesa di perfetta parità e del diniego della differenza, coniugata nelle infinite forme assunte dalle teorie del femminismo giuridico per analizzare e comprendere la matrice di genere ed i rapporti di potere che si nascondono dietro l’apparente universalità e neutralità delle regole; superato il periodo della rivendicazione di diritti civili e politici (anni settanta); trascorso anche quello della rivendicazione della differenza e dunque dell’obbiettivo dell’eguaglianza sostanziale, si approda ora, dagli anni novanta in poi del passato secolo, a una critica che non ha come presupposto la differenza tra uomo e donna, anzi. E ci s’interroga su come ciò si rifletta nel campo delle teorie contrattualistiche, cioè della negoziazione che non si collochi all’interno del diritto del lavoro o dell’attività d’impresa.
Punto di partenza, relativamente al profilo dell’equilibrio contrattuale basato sulle condizioni soggettive di ciascun attore nel settore del diritto, è come ovviare alle differenze evidenti di impatto sul piano sociale, economico e giuridico esistenti tra uomo e donna, quali che siano le radici di tale diseguaglianza e quali che siano gli obbiettivi e gli strumenti di superamento che individuano le innumerevoli correnti del femminismo giuridico di oltre oceano. Momento cruciale, a mio avviso, a partire dagli anni novanta del secolo passato, è la messa in discussione dello stereotipo dell’homo oeconomicus, espressione della razionalità e dell’egoismo individuale, al contrario della donna spinta da impulsi di collaborazione e di cura. Non è un caso che a partire da quegli anni vi sia la riscoperta e la rivalutazione degli scritti di Karl Polanyi, il cui approccio filosofico tende a negare siffatte generalizzazioni, secondo le quali le spinte altruistiche e collaborative appartengono soltanto ad un genere e viceversa. Si assiste oggi ad un rinnovato interesse per il pensiero filosofico, economico, antropologico e sociologico di Karl Polanyi(30). A lui si rivolgono molti studiosi delle fenomenologie sociali contemporanee – quali la globalizzazione e le sue conseguenze -, che non ritengono l’economia un’attività separabile ed isolabile dal resto delle attività umane e non credono nelle virtù autoregolatrici del mercato. Grazie a questi studi sono state analizzate molte forme di scambio “non economico” che avvengono nella nostra società contemporanea, come ad esempio il volontariato, le economie informali e via enumerando(31).
Il fatto è che il pensiero attuale tende a respingere ogni forma di generalizzazione legata a stereotipi di genere per esaltare invece le differenze che individuano ciascun essere umano a prescindere dal fatto di essere dell’uno e dell’altro sesso: il che equivale a mettere in crisi la prospettiva contrattuale liberale, perché essa guarda all’individuo in astratto e lo costruisce come un soggetto che non sempre in concreto rispecchia la realtà né di tutti gli uomini né di tutte le donne. Si sposta allora l’attenzione sulla debolezza di posizione dell’una e dell’altra parte contrattuale, individuando le strategie di tutela. Ad esempio, quando si tratta di convenzioni matrimoniali pre o post divorzio, si guarda al coniuge che durante il matrimonio è economicamente dipendente dall’altro e il concetto di dipendenza economica si allarga anche ad altre relazioni contrattuali. Il problema dell’esercizio dell’autonomia contrattuale in condizioni di “libertà” non è più collegato alla razionalità della scelta – e dunque alla maggiore o minore capacità di compiere scelte razionali -, bensì alla debolezza economica e alle conseguenze anche future della medesima.
Se queste brevi note possono essere di qualche utilità, forse è perché da esse risulta il superamento del timore reverenziale per il canone dell’homo oeconomicus e per la corrispondenza biunivoca fra maschile/femminile e relazioni di dominio: dunque anche le culture femministe sono giunte ad accettare gli strumenti di analisi che offrono le culture “alternative”. Alle stesse esigenze di tutela per vie differenti, allora? Ma quanto più lineare appare allora l’approccio che prende avvio dalla pari dignità e dalla funzionalizzazione dei rapporti patrimoniali ai profili esistenziali, che si traduce nella possibilità che i negozi patrimoniali, in nome della solidarietà debbano passare il vaglio non soltanto della liceità, ma anche della meritevolezza di tutela; calata tale valutazione nel concreto assetto d’interessi per garantire sotto il profilo equitativo l’assenza di ingiustificati pregiudizi in particolare quando una delle parti contrattuali è svantaggiata da condizionamenti di varia natura. E quanto il principio di solidarietà si colora di accenti peculiari se opera all’interno della famiglia! Se persino il pensiero femminista giunge a queste conclusioni, invocando rimedi tipicamente civilistici, come ad esempio la rescissione o i vizi del volere, contro siffatte sperequazioni, allora forse le vie tradizionali della meritevolezza di tutela in nome dei principi fondamentali più volte qui richiamati risultano non soltanto valide, ma esaltate nella realtà attuale dei traffici economici, indipendentemente dall’appartenere ad un sesso o all’altro.
1. J. RAWLS, A Theory of Justice, Cambridge, Massachusetts, 1971.
2.Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, Massachusetts, 1971.
3. Per tutto quel che concerne la normativa familiare sia consentito il rinvio all’ampia trattazione da me svolta nel mio Manuale di diritto di famiglia, Torino, III ed., 2015 e ivi i riferimenti di dottrina e giurisprudenza.
4. Tra i tanti, F. Ruscello, Famiglia e rapporto uomo-donna. Linee evolutive di una relazione ancora in itinere, in Dir. fam. pers., 2013, p. 1457 ss.
