Giustizia sociale e retribuzione
Maria Cristina Cataudella
Sommario: 1. Premessa. Diritto del Lavoro, retribuzione e giustizia sociale. – 2. La questione del giusto salario nelle Encicliche Sociali antecedenti alla Costituzione repubblicana. La Rerum Novarum di Leone XII del 1981 e la Quadrigesimo Anno di Pio XI del 1931. – 3. La “giusta retribuzione” nella Costituzione italiana. I criteri di proporzionalità e sufficienza. – 4. La retribuzione nelle encicliche successive al 1948. La Mater et Magistra del 1961 e la Laborem Exercens del 1981. – 5. Crisi economica e interventi sulla retribuzione: la contrattazione collettiva di secondo livello, la volontà “assistita” e la legge. – 6. Interventi sulla retribuzione e compatibilità con l’art. 36 Cost.
1.Se finalità del diritto è la realizzazione della giustizia sociale, questo è vero, a maggior ragione, per il Diritto del Lavoro (1).
Il Diritto del Lavoro nasce, infatti, proprio per proteggere il lavoratore, la parte debole del contratto di lavoro. Se il datore di lavoro detiene i mezzi di produzione e il suo fine ultimo è la massimizzazione del profitto, l’unica ricchezza del lavoratore sono le sue energie lavorative, che è costretto a mettere a disposizione del datore di lavoro per assicurare a sé e alla sua famiglia i mezzi necessari al sostentamento. Quando l’offerta di lavoro supera la domanda di lavoro, il lavoratore, per non restare senza occupazione, è costretto ad accettare condizioni di lavoro (2) deteriori (orari lunghissimi, ambienti malsani e pericolosi, e, soprattutto, salari insufficienti ….).
Il Diritto del Lavoro prende atto che la parità tra le due parti del contratto di lavoro (lavoratore e datore di lavoro) è solo formale, e si adopera per garantire al lavoratore condizioni accettabili di lavoro. Questo obiettivo si realizza, almeno nel nostro ordinamento, limitando la libertà contrattuale delle parti, attraverso lo strumento della norma inderogabile che si sostituisce alle previsioni contrattuali contrastanti con essa, mantenendo, tuttavia, in vita il contratto di lavoro (3).
La determinazione di una giusta retribuzione è certamente una delle finalità principali del diritto del lavoro ed è strumento per realizzare – non solo nel rapporto di lavoro ma in tutto il sistema economico sociale – la giustizia sociale (4). Nel nostro ordinamento il compito di determinare la retribuzione non è affidato direttamente né alla legge né alla contrattazione collettiva ma viene assolto dalla giurisprudenza che dà attuazione all’art. 36 Cost., prendendo come parametro di riferimento la retribuzione minima fissata dai contratti collettivi nazionali.
Nella prima parte di questo scritto mi soffermerò sugli interventi della dottrina sociale della Chiesa in materia di retribuzione per verificare se questi abbiano avuto qualche eco nell’art. 36 della nostra Costituzione e, soprattutto, se possano ancora, oggi, offrire qualche spunto interessante di riflessione.
Nella seconda parte, cercherò di valutare, se la crisi economica, possa giustificare – come da taluni auspicato – interventi sulla retribuzione, e con quali modalità questi si possano realizzare.
In conclusione, mi chiederò se questi interventi possano essere tali da compromettere l’operatività dei principi costituzionali di proporzionalità e sufficienza.
2. La questione del giusto salario viene affrontata in diverse tra le encicliche, c.d. “sociali”.
Già Leone XIII nella Rerum Novarum del 1891, la prima enciclica che si è occupata della questione sociale (in un momento in cui emergeva con forza la disparità tra operai e datori di lavoro), colloca tra i principali doveri dei datori di lavoro quello di dare la giusta mercede agli operai: “Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede”. Defraudare gli operai della dovuta mercede (5), “è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio”(6).
