La donna e i “nuovi diritti”: una sfida giusfilosofica
Gabriella Gambino
1.”Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere”(1). L’esortazione di Papa Francesco, così posta in Evangelii Gaudium, non può non interrogare i giuristi cattolici quando si occupano dei diritti delle donne, soprattutto nei paesi occidentali. Siamo eredi di una storia di enormi condizionamenti e violenze che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, e lo rendono ancora molto difficile(2).
Tuttavia, “la forza morale [e spirituale] della donna si unisce con la consapevolezza che Dio le affida in un modo speciale l’uomo. La donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento, […] sempre e comunque, persino nelle condizioni di discriminazione sociale in cui essa può trovarsi”(3). La Chiesa è particolarmente consapevole di questa fortezza e della corresponsabilità che contraddistingue la donna nella missione che Dio le ha affidato e Papa Francesco ripete instancabilmente quanto sia urgente ormai riconoscere alle donne ruoli e presenze nella Chiesa e nel mondo, affinché uomini e donne, in un processo di corresponsabilità e com-partecipazione effettiva, nella complementarietà possano realizzarsi in pienezza.
Ciò premesso, la riflessione dei giuristi cattolici deve poter prendere le mosse da un ripensamento del nostro modo di pensare e comprendere la realtà della donna, a partire da alcuni fondamenti di carattere antropologico e filosofico che, quantomeno, in termini di senso, tentino di recuperare la verità sulla donna, sulla specificità del suo essere persona. Bisogna cioè dare un contributo per promuovere e salvaguardare quelle condizioni giuridiche, sociali e culturali per mezzo delle quali essa possa scoprire e rendere fecondo l’intero significato della sua femminilità e «ritrovare» se stessa (MD 31). Riprendendo Romano Guardini: «L’unico modello per valutare con successo un’epoca è domandare fino a che punto si sviluppa in essa la pienezza dell’esistenza umana», nelle sue declinazioni del maschile e del femminile.
- All’ordine del giorno nella società civile ci sono, infatti, questioni importanti, che rappresentano una sfida per la riflessione bio-giuridica, perché introducono paradigmi inediti nel modo di pensare alcune dimensioni fondamentali dell’essere donna: la sessualità, l’identità, la fecondità, la maternità e la famiglia. Questioni che la pongono in relazione diretta con il maschile. Questioni che emergono, in particolare, dalla legittimazione giuridica di comportamenti e scelte, che si stanno trasformando in diritti giuridicamente esigibili, in pretese soggettive. Pratiche sociali alle quali si accompagna una scarsa attenzione per l’elaborazione del senso delle situazioni in cui le donne si vengono a trovare quando ricorrono ad esse, in una società che tende a lasciarle sole nel prendere decisioni esistenziali sempre più autoreferenziali e sempre meno capaci di appoggiarsi a dinamiche relazionali virtuose, da cui possano scaturire scelte morali davvero libere e buone.
In particolare, il giurista attento ai processi culturali più recenti – che tendono a pervadere il diritto – non può non notare un proliferare insistente di nuovi diritti soggettivi che, come ha osservato la dottrina, sta conducendo ad un vero e proprio traffico di diritti insaziabili(4), per lo più nominati e applicati senza che ad essi si riesca a dare un fondamento chiaro e oggettivo, in relazione a pratiche bioetiche che hanno come protagoniste le donne.
È pertanto doveroso tentare di comprendere come prendono forma tali diritti, quale orizzonte giuridico-filosofico faccia da sfondo al loro continuo proliferare e, soprattutto, quali fattori giuridici o, piuttosto, extra-giuridici intervengano a giustificarli.
