Pubblichiamo il contributo offerto dalla Prof.ssa Agata Amato, in ordine alla questione femminile in ambito costituzionale e presentato in occasione del 68° Convegno dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani.

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La donna e la Costituzione “Senza (e con) distinzione di sesso”

Agata Amato

1. Su 556, com’è noto, furono solo 21 le deputate che nel 1946 vennero elette all’Assemblea Costituente e, di queste, soltanto 5 presero parte alla Commissione incaricata di elaborare la Costituzione. Si tratta di un numero veramente esiguo, ma nonostante questo il contributo delle donne-Costituenti si rivelò determinante perché, malgrado le forti differenze politiche, seppero agire in pieno accordo per far riconoscere i diritti delle donne e delle cittadine (1). Compito questo tutt’altro che agevole, considerando il fatto che la normativa vigente era l’espressione di una cultura fortemente discriminatoria e che il diritto di voto – e più esattamente l’elettorato attivo – fu esteso alle donne (con esclusione delle prostitute) solamente l’anno prima(2); mentre l’elettorato passivo – la cui mancanza fu rilevata da autorevoli voci femminili – venne introdotto nell’ordinamento giuridico italiano proprio in quell’anno(3).

Ebbe inizio così quell’importante movimento in difesa dei diritti dell’uomo e soprattutto della pari dignità e delle pari opportunità che le nostre Costituenti misero al centro del dibattito. Un movimento condotto in nome della consapevolezza che – come affermò Teresa Mattei nella seduta dell’Assemblea Costituente del 18 marzo 1947 – “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo [senza che] sia accompagnato da una piena emancipazione femminile”. Un’emancipazione che non si traduce “solamente [nel] togliere [le] barriere al libero sviluppo [delle] singole personalità femminili, ma [che implica] un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili […] non solamente nel campo giuridico, ma […] [anche] nella vita economica, sociale e politica del Paese”(4).

Attraverso i dibattiti della Costituente, dapprima in seno alla Commissione dei 75 e in seguito nelle Sottocommissioni e in Aula, il volto della Repubblica via via fu disegnato e i suoi contorni furono tratteggiati anche grazie alla tenacia di Lina Merlin – che nell’articolo 3 comma 1 volle introdurre le parole “senza distinzione di sesso”–, alla determinazione di Teresa Mattei – che nell’articolo 3 comma 2 fece aggiungere l’espressione “di fatto”–, all’insistenza (dettata sia da ragioni morali che da ragioni pratiche) di Teresa Noce sulla diversità di previdenza ed assistenza di cui all’articolo 38. E ovviamente grazie a tutti quegli interventi fatti da tutte e 21 le Costituenti per far sì che le norme costituzionali riconoscessero alle donne nuovi diritti, nella convinzione che da quell’estensione di diritti non avrebbero tratto vantaggio solamente le persone, ma anche gli istituti, i gruppi e le comunità nella loro interezza.

Si badi, nella Carta fondamentale sono molte le ripetizioni. Ripetizioni dettate dal fatto che i Costituenti – e soprattutto le Costituenti – erano ben consapevoli delle difficoltà che si sarebbero dovute affrontare (e superare) per realizzare un costume sociale e un sistema giuridico di sostanziale ed effettiva parità. Di qui, la necessità di ribadire più volte il principio paritario. Principio che si incontra, ad esempio, nell’articolo 29, comma 2: “il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, e che si incontra anche nell’articolo 30, comma 1: “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”.

Il fatto che vi sia stata una tale necessità è dimostrato anche dai diversi dibattiti della Costituente. Si pensi, tra i tanti, a quello riguardante la norma sull’accesso alla Magistratura e, in particolare, sull’introduzione o meno della limitazione della nomina delle donne, attraverso la formula nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Sul punto, nella seduta plenaria del 31 gennaio 1947, Giovanni Leone – condividendo tale limitazione – affermava:

“Che la donna possa partecipare, con profitto per la società, a quella amministrazione della giustizia, dove più può far sentire le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità, non può essere negato. […] [la] giuria […] [i] procedimenti […] [che] richiedono un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare  […] il Tribunale dei minorenni […]. Ma, negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.