La Rerum Novarum affronta anche la questione della determinazione del giusto salario, dettando alcuni criteri per la commisurazione dello stesso che saranno affinati nelle encicliche successive. Il salario deve essere determinato attraverso il libero consenso delle parti (7) e l’intervento dello Stato deve essere limitato alle ipotesi in cui il datore di lavoro non paga la mercede o l’operaio non presta la sua opera (8). Il lavoro umano ha, tuttavia, due caratteri essenziali: è personale ed è necessario. Se il fatto che sia personale, può giustificare che l’operaio pattuisca un salario inferiore al giusto, il fatto che sia necessario ha come conseguenza il diritto di procurarsi, attraverso questo, i mezzi necessari al proprio sostentamento(9): il salario non dovrebbe, dunque, essere inferiore a quello che è il sostentamento dell’operaio (sia pure frugale)(10). Mentre, per l’ipotesi in cui il datore di lavoro non paga il salario all’operaio, il Pontefice invoca l’intervento dello Stato (11), per l’ipotesi in cui l’operaio sia costretto, per necessità, ad accettare un salario inferiore al giusto, preferisce riservare “la decisione ai collegi… o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio”.
Pio XI, nella “Quadrigesimo Anno” del 1931, che celebra proprio i quaranta anni dalla Rerum Novarum, riprende le considerazioni svolte dal suo predecessore e torna sul tema del salario giusto, dedicando ampio spazio alla determinazione della retribuzione. La retribuzione non deve essere commisurata ai frutti del lavoro, vale a dire all’utilità del lavoro per il datore di lavoro (12) , ma deve consentire al lavoratore il sostentamento (13). Nello stabilire quanto è necessario al sostentamento, si deve tenere conto non solo delle esigenze del lavoratore ma anche di quelle della sua famiglia (14); devono anche essere considerate le condizioni dell’azienda (15) e si deve, inoltre, contemperare la quantità del salario con il pubblico bene economico, in particolare attribuendo dei salari che, pur consentendo ai lavoratori di provvedere dignitosamente al proprio sostentamento , non siano tali da favorire la disoccupazione (16).
3. Nel 1948 entra in vigore la Costituzione repubblicana, che, all’art. 36, fissa due criteri per la determinazione della retribuzione: quello di proporzionalità, in forza del quale la retribuzione deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (17), e quello di sufficienza, in forza del quale la retribuzione deve comunque garantire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (18).
Tra i due criteri è quello di sufficienza che sembra riecheggiare maggiormente alcune istanze in tema di salario espresse dalla Rerum Novarum e dalla Quadrigesimo Anno: in particolare laddove, nel determinare la sufficienza, si fa riferimento, oltre che alle esigenze del lavoratore, anche a quelle della sua famiglia . In vero, nella Rerum Novarum il salario doveva essere sufficiente al sostentamento, sia pure “frugale”, del solo operaio; mentre la famiglia dell’operaio viene presa in considerazione per la prima volta nella Quadrigesimo Anno, ove il salario deve bastare “per provvedere convenientemente alle comuni necessità domestiche”. Qui, il punto di incontro tra l’orientamento cattolico e quello marxista prevalenti tra i Costituenti non è stato troppo difficile da trovare.
Non hanno invece trovato riscontro nella nostra Costituzione, altri criteri di determinazione della retribuzione indicati nella Quadrigesimo Anno: in particolare, la considerazione delle condizioni dell’impresa e del bene comune (19).
Per quanto riguarda la determinazione in concreto della retribuzione conforme ai principi di proporzionalità e sufficienza, la Costituzione non specifica come questa debba avvenire. I Padri costituenti (come emerge dai lavori preparatori alla Costituzione) manifestavano, almeno prevalentemente, una preferenza per lo strumento del contratto collettivo, per la sua maggiore adattabilità rispetto alla legge alle diversità dei settori produttivi (20), ma la scelta finale è stata comunque quella di non specificare nella Costituzione alcuna fonte di determinazione della retribuzione, lasciando così libero il legislatore ordinario di adottare qualunque tipo di soluzione.