Innanzi alla complessità di tali questioni, è possibile prendere le mosse da una prima evidente constatazione, e cioè che la ragione principale di questo proliferare dei “diritti” va probabilmente individuata nel primato del diritto all’interno della società globalizzata. Nel disorientamento etico che caratterizza il nostro secolo, il diritto positivo, infatti, appare dotato di un primato indiscusso rispetto a qualunque altro sistema normativo. All’interno di un orizzonte morale relativista, esso viene considerato l’unico collante della società per supplire con norme, leggi e pronunce dei tribunali alla difficoltà dei singoli di individuare valori morali e criteri universali nelle scelte quotidiane, innanzi a possibilità inedite di gestione della vita umana e nel quadro di correnti filosofiche che hanno ormai sradicato da ogni legame con Dio e con la realtà il nostro modo di pensare il maschile e il femminile.
La percezione collettiva è che se si riescono ad individuare regole esterne capaci di definire situazioni nelle quali l’individuo, da solo, invece, non riesce ad individuare i valori di riferimento, ci si può sentire legittimati a compiere scelte complesse e difficili, sebbene capaci di avere pesanti ricadute etiche sulla nostra vita e su quella di coloro che ci stanno accanto. E’ per questo che nell’ambito del diritto si vanno continuamente configurando nuove categorie giuridiche, alle quali si attribuisce il compito di ridefinire situazioni e fattispecie, capaci di legittimare la più ampia gamma possibile di scelte da parte dei cittadini. In tal senso, il paradigma dei “nuovi diritti” si sta rivelando capace di disarticolare qualunque paradigma etico, inteso come sistema di valori oggettivi e razionali.
Secondo autorevoli antropologi e sociologi del diritto – fra cui John Griffiths e Boaventura de Sousa Santos – l’esplosione dei “nuovi diritti” oggi in corso fa parte di un fenomeno denominato new legal pluralism. All’ideologia giuspositivista e normativista, ancora legata al modello kelseniano di un ordinamento giuridico unitario, coerente e completo, si stanno opponendo molteplici tradizioni normative dal carattere trans-nazionale e trans-statale. Con il termine interlegality, ci si riferisce, in particolare, alle reti normative parallele – sovrapposte, complementari o antagoniste – che di fatto obbligano i giuristi a costanti transazioni e trasgressioni rispetto ai principi generali del diritto dei Paesi di tradizione giuridica affine e che non sono riconducibili ad alcun paradigma normativo unitario preesistente. Le norme, in altre parole, sono in costante elaborazione e le eventuali controversie sono risolte da chi ha il potere di decidere qual è la norma da applicare al caso concreto mediante quella che viene definita una politics of definition of law.
Questa forma di pluralismo giuridico deriva empiricamente dalla pluralità dei codici normativi che coesistono entro società culturalmente, etnicamente, religiosamente segmentate e dalla crescente molteplicità di rivendicazioni di diritti sempre nuovi e in conflitto tra loro, entro uno spazio giuridico globale: una sorta di galassia giuridica nella quale i diritti soggettivi sono in balìa di forze di potere che trascendono le esigenze proprie della giustizia, per lo meno di una giustizia sostanziale.
Va anche considerato che la tendenza al legalismo, che fa apparire i diritti come mero risultato di provvedimenti legislativi o decisioni giudiziarie, mette in discussione l’esigenza imprescindibile di avere nella ragione aperta alla realtà e al vero la fonte ultima dell’ordine giuridico positivo(5). I diritti, interpretati uno in relazione all’altro e dedotti uno dall’altro, possono indurre a forme di ingiustizia irreparabile: si pensi al percorso inarrestabile che dal diritto costituzionale alla salute ha condotto in anni recenti all’elaborazione del diritto alla salute psico-fisica, al diritto all’aborto, al diritto alla salute sessuale e riproduttiva, al diritto al figlio solo sano, al diritto al figlio tout court, e così al diritto alla fecondazione assistita definita terapeutica, inclusa oggi anche l’eterologa, con tutte le sue implicazioni sul concetto di maternità, di genitorialità, e sulla struttura della famiglia(6). È per questo che Benedetto XVI ha ribadito con insistenza che l’elaborazione dell’ordine giuridico non può mai essere un “dedurre da”, ma deve essere un costante “tendere a”: all’armonia tra ragione soggettiva e ragione oggettiva.