Parole rivelatrici di una certa visione, alle quali Maria Federici così obiettava:

“quando si stabilisce che il merito e la preparazione sono i soli elementi discriminatori per quanto attiene alla possibilità di aprire tutte le carriere alla donna, non vi è da aggiungere altro. Quando invece si parla di facoltà, di attitudini, di capacità, si portano argomenti deboli, che offendono la giustizia […] si lasci il criterio della preparazione e del merito, che può essere accettato dalle donne in genere e anche dalla coscienza nazionale, nel momento in cui si sta elaborando la Costituzione”.

In replica a Giovanni Leone e in assonanza con Maria Federici, si esprimeva anche Nilde Iotti(5).

Battute senza dubbio indicative di un dialogo serrato e costruttivo, che emerge dai lavori preparatori, lavori ai quali si rinvia, perché quelle 21 autorevoli voci di donna possano continuare a risuonare e a concorrere nella lunga marcia verso l’uguaglianza. Una marcia che è ancora in corso sia sotto il profilo sociale, sia sotto quello giuridico, tanto in relazione alle pari possibilità di accesso alla vita politica ed economica, quanto in termini di garanzie e tutele lavorative (opportunità di accesso al mondo del lavoro, tutela delle madri lavoratrici, protezione dei minori).

2. Per il nostro tema, La donna e la Costituzione, i principi fondamentali solennemente affermati dalla Carta sono:

l’eguaglianza davanti alla legge (art. 3 comma 1: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni politiche, di condizioni personali e sociali”);
l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”);
la protezione della maternità (art. 31: “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù favorendo gli istituti necessari a tale scopo”);
la parità nel lavoro (art. 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”);
la parità nella partecipazione politica (art. 48: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale, uguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”; art. 117, comma 7: “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”);
la parità nell’accesso alle cariche pubbliche (art. 51: “Tutti i cittadini, dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”).
Si tratta di un nucleo essenziale di principi che, a ben vedere, si inserisce in una sorta di tripla cornice, costituita dalle idee che:

la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale;
la democrazia deve essere reale, con la partecipazione effettiva di tutti i cittadini e con la rimozione di tutti quegli ostacoli che impediscono la sua realizzazione;
l’eguaglianza deve essere intesa quale trattamento eguale in situazioni eguali e diseguale in condizioni diseguali.
Così infatti si espresse la Corte Costituzionale con la sentenza 3/1957: il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge non va letto nel senso, che “il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale. Ma lo stesso principio deve assicurare a ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione. La valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l’osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma del citato art. 3”.

Nell’articolo 3, comma 1, innanzitutto, è sancito il principio della pari dignità sociale, per il quale nessuno può ergersi a giudice della dignità altrui, né può propalare fatti o giudizi sulle persone abusando della libertà di manifestazione del pensiero; la medesima disposizione, in secondo luogo, prevede il principio di eguaglianza formale, ovvero che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, il che implica che a parità di condizioni (di fatto) la legge non può disporre trattamenti differenziati e che questi sono invece ammissibili solo allorquando le situazioni soggettive non siano concretamente le medesime; infine, sempre l’art. 3, comma 1, dispone l’eguaglianza al di là delle singole e diverse appartenenze (sesso, razza, lingua, religione, politica) e delle particolari e differenti condizioni (economiche, sociali, personali).

Unitamente ai principi dell’art. 3, comma 1, è sancita nel comma 2 l’eguaglianza sostanziale, in considerazione del fatto che l’eguaglianza di fronte alla legge – nobile, ma astratto proclama – non è di per sé stessa sufficiente, dal momento che possono aversi divari culturali e sociali che nei fatti precludono il pieno sviluppo della persona (donna o uomo che sia) e la reale partecipazione alla comunità. Del resto che l’eguaglianza formale da sola non sia sufficiente, lo sottolineava già Angela Gotelli che, a proposito dell’accesso delle donne con funzioni direttive apicali nella Magistratura, con garbata ironia notava: “permettere alle donne di arrivare agli alti gradi della Magistratura non significa portarcele per forza. Gli uomini avranno sempre la possibilità di lasciarle indietro, qualora abbiano possibilità e meriti maggiori”(6).