In assenza di una legge sul salario minimo o di un’espressa delega legislativa alla contrattazione collettiva, la questione della determinazione del salario è stata risolta grazie all’intervento della giurisprudenza. Giurisprudenza che, dopo un primo periodo di incertezza, ha ritenuto l’art. 36 Cost. norma immediatamente precettiva (21) (e non solo programmatica) e, attraverso un’interpretazione analogica dell’art. 2099 c.c., in combinato disposto con l’art. 36 Cost., ha individuato nel giudice il soggetto che deve determinare in concreto la retribuzione e nel contratto collettivo nazionale il parametro di riferimento per la determinazione della stessa.
In estrema sintesi, il Giudice, laddove ritenga che la retribuzione pattuita dalle parti sia illegittima, perché non conforme ai parametri costituzionali, la determina direttamente ai sensi dell’art. 2099 c.c., prendendo quale parametro la retribuzione minima fissata dai contratti collettivi nazionali (che, almeno generalmente, sono lo strumento deputato dalle stesse parti sociali a fissare le condizioni minime di lavoro). La retribuzione fissata dai contratti collettivi nazionali non si applica, quindi, direttamente ai lavoratori non contrattualizzati, ma si estende a questi in virtù della mediazione della giurisprudenza; inoltre, rappresenta un parametro di riferimento dal quale la giurisprudenza può anche discostarsi (sia in senso migliorativo che peggiorativo).
Per quanto riguarda, invece, le esigenze della famiglia del lavoratore, delle quali pure si deve tener conto nella determinazione della retribuzione (per cui, chi ha un carico familiare maggiore dovrebbe percepire una retribuzione maggiore), la scelta del nostro legislatore è stata quella di non gravare di queste direttamente il datore di lavoro ma di rispondere alla stesse attraverso l’intervento dello Stato con strumenti quali, ad esempio, l’assegno familiare.
4. Il tema della retribuzione viene ripreso anche nelle encicliche sociali successive al 1948: in particolare nella Mater et Magistra del 1961 e nella Laborem Exercens del 1981.
Con l’enciclica Mater et Magistra del 1961 Papa Giovanni XXIII riprende, in tema di retribuzione, alcuni principi espressi nella Quadrigesimo Anno.
La retribuzione non deve essere interamente abbandonata alle leggi del mercato e neppure fissata arbitrariamente ma deve essere determinata secondo giustizia ed equità; deve consentire al lavoratore e alla sua famiglia un tenore di vita umano e dignitoso; nella determinazione della stessa si deve tener conto dell’effettivo apporto del lavoratore alla produzione, delle condizioni economiche dell’impresa e del bene comune.
Un richiamo alla giusta retribuzione vi è pure nell’Enciclica Pacem in terris del 1963, sempre di Papa Giovanni XXIII, che prosegue e completa il discorso iniziato con la Mater et Magistra: “va inoltre e in modo speciale messo in rilievo il diritto ad una retribuzione del lavoro determinata secondo i criteri di giustizia, e quindi sufficiente, nelle proporzioni rispondenti alla ricchezza disponibile, a permettere al lavoratore ed alla sua famiglia, un tenore di vita conforme alla dignità umana”.
Arriviamo, poi, all’enciclica che mette al centro proprio il lavoro: la “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II del 1981.
L’enciclica, novant’anni dopo la Rerum Novarum, torna ampiamente sulla questione del lavoro, lavoro che in novant’anni è cambiato in modo significativo.
Anche in questa Enciclica la questione della giusta remunerazione del lavoro resta centrale e, anzi, diventa la concreta verifica del giusto funzionamento non solo del rapporto di lavoro ma di tutto il sistema economico sociale.
Si torna a ribadire la necessità, nella determinazione del salario, di tenere conto delle esigenze familiari del lavoratore; nonché l’importanza di dare la possibilità alla madre di dedicarsi alla cura della famiglia, senza essere costretta a lavorare; viene altresì sottolineata la necessità di organizzare il lavoro in modo da rispettare le esigenze delle persone, tenendo conto dell’età e del sesso di ciascuno.