- In tal senso, nella riflessione giuridico-filosofica, il tema dei “nuovi diritti” va inquadrato alla luce del rapporto che esiste tra diritto soggettivo e diritto oggettivo(7), tra diritti individuali ed esigenze di giustizia e bene comune.
Secondo un significato generale, il diritto soggettivo indica una pretesa ascrivibile ad una determinata condizione esistenziale dell’individuo munita di tutela giuridica. La dottrina prevalente definisce l’essenza del diritto soggettivo come “signoria della volontà” individuale(8). Nella cultura giuridica moderna, l’affermarsi dei diritti soggettivi è storicamente legato ad un’impostazione individualistica che esalta la libertà e i diritti dei singoli contrapponendoli al potere pubblico dello Stato(9). In altre parole, creando situazioni nelle quali il bene privato della persona, quale individuo autoreferenziale, non solo deve essere sempre tutelato da indebite interferenze da parte del potere pubblico, ma può anche perdere di vista il bene comune, non perché il bene comune non abbia più importanza teoretica in sé, ma perché fulcro dell’ordinamento sono l’individuo e la sua libertà, colta nella sua dimensione ontica – come contrapposizione tra libertà individuali – e non ontologica – costantemente orientata alla realizzazione del bene comune.
Tuttavia, il passaggio dalla facoltà, ossia dalla libertà dell’individuo di “poter fare-poter non fare”, al diritto-pretesa, inteso come poter fare-non poter fare, mette in rilievo quello che oggi è il problema della riflessione gius-filosofica, ossia l’oggetto del diritto soggettivo. Esso, infatti, è costituito da quell’elemento della realtà esteriore al soggetto, che questi può qualificare con un aggettivo possessivo (il mio diritto), e che può modificare, dominare, se ne può appropriare, non perché in sé la realtà oggettiva sia afferrabile o consumabile, ma perché rappresenta quel che il soggetto vuole. Tale realtà fino a pochi anni or sono rimaneva confinata nell’ordine del fare e dei beni disponibili; oggi si è estesa all’ordine dell’essere. È così che l’individuo, attraverso i diritti, può ridefinire la sua identità personale, la sua dignità, il suo essere famiglia, non a partire dalla verità oggettiva delle cose, ma dalla percezione che egli ha della realtà, dando alla propria coscienza un’autorevolezza egocentrica nella individuazione di ciò che è bene/male, giusto/sbagliato. In particolare, in ordine ai temi eticamente sensibili, la propensione ad elaborare un diritto libero, contingente e in continua evoluzione, confacente ai rapidi mutamenti della realtà sociale, conferisce ai singoli la possibilità di rivendicare diritti perfino al di fuori dell’ordine giuridico, purché in armonia con la propria coscienza. In maniera repentina e imprudente, cioè, si può rimettere continuamente in discussione persino l’ordine normativo quando sembra non lasciare al singolo possibilità di realizzazione di sé.
- La concezione individualistica dei diritti trova il suo limite più evidente nel ridurre la conoscenza della realtà entro i confini angusti della ragione soggettiva, come se al di là di essa ci fosse il nulla. Splendida l’immagine di Benedetto XVI quando parla della ragione chiusa, la ragione positivista, incapace di essere aperta alla realtà e alla natura: “Una ragione così chiusa assomiglia a quegli edifici di cemento armato senza finestre (i bunker), in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio […].”(10)
- Che il diritto e, in particolare, la legge siano deformati dalla pervasività di una concezione atomistica dell’individuo è un fatto evidente: ciò vale ancor più per le questioni legate alla donna, colei che più di ogni altro resta pur sempre al centro delle relazioni umane più significative: dalla nascita dei propri figli, fino alla morte delle persone più care.