I principi solennemente affermati dalla Carta fondamentale (e cioè: l’eguaglianza formale e sostanziale, l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, la protezione della maternità, la parità nel lavoro, la parità nella partecipazione politica e la parità nell’accesso alle cariche pubbliche) determinano – e al contempo richiedono – che si diano sviluppi normativi e giurisprudenziali che siano capaci di tradurli nella pratica e di realizzarli concretamente. Solo qualche esempio. Con riguardo all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, decisiva fu la sentenza della Corte Costituzionale del 19 dicembre 1968, n. 126 (nonché quella del 1969, n. 147), a seguito della quale l’adulterio femminile non fu più considerato reato e non venne più punito con la reclusione sino ad un anno. Sotto questo profilo, significative sono state altresì la legge 19 maggio 1975, n. 151, con la quale è stato riformato il diritto di famiglia e la legge 5 agosto 1981, n. 442, con la quale è stata abrogata la rilevanza penale della causa d’onore.

Con riferimento, poi, alla protezione della maternità non si può non menzionare la legge 26 agosto 1950, n. 860 – “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” – che ha introdotto il divieto di licenziamento dall’inizio della gestazione fino al compimento del primo anno di età del bambino; nonché, il divieto di adibire le donne incinte al trasporto e al sollevamento di pesi ed altri lavori pericolosi, faticosi o insalubri; e non da ultimo il divieto di adibire al lavoro le donne nei tre mesi precedenti il parto e nelle otto settimane successive. Legge, questa, che successivamente verrà modificata dalla Legge 9 gennaio 1963, n. 7 – “Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche alla legge 26 agosto 1950, n. 860: “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” – che abolì le cd. clausole di nubilato, ossia la possibilità di procedere al licenziamento delle lavoratrici a seguito del matrimonio.

Con specifico riferimento alla parità nel lavoro è utile richiamare le leggi: sulla parità retributiva (1956), sul lavoro a domicilio (1958), sul divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso (1977), sulle azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro (1991) e in tema di imprenditoria femminile (1992), contro le dimissioni in bianco (2007).

Rispetto alla parità nella partecipazione politica di rilievo è la legge 25 marzo 1993, n. 81 – “Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale” – alla quale si deve l’introduzione delle c.d. quote rosa, quote che vennero annullate nel 1995 dalla Corte Costituzionale. Ma l’esigenza di una rappresentanza paritaria delle donne nella vita pubblica ha continuato ad essere sentita soprattutto nelle rappresentanze locali e regionali. Così, dopo la riforma costituzionale del Titolo V (1999/2001) e degli Statuti speciali (2001) le leggi elettorali regionali comprendono diffusamente tanto disposizione sulle liste volte a includere candidati di entrambi i sessi, già dal 2002, quanto la cd. preferenza di genere (per la prima volta introdotta dalla legge campana, n. 4 del 2009). E rispetto a questa legislazione ha finito con l’adeguarsi anche il legislatore statale, il quale modificava la legge elettorale della Camera dei deputati e quella del Senato della Repubblica e introduceva tra i principi fondamentali della legislazione elettorale regionale (legge n. 165 del 2004), a norma dell’art. 122 Cost., la “promozione delle pari opportunità tra donne e uomini dell’accesso alle cariche elettive” (legge 23 novembre 2012, n. 215, successivamente ulteriormente arricchita dalla legge 15 febbraio 2016, n. 20).