5. Sul collegamento fra principio personalista e principio di eguaglianza cfr. M. G. Rodomonte, L’eguaglianza senza distinzioni di sesso in Italia. Evoluzioni di un principio a settant’anni dalla nascita della Costituzione, Torino, 2018, ed ivi ulteriore bibliografia.
6. G. Rodomonte, op. cit., p. 25 s.
7.Majello, Relazione introduttiva, in AA.VV., Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, Napoli, 1975, p. 4.
8. F. Tommasini, I rapporti familiari tra tradizione e attualità, in Dir. fam. pers., 2018, p. 262.
9. Barile, Eguaglianza dei coniugi e unità della famiglia, in Id., Scritti di diritto costituzionale, Padova, 1967, p. 177.
10. Schlesinger, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. al diritto italiano della famiglia, a cura di G. Cian, G. Oppo e A. Trabucchi, Padova, 1992p. 73.
11. Tommasini, I diritti e doveri reciproci dei coniugi, in Trattato di diritto privato diretto da M. Bessone, Famiglia e matrimonio, I, Torino, 2010, p. 431 ss.
12. Ampiamente sul tema il mio Attribuzione e trasmissione del cognome. Profili comparatistici, in Studi sul diritto di famiglia, Salerno, 2012.
13. C. M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2017, p. 50.
14. G. Pignataro, Cognome familiare e cittadinanza europea tra identità ed autoregolamento, in www.comparazionedirittocivile.it, 2018, p. 11.
15. Pignataro, op. cit., p. 3.
16. Pignataro, o.l.u.c.
17. Cass., ord. 22 settembre 2008, n. 23934, in Foro it., 2008, I, c. 3097 ss.
18. Pignataro, op. cit., p. 10.
19. Corte cost., 21 dicembre 2016, n. 286, in Foro it., 2017, I, c. 1 ss.
20. Cass., 10 maggio 2019, n. 11504; in senso conforme, Cass., 22 giugno 2017, n. 15481.
21. Secondo la Corte, infatti, “il riconoscimento dell’assegno divorzile, nella fase del giudizio in punto an debeatur, prescinde dal parametro di riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio; estinguendosi il rapporto matrimoniale per effetto della sentenza di status divorzile, sia sul piano personale, sia su quello economico-patrimoniale, una tale garanzia per il coniuge economicamente più debole collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto e con i suoi effetti giuridici, incarnando una illegittima ultrattività del vincolo matrimoniale in mera prospettiva economico-patrimoniale; diversamente, l’assegno di divorzio che può essere riconosciuto all’ex coniuge, come persona singola e non già come ancora parte di un rapporto matrimoniale estinto, di natura eminentemente assistenziale, è informato soltanto al criterio dell’inadeguatezza dei mezzi ed alla coincidente condizione soggettiva dell’impossibilità a procurarseli per ragioni obiettive in rispetto del canone di autoresponsabilità dei singoli, da intendersi in mera prospettiva di indipendenza od autosufficienza economica a condurre una esistenza libera e dignitosa, secondo il canone di residuale solidarietà postconiugale esigibile in virtù della pregressa vita comune, a tenore degli artt. 2 e 23 cost.”. Non può non notarsi la contraddittorietà della motivazione, allorquando prima ritiene illegittimità una “ultrattività del vincolo matrimoniale in mera prospettiva economico-patrimoniale”, motivandola anche in ragione della mutata concezione sociale del matrimonio, ormai atto che “è possibile sciogliere con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile”, e poi richiama come ratio dell’assegno “il canore di residuale solidarietà postconiugale”: non si spiega, infatti, “perché mai il coniuge divorziato debba corrispondere gli alimenti a chi per lui è ormai un estraneo”V. in tal senso C. M. Bianca, op. cit., p. 284.
22. C. Donisi, Verso la “depatrimonializzazione” del diritto privato, in Rass. dir. civ., 1980, p. 644 ss.
23. G. Rodomonte, op. cit., p. 33 s.; M. Cartabia, Riflessioni in tema di eguaglianza e non discriminazione, in Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, 2011, p. 416.
24. F. Ruscello, op. cit., p. 1462.
25. Ampiamente sul tema M.G. Stanzione, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Torino, 2015.
26. In particolare, le direttive di seconda generazione 2000/78 e 2000/43, recepite in Italia dai decreti legislativi 9 luglio 2003, n. 215 e n. 216.
27. Sull’argomento cfr., tra gli altri, D. Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, 2007. A. Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, in Riv. crit. dir. priv., 2009, p. 228 ss.; B. Troisi, Il Bel Paese. discriminare: Un male civile. Profili civilistici del divieto di discriminazione, in www.altritaliani.net e V. Bongiovanni, Riflessi privatistici in materia contrattuale del principio comunitario di non discriminazione, in www.comparazionedirittocivile.it
28. A. Manzella, Dal mercato ai diritti, in Riscrivere i diritti in Europa, Bologna, 2001, p. 29 ss.
29. Cfr., ad es. J. Halley, Split Decisions: How and Why to Take a Break from Feminism, Princeton, Princeton University Press, 2006, p. 402 ss. Sul tema l’interessante saggio di M. R. Marella – S. Catanossi, Il contratto e il mercato sono maschili? Teorie de-generi intorno al consenso contrattuale, in AA. VV. Oltre il soggetto razionale, Roma, 2014, con più ampie indicazioni.
30. Polanyi, Per un nuovo occidente. Scritti 1919-1958, a cura di G. Resta e M. Catanzariti, Milano, 2013.
31. Cfr. G. Hardin, The Tragedy of The Common, in Science, 162 (1968), pp.1243 ss., per una critica serrata alle visioni di E. Ostrom, Governing the Common: The Evolution of Institution for Collective Action, Cambridge, 1990. Sul tema, con ampi riferimenti, M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012.