Ciò è vero più che mai in relazione a leggi che negli ultimi cinquant’anni sono intervenute non solo a regolamentare pratiche sociali fortemente disumanizzanti e disaggreganti per la coesistenza (come l’aborto e l’eutanasia), ma a legittimare sul piano etico e sociale pratiche che consegnano la vita delle donne e dei loro figli nelle mani del mercato, in ogni fase della vita, soprattutto attraverso la medicalizzazione del corpo – sano o malato – gestito e controllato nelle sue espressioni più naturali (con la contraccezione, la diagnosi prenatale selettiva, la sterilizzazione edonistica), e l’annullamento di luoghi e spazi per elaborare dimensioni umane di fragilità (si pensi agli spazi che la riproduzione tecnologica toglie alla donna per elaborare il senso della sofferenza dovuta alla scoperta della propria sterilità, o alla indifferenza pubblica che circonda le donne che si accostano alla drammatica scelta dell’aborto).(11)
È sotto gli occhi di tutti come la donna viva oggi grandi difficoltà dal punto di vista sociale, etico ed economico: segno che qualcosa non sta funzionando. Basti pensare a com’è strutturato il mondo del lavoro, che raramente tiene conto delle esigenze delle madri e delle mogli, di coloro, cioè, che devono e vogliono far valere l’appartenenza a legami personali e sociali forti, e che la gestione economico-utilitaristica della vita sociale rende fragili e irrilevanti. Ogni donna, infatti, è al centro di una rete di relazioni che ha bisogno di poter vivere e realizzare in pienezza, anche quando entra nel mondo del lavoro. Pur tuttavia, l’esperienza dimostra che ancora per troppe donne il lavoro impone spesso una scelta di autoreferenzialità nei propri progetti personali e professionali, che implicano la rinuncia ad alcune dimensioni dell’esistenza, senza poter realizzare le quali, in ultima istanza, siamo infelici. E il primo tra questi aspetti è la maternità. Tra giuristi bisogna ricominciare a parlarne. Perché se la maternità è un modo di essere della Chiesa (la Chiesa è madre, ha ripetuto più volte Papa Francesco di recente) e un atteggiamento attraverso il quale come laici battezzati e giuristi cattolici dobbiamo avvicinarci al mondo, ancor più essa appartiene strutturalmente a quella metà del mondo che sono le donne, e tale fatto non può essere considerato irrilevante(12). La donna è costituita secondo quella capacità che concerne la sua essenza e che è un dono, un privilegio(13). In tal senso, il sostegno sociale ed economico alla maternità non è una questione solo politica, ma prima ancora antropologica e giuridica.
In un orizzonte di senso caratterizzato da un’omologazione dei sessi e dei generi, invece, il diritto si sta rivelando incapace di cogliere e rispettare le peculiarità della donna nel suo ruolo di madre, che non è solo un ruolo sociale (se fosse solo tale, le donne sarebbero sostituibili), ma antropologico, perché radicato nella differenza sessuale. La donna, in tal senso, ha bisogno di un sistema normativo che tenga conto della sua necessità concreta di vivere con equilibrio il suo essere donna e madre all’interno di quelle relazioni familiari che le permettono di realizzarsi in pienezza(14). In altre parole, sul piano istituzionale, pensare la donna solo come individuo autoreferenziale e come soggetto del diritto senza tenere in adeguata considerazione la dimensione relazionale della maternità significa privarla delle condizioni per lo sviluppo armonico delle sue potenzialità.
- È urgente, pertanto, riportare al centro della riflessione giuridica i due termini di riferimento dell’identità umana, facendoli risaltare: l’uomo e la donna con le loro inconfondibili peculiarità, restituendo al diritto la sua dimensione strutturalmente relazionale. La donna, infatti, si colloca al crocevia della coesistenza come alterità rispetto all’uomo e come tale essa viene investita della dimensione giuridica, della quale è un elemento co-essenziale insieme all’uomo per una comprensione autentica dei bisogni umani.