Da qui in avanti le disposizioni sulla composizione delle liste nel rispetto delle pari opportunità e quelle sulla preferenza di genere si sono diffuse nella legislazione elettorale statale. La stessa legge n. 52 del 2015 (cd. Italicum) per l’elezione della Camera dei deputati(7), mai applicata, stabiliva che i candidati fossero indicati prospettando un’alternanza di sesso all’interno della lista, e che la percentuale dei capilista dello stesso sesso non potesse superare il 60% del totale in ogni circoscrizione (art. 1.1 b). Inoltre, ferma restando la preferenza automatica e bloccata per il capolista, l’elettore avrebbe potuto avere la facoltà di esprimere due ulteriori preferenze per candidati della stessa lista, che però dovevano essere di sesso diverso (art. 1.1 c).

Rispetto alla parità nell’accesso alle cariche già con la legge 27 dicembre 1956, n. 1441, venne inserita la partecipazione delle donne all’amministrazione della giustizia nelle Corti di assise e nei Tribunali per i minorenni, e fu inoltre con la legge 9 febbraio 1963, n. 66 che si affermò il diritto delle donne ad accedere a tutte le cariche, professioni e impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie senza limitazioni concernenti le mansioni o i percorsi di carriera.

Non può poi essere trascurata la legge 20 febbraio 1958, n.75 – “Abolizione della regolamentazione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui”. Tale legge rappresenta un importante risultato ottenuto grazie, sia, alla presenza delle donne nelle aule parlamentari e, sia, all’applicazione degli stessi principi sanciti dalla Costituzione. Si badi, la senatrice Merlin – con l’articolo 3 della legge che porta il suo nome e che commina una sanzione penale detentiva e una multa a chiunque non ottemperi all’ordine di chiusura, a chiunque “recluti una prostituta al fine di farle esercitare la prostituzione”, a chiunque induca alla prostituzione una donna di maggiore età, a chiunque induca una donna a recarsi in un altro stato o luogo diverso dalla sua residenza allo scopo di esercitavi la prostituzione, a chiunque “in qualsiasi modo” favorisca o sfrutti la prostituzione altrui – non pretendeva certo di debellare il fenomeno (impresa che sarebbe stata pressoché impossibile, vista la rabbiosa avversità con cui fu accolta la sua proposta di legge), ma intendeva tentare di adeguare l’ordinamento giuridico a quei principi fondamentali che – se presi sul serio – rimuovono conseguenze e silenzi.

Altrimenti detto, e con le parole di Carol Pateman:

“Nella stipulazione del patto originario è in questione il dominio degli uomini sulle donne e il diritto degli uomini a godere dell’accesso sessuale alle donne in misura eguale. Perciò il contratto originario istituisce sia la libertà che il dominio: la libertà degli uomini e la soggezione delle donne […] [E] il contratto di lavoro e il contratto di prostituzione, entrambi entrati a far parte del pubblico mercato capitalistico, forniscono al diritto maschile un sostegno solido”(8) .

La ricostruzione legislativa sin qui svolta non è un mero elenco di leggi che può annoiare, se non addirittura infastidire l’uditore, bensì serve a mostrare come sia stato più facile per le donne raggiungere l’eguaglianza nell’accesso al pubblico impiego e persino alla Magistratura, e liberarsi dello sfruttamento sessuale nelle “case chiuse”, rispetto all’eguaglianza nell’accesso alle cariche politiche, per le quali bisognerà aspettare il XXI secolo.

3. Senza (e con) distinzione di sesso. I principi costituzionali seguono entrambe le preposizioni. Come detto, i principi della Carta fondamentale ribadiscono innanzitutto l’eguaglianza formale, perché non vi sia alcun dubbio sulla circostanza che anche le donne sono umane e sono cittadine, e che non è giustificata la storia di esclusione di maggioranze o di minoranze – in particolare di donne, di singoli e di gruppi – così trattate a causa della loro diversa forza, del loro diverso carattere, del loro differente costume, in breve, della loro estraneità. È ribadita inoltre l’eguaglianza sostanziale, perché i proclami non si trasformino in nobili menzogne.