Nelle encicliche sociali successive, sulle quali non mi soffermerò, anche perché non aggiungono elementi nuovi per quanto riguarda la retribuzione, il lavoro continua ad essere centrale, ma è un lavoro che si confronta con tutta una serie di nuovi problemi: le trasformazioni tecnologiche e produttive, la globalizzazione, la situazione dei Paesi del terzo mondo e la questione del loro accesso al mercato internazionale, la disoccupazione, la crisi economica, le migrazioni, l’inquinamento.
5. L’aggravarsi in Italia della disoccupazione connessa alla crisi economica, ha portato a manifestare un interesse crescente per le possibilità di diminuire i costi del lavoro, anche per quelle che passano attraverso riduzioni dei salari.
Nelle Encicliche sociali che abbiamo esaminato, si prospetta questa evenienza, laddove si prevede quale criterio di determinazione della retribuzione, come fa la Quadrigesimo Anno e la Mater et Magistra, l’effettiva situazione dell’azienda nonchè laddove, il riferimento è sempre alla Quadrigesimo Anno e alla Mater et Magistra, si afferma che, nel determinare la retribuzione, si deve considerare anche il bene comune.
Benché diverse analisi economiche neghino esista un nesso di correlazione necessaria tra entità della retribuzione minima e occupazione, per cui non è detto che ad una diminuzione del salario corrisponda un aumento dell’occupazione (o che, viceversa, ad un innalzamento del salario minimo corrisponda un aumento della disoccupazione), è innegabile che una certa flessibilità nella fissazione delle retribuzioni potrebbe contribuire ad aiutare quelle imprese che si trovano in una situazione temporanea (non irreversibile) di crisi ad uscirne.
La circostanza che in Italia la retribuzione minima, almeno fino a questo momento, sia stata tendenzialmente fissata dai contratti collettivi nazionali non consente alla stessa, di essere flessibile così da adeguarsi alle esigenze (contingenti) delle aziende.
Una soluzione potrebbe essere quella di attribuire alla contrattazione collettiva di secondo livello – vale a dire a quella aziendale e territoriale – la facoltà di fissare la retribuzione minima (e non solo la parte variabile della stessa, come avviene ora).
Questa possibilità sarebbe anche conforme alla tendenza dei più recenti accordi sindacali interconfederali e della legislazione statale che attribuiscono alla contrattazione collettiva di secondo livello – in virtù della sua prossimità/vicinanza con l’impresa e con i lavoratori – sempre maggiori poteri e funzioni, anche in deroga alle previsioni dalla contrattazione collettiva nazionale e, addirittura, a quelle della legge.
Testimonia questa tendenza l’art. 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148, che ha attribuito alla contrattazione collettiva di secondo livello (e, quindi, oltre che alla contrattazione collettiva aziendale, anche a quella territoriale) la facoltà di derogare non solo a norme contenute nel contratto collettivo nazionale ma anche a norme di legge sull’organizzazione del lavoro.
La norma riconosce, infatti, sia ai contratti collettivi aziendali che a quelli territoriali – purché stipulati da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e territoriale oppure dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa legale o delle intese interconfederali – la facoltà di realizzare specifiche intese che, se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario, hanno efficacia generalizzata (art. 8, comma 1) e che possono riguardare varie materie, operando in deroga, non solo alla contrattazione collettiva nazionale, ma anche alla legge, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria e dalle convenzioni internazionali (art. 8, comma 2 bis).
Tra le numerose materie derogabili dalla contrattazione collettiva di prossimità, non rientra, tuttavia, la retribuzione: la norma, contiene, infatti, un’elencazione di materie derogabili – che deve considerarsi tassativo – tra le quali non c’è la retribuzione.
Non è escluso, tuttavia, che, con una norma ad hoc, la retribuzione possa essere oggi inclusa tra le materie derogabili dalla contrattazione