Per tale ragione, a margine delle considerazioni giuridiche fin qui svolte, approfondire in altra sede i fondamenti antropologici della dignità dell’essere donna e uomo può avere ricadute importanti per salvaguardare la giustizia nella coesistenza sociale. Il diritto, infatti, ha la funzione prioritaria di salvaguardare la simmetria nei rapporti tra le persone. E il primo rapporto di simmetria che va salvaguardato è quello tra uomini e donne. Se eliminiamo uno dei due termini della relazione e lo depotenziamo, in questo caso la donna con le sue caratteristiche, specificità e bisogni, il diritto viene meno come strumento sociale per garantire la giustizia. Ecco perché la verità sulla differenza sessuale, la complementarietà e la reciprocità tra i sessi è una questione di giustizia.
- Come può, dunque, un giurista cattolico coniugare teoria e pratica? Probabilmente, ripartendo da alcuni principi basilari semplici e chiari, che possiamo attingere da Evangelii Gaudium (nn. 219-233) e declinare al bene comune: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. Valgono in relazione ai diritti delle donne, ma anche in relazione al bene di ogni uomo come soggetto in relazione.
- Il tempo è superiore allo spazio. La pienezza dell’esistenza umana si realizza nel tempo: l’idea del self-made man, che induce l’individuo a darsi obiettivi di corto respiro, da raggiungere a tutti costi, anche a scapito dei beni relazionali, è un’illusione. Le relazioni non sono spazi di potere o di affermazione del sé, ma luoghi per generare identità sempre più consapevoli e piene. In tal senso, come giuristi cattolici abbiamo il difficile compito di generare processi, attraverso i quali si rimetta al centro della riflessione pubblica la dimensione relazionale della persona umana in tutti gli ambiti dell’esistenza.
- L’unità prevale sul conflitto: il conflitto non può essere ignorato, né superato propugnando l’indifferenza delle identità e delle relazioni (teorie gender), ma può essere affrontato tenendo presente che il rapporto tra uomo e donna si espone di per sé al limite del conflitto, inscritto nella sfida della differenza, pur senza esaurirsi in esso. La corresponsabilità reciproca tra uomo e donna deve condurre ad una vicendevole valorizzazione delle diverse peculiarità, in un con-correre insieme verso il rispetto della pari dignità ontologica, giuridica, culturale, economica e sociale di entrambi in tutte le questioni pratiche dell’esistenza.
- La realtà è più importante dell’idea: la persona, soggetto sessuato, prevale rispetto ad un ideale astratto di soggetto, titolare di diritti e doveri, la cui conciliazione con i diritti e doveri altrui diviene difficile se ricercata sulla base di affermazioni teoriche, e va collocata nell’ambito di una prospettiva relazionale, intesa come dimensione propria e costitutiva della persona umana. Ciò esclude la possibilità di ridurre la persona ad un concentrato di pura volontà autoreferenziale e autodeterminazione, facoltà umane che non possono che essere in funzione e in relazione alla realtà.
- Infine, sostenendo che il tutto è superiore alla parte, non si intendono sacrificare i diritti dell’individuo in favore dell’interesse della collettività, quanto piuttosto ribadire ancora una volta che i diritti della persona si tutelano nel contesto relazionale entro cui questa si trova e che ci sono realtà unitarie che trascendono la somma degli individui che ad esse partecipano: il matrimonio, in questo senso, è un esempio di come alcune libertà individuali possano essere declinate in modo tale da preservare il valore giuridico dell’unità familiare. Se poi il diritto è superiore alla legge, quest’ultima dovrebbe essere interpretata tenendo sempre a mente il fine ultimo dell’ordinamento giuridico: il bene di ciascuno in relazione al bene di ogni altro.