Solo due esempi: una disciplina che regolasse in modo eguale il lavoro svolto dalle donne in stato di gravidanza e quello svolto dalle altre donne o dagli uomini sarebbe una disciplina eguale e senza distinzione di sesso, ma si presterebbe a contravvenire al principio costituzionale che protegge la maternità, in ragione del quale le donne incinte nei posti di lavoro possono essere trattate in modo diverso, con riguardo non solo agli uomini, ma anche alle altre donne.

Del resto è innegabile che quando vi siano delle differenze soggettive, proprio queste differenze possono giustificare trattamenti legislativi di favore volti a ridurre o a rimuovere le diseguaglianze reali.

Altro esempio: una disciplina che regolasse in modo eguale la partecipazione politica non riuscirebbe a superare quel gender gap, alimentato dalla tradizionale e sistematica esclusione (e auto-esclusione) delle donne dalle cariche politiche. In breve: una disparità originata da condizioni oggettive. Di qui la necessità delle garanzie di accesso in modo paritario per donne e uomini alle cariche politiche. Previsioni ad hoc che rispondono alle esigenze di giustizia, come richiamata dagli artt. 3, 51 e 117, comma 7, e che soddisfano la questione della rappresentanza democratica, valorizzando la differenza di genere.

D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale – smentendo la pronuncia del 1995 – nella sentenza del 10 febbraio 2003, n. 49, sottolineava come l’esigenza di realizzare l’effettiva parità tra i sessi nell’accesso alla cariche elettive, ancora mortificata a sfavore delle donne, rappresentasse la causa del “permanere degli effetti storici del periodo nel quale alle donne erano negati o limitati i diritti politici, sia al permanere, tuttora, di ben noti ostacoli di origine economico, sociale e di costume suscettibili di impedirne una effettiva partecipazione all’organizzazione politica del Paese”. Una situazione, questa, che richiedeva una limitazione dell’autonomia decisionale dei partiti nella misura in cui era necessaria a dare concretezza alla parità di accesso delle donne nelle assemblee rappresentative.

Di nuovo, nella sentenza del 2010, n. 4(9), la Corte ribadisce la legittimità delle preferenze di genere, che non rappresentano un meccanismo costrittivo, bensì un meccanismo promozionale, che non incide sui diritti fondamentali di elettorato attivo e passivo: “Il primo – scrive la Corte – perché l’elettore può decidere di non avvalersi di questa ulteriore possibilità, che gli viene data in aggiunta al regime ormai generalizzato della preferenza unica, e scegliere indifferentemente un candidato di genere maschile o femminile. Il secondo perché la regola della differenza di genere per la seconda preferenza non offre possibilità maggiori ai candidati dell’uno o dell’altro sesso di essere eletti, posto il reciproco e paritario condizionamento tra i due generi nell’ipotesi di espressione di preferenza duplice. Non vi sono, in base alla norma censurata, candidati più favoriti o più svantaggiati rispetto ad altri, ma solo una eguaglianza di opportunità particolarmente rafforzata da una norma che promuove il riequilibrio di genere nella rappresentanza consiliare”.

A ben vedere, attraverso l’introduzione del principio di eguaglianza sostanziale, attraverso la previsione di condizioni di lavoro che consentano la conciliazione casa/lavoro, attraverso l’introduzione e il ricorso a metodi che assicurino (o che tentino di assicurare) un riequilibrio della rappresentanza politica tra i sessi (comprese le azioni positive), di fatto, non si fa altro che dar conto (e riconoscere) che l’essere umano non è neutro, che le condizioni soggettive e le condizioni oggettive concorrono a determinare quelle tante e diverse sfumature della persona, e che non è certo sopprimendo la diversità (e la peculiarità) femminile che può essere raggiunta l’eguaglianza.

La nostra Costituzione ha il merito di coniugare, in modo attento, costante e continuo, la generalità e la particolarità. Più esattamente, essa fa suo il principio di non discriminazione che, senza il riconoscimento politico della specificità (che può di volta in volta richiedere anche discriminazioni al rovescio), è solo il riflesso di una precisa cultura, una cultura unica ed egemone, che si limita a cancellare il sistema di dominio basato su differenze di poteri, diritti e doveri, ma non incide sull’ordine gerarchico di subordinazione ed esclusione tipico della logica androcentrica (10) .

Con approccio filosofico-giuridico, si può senz’altro dire che la Costituzione, a suo modo, prende le distanze da quella politica che, nel riconoscere l’identità dei cittadini, muove dal soggetto universale astratto, sessualmente indifferenziato e, nonostante ciò, maschio bianco benestante sano, e apre la via alla politica della differenza. Una politica di giustizia e di eguaglianza sostanziale, in base alla quale ogni essere umano è un individuo unico, originale, irripetibile, e la sua particolarità-specificità è un suo diritto fondamentale.

4. Ma se così, dinnanzi alle tante trasformazioni in atto, all’affermarsi di pratiche diverse anche grazie alla coabitazione di molteplici culture, alla richiesta di nuovi diritti resi possibili grazie all’impiego delle odierne tecnologie, che ruolo può svolgere e svolge la Costituzione italiana? Deve forse restare spettatrice inerte o piuttosto farsi per dir così attrice attiva e reattiva?

Il combinarsi insieme dei principi(11) (di eguaglianza legale, di eguaglianza giuridica, di eguaglianza morale) e dei valori(12) (ad esempio: cultura e ricerca (art. 9, comma 1), famiglia (art. 31, comma 1), maternità (art. 31, comma 2), cooperazione a carattere di mutualità (art. 45, comma 1)), dei diritti (ad esempio: alla libertà (artt. 2, 3, 13, 16), alla salute (art. 32)) e dei doveri (ad esempio, il dovere di mantenere e istruire figlie e figli (art. 30, comma 1), fa sì che di fronte a vecchie o nuove pratiche, che sono espressione delle radici culturali e – come più spesso si dice – identitarie, sia possibile distinguere tra ciò che può essere consentito e ciò che invece non può non essere vietato.

Si badi: se è vero che in certi casi le ragioni di opportunità (culturali, economiche, sociali, politiche) possono richiedere, nel breve periodo, il sacrificio di alcune prerogative e di qualche interesse, anche in nome di soluzioni che neutralizzino e riducano i conflitti, è altrettanto vero che le ragioni giuridiche richiedono che gli uomini e le donne abbiano pari dignità sociale, siano eguali davanti alla legge e che – tanto nel breve così come nel lungo periodo – vengano rimossi tutti quegli ostacoli (culturali, economici, sociali, politici) che di fatto possono limitare la libertà e l’eguaglianza. Sotto questo profilo, la Costituzione svolge senza alcun dubbio un ruolo attivo, perché integra quella dimensione che più di ogni altra – e non solo in nome della gerarchia delle fonti – si erge quale baluardo contro le violazioni dei diritti delle donne: violazioni compiute, talvolta, in ossequio a tradizioni, talaltra, in ottemperanza ad aspettative politiche o economiche e, talaltra ancora, nel rispetto di precetti culturali e/o religiosi.

Ad esempio, la Costituzione, grazie all’art. 3, rappresenta un baluardo contro l’aborto selettivo di genere (13), grazie all’art. 4, costituisce un freno contro le imposizioni a svolgere determinate lavori in sintonia con la tradizione, grazie all’art. 32, rappresenta un freno al ricorso e alla diffusione delle mutilazioni sessuali(14), grazie agli artt. 29-31, contrasta i matrimoni forzati e i matrimoni precoci(15), grazie all’art. 13, combatte la prostituzione e la tratta(16) e, non da ultimo, grazie all’art. 11, si oppone allo stupro etnico(17).