- Insomma, abbiamo bisogno di proporre un diritto accogliente della verità e della pienezza dell’essere umano. Un diritto che renda piena giustizia all’essere donna e madre e, specularmente, alla pienezza dell’essere uomo e padre. L’uno senza l’altra resteranno irrealizzati, l’uno contro l’altra si combatteranno e si sconfiggeranno a vicenda.
- Papa Francesco, Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium“, 2013, n. 104.
- Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995, 3.
- Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica sulla dignità e vocazione della donna in occasione dell’anno Mariano Mulieris Dignitatem, 15 agosto 1988, 30. La prima esortazione ad approfondire i fondamenti antropologici della specificità della vocazione della donna nel mondo contemporaneo fu quella di Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem. Filosofo – prima che teologo e Pontefice – fu capace di indicare l’importanza di saper fondare e valorizzare il ruolo della donna nella società, in un’epoca nella quale sono forti le implicazioni culturali e sociali derivanti da atteggiamenti e riflessioni filosofiche che, per svariate ragioni anche storiche, hanno avuto l’effetto di contenere e ridurre le potenzialità espressive della donna nel mondo.
- Antonini (a cura di), Il traffico dei diritti insaziabili, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
- Cartabia, A. Simoncini, La legge di Re Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI, Rizzoli, Milano 2013.
- Cfr. S. Mangiameli, «Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?», in L. Santolini (a cura di), La comunità familiare e le scelte di fine vita, Cantagalli, Siena 2010, 113-157.
- Cfr. P. Grossi, «Un recupero per il diritto: oltre il soggettivismo moderno», in L. Antonini ( cura di), Il traffico dei diritti insaziabili, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, 21-39.
- Così a partire da B. Windscheid, Diritto delle pandette, Torino 1902 (sul punto cfr. E. Russo, «Diritto soggettivo», I, in Enciclopedia Giuridica, XI, Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1989, 1-22).
- J.I. Arrieta, «Diritto soggettivo», II, in Enciclopedia Giuridica, XI, Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1989, 1-8.
- Discorso al Parlamento Federale tedesco Reichstag di Berlino, 22 settembre 2011 (pubblicato in M. Cartabia, A. Simoncini (a cura di), La legge di Re Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI, Rizzoli, Milano 2013, 244-251).
- Cfr. Il Cambiamento demografico. Rapporto-proposta sul futuro dell’Italia, Bari, Laterza, 2011 (a cura della CEI-Comitato per il Progetto Culturale), 101-115.
- Cfr. S. Lagorio, L. Ravasi, S. Vegetti Finzi, Se noi siamo la terra, Milano, 1996.
- Sul privilegio naturale della donna di “poter fare” i propri figli, cfr. F. Héritier, Masculin-féminin. Dissoudre la hiérarchie, Odile Jacob, Parigi, 2002.
- Si pensi, ad esempio, alla legge italiana sull’astensione obbligatoria di maternità (congedo di maternità), che prevede un periodo molto breve (di tre mesi) di congedo dopo il parto; tale periodo è ancor più breve se considerato in rapporto ai parti gemellari – in crescita con la fecondazione in vitro – rispetto ai quali la legge non prevede alcuna differenza quando i figli partoriti siano due o tre. Il criterio adottato dalla legge, infatti, è quello del parto, che resta uno solo anche in caso di gemellarità, e non è misurato in base al numero di bambini partoriti, sottovalutando le difficoltà della madre – in termini di tempo da dedicare, di organizzazione pratica, di relazione psichica che vive – quando deve dedicarsi a due o tre neonati per volta. Si tenga presente che l’astensione obbligatoria è cosa diversa – sotto il profilo del valore costituzionale – dal congedo parentale che, a differenza della prima, infatti, prevede una riduzione dello stipendio della lavoratrice-madre. Cfr. il nuovo testo coordinato del D. Lgs. n. 151 del 26/03/2001 (T. U. sulla maternità) con il D. Lgs. n. 80 del 15/06/2015, in vigore dal 12/08/2015.