Troppo spesso, violazioni gravi, riduzione in schiavitù, segregazione sessuale, trattamenti crudeli, inumani, degradanti, sono presentati come scelte compiute in nome di esigenze e di appartenenze culturali. Bisogna intendersi sul concetto di cultura e sulla sua forza normativa. Allo stesso modo del termine natura (che può alludere a istinti, impulsi e desideri: naturali, ma anche innaturali, conformi, ma pure contrari alla natura stessa), anche l’espressione cultura si connota per una carica di ambiguità che deve essere superata, se si vuole che essa possa essere ritenuta normativa. In altri termini: non tutte le usanze e le decisioni soddisfano l’essenza della cultura, e cioè quello scatto razionale e spirituale volto a far sì che l’uomo e la donna diventino ciò che devono essere; non tutte le pratiche e le regole rientrano nella determinazione essenziale di cultura, e ciò vale soprattutto per quegli usi e quei costumi che hanno quale scopo principale, per non dire unico, il controllo delle donne sul piano sessuale e riproduttivo.

Se così, è evidente che la Costituzione, con quel suo combinarsi di principi, di valori, di diritti, di doveri, rappresenta il fondamento e il terreno solido su cui continuare a costruire l’edificio dei diritti, in particolare quelli delle donne alla vita, alla libertà, alla salute, all’identità, all’integrità personale, all’istruzione, al lavoro, alla partecipazione politica.

E di fronte ai nuovi diritti? Dinnanzi a richieste e pretese di vario tipo e assai spesso di segno contrario? Anche in questo caso, la Costituzione rappresenta senza dubbio il fondamento e l’opera delle Costituenti si rivela l’architrave su cui continuare a edificare. Con una avvertenza: i filtri delle appartenenze, delle ideologie o anche molto più semplicemente delle inclinazioni, devono essere accantonati e deposti, poiché non qualsiasi forma di vita, con qualsivoglia aspettativa, inclinazione e/o fine, può essere perseguita, ma soltanto quelle in cui i diritti siano tutti compossibili.


1. Diritti che – come sottolinea Francesco D’Agostino – a lungo le donne si sono viste negati per effetto “dei soprusi, delle umiliazioni, delle violenze” di cui “per centinaia, anzi migliaia, di anni” sono state vittime (F. D’Agostino, Ánthropos, Anér, in F. D’Agostino, A.C. Amato Mangiameli, Cento e una voce di filosofia dal diritto, Torino, Giappichelli, 2013, p. 26).

2. Con il D.Lgs. luogotenenziale 1 febbraio 1945, numero 23, ispirato politicamente da Alcide De Gasperi e da Palmiro Togliatti.

3.  Con il decreto del 10 marzo 1946 numero 74, che affermava: “sono eleggibili all’Assemblea Costituente i cittadini e le cittadine italiane che abbiano compiuto il venticinquesimo anno di età”.

4.  La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, Roma, Camera dei deputati – Segretariato Generale, 1970, in part. p. 500.

5.  Ivi, vol. VI, Commissione per la Costituzione, p. 262 s.

6.  Ibidem.

7.Oggetto di decisione di illegittimità costituzionale da parte della Corte (sentenza n. 35 del 2017), che però non ha toccato le disposizioni relative alla composizione della lista.

8. E ancora: “Nella prostituzione, l’oggetto del contratto è il corpo della donna, e l’accesso sessuale a quel corpo. Il fatto che sul mercato siano in vendita corpi in quanto tali, somiglia molto alla schiavitù. […]. Nessuna forma di forza lavoro può essere separata dal corpo, ma soltanto attraverso il contratto di prostituzione l’acquirente ottiene il diritto unilaterale all’uso sessuale diretto del corpo di una donna […]. Nel patriarcato moderno, la vendita dei corpi femminili nel mercato capitalistico implica la vendita di un io in senso diverso, e più profondo, rispetto alla vendita del corpo di un giocatore di baseball maschio o dalla vendita del controllo sull’uso del lavoro (corpo) di uno schiavo salariato. […] Nella prostituzione, gli io delle donne sono coinvolti in un modo diverso rispetto al coinvolgimento dell’io in altre occupazioni. I lavoratori di ogni tipo possono essere più o meno ‘legati al proprio lavoro’, ma la connessione necessaria tra sessualità e senso di sé significa che, per proteggersi, una prostituta deve distanziare se stessa dal ‘proprio uso sessuale’ […]. Quando i corpi delle donne vengono messi in vendita sul mercato capitalistico, i termini del contratto originario non possono essere dimenticati; la legge del diritto sessuale maschile viene affermata pubblicamente, e gli uomini vengono pubblicamente riconosciuti come padroni sessuali delle donne – ecco che cosa c’è che non va nella prostituzione” (Il contratto sessuale. I fondamenti nascosti della società moderna, trad. it., Roma, Editori Riuniti, 1997, in part. pp. 269-271).

9.  Riguardante la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal governo, dell’art. 4.3 della legge elettorale della regione Campania, n. 4 del 2009, che introduceva una preferenza di genere.

10.  Scrive a tal proposito A. Cavarero: “pensato dagli uomini per gli uomini, il principio di uguaglianza lascia appunto intoccata e rafforza quella naturale distinzione fra una sfera pubblica maschile e una sfera domestica femminile che fa delle donne dei soggetti politicamente impensabili, ossia dei non-soggetti” (Il pensiero femminista. Un approccio teoretico, in A.C., F. Restaino, Le filosofie femministe. Due secoli di battaglie teoriche e pratiche, Milano, Mondadori, 2002, in part. pp. 87-88).

11.  Nel senso già indicato da E. Betti (Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, Giuffré, 1949, in part. p. 211 e s.): il principio, rispetto alla norma, presenta un’eccedenza di contenuto deontologico, ovvero quella capacità che ha il principio di colmare la lacuna, di regolare rapporti privi di una precisa disposizione (art. 12, comma 2, prel. c.c.).

12.  Che sono recepiti dalla Costituzione come disposizioni programmatiche e che prefigurano lo sviluppo dell’ordinamento giuridico. Si veda A. D’Atena, Lezioni di diritto costituzionale, Torino, Giappichelli, 2018, in part. p. 28 e ss.

13.  Una pratica questa che sfruttando le più moderne tecnologie biomediche che consentono di conoscere in anticipo il sesso del nascituro (l’ecografia, l’amniocentesi, la villocentesi) e combinandole con il ricorso all’aborto (inteso quale strumento di controllo e di programmazione delle nascite), finisce per rivelarsi – come è stato peraltro sottolineato in più occasioni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, Preventing gender-biased sex selection: an interagency statement OHCHR, UNFPA, UNICEF, UN Women and WHO, Ginevra 2011) – come una delle maggiori forme di violenza e di discriminazione nei confronti delle donne, in quanto compromette persino la loro possibilità (e il loro diritto) di nascere.

14. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, fin dal 1991, ha raccomandato alle Nazioni Unite di adottare l’espressione mutilazioni genitali per tutte le diverse pratiche, nell’intento di rafforzare l’idea che in ciascuna di queste (circoncisione, escissione, infibulazione, ecc.) si è comunque di fronte ad una violazione dei diritti umani delle bambine e delle donne.

15.  Ulteriori considerazioni in A.C. Amato Mangiameli (a cura di), Matrimoni forzati e diritti negati. Le spose bambine – Stelle inquiete. Interventi e confronti, 3, Torino, Giappichelli, 2015.

16.  Un fenomeno questo in continua crescita in Europa e in Italia: cfr. Rapporto sulla tratta degli esseri umani in Europa, a cura di Eurostat e della Direzione Generale Affari interni, Commissione Europea 2013, disponibile on-line; nonché Save The children, I piccoli schiavi invisibili. I volti della tratta e dello sfruttamento, dossier 2014, anche questo disponibile on-line.

17.  Tra i casi più noti di stupro etnico, basti ricordare quanto è accaduto nel 1937 durante la presa di Nanchino, come pure negli anni ’90 in Bosnia e in Ruanda (cfr. S.V. Di Palma, Corpi di donne in guerra. La violenza sessuale in Bosnia e Ruanda e i problemi del dopoguerra, in Studi e ricerche, n. 10, Bologna, Alma Mater Studiorum, 2014, pp. 1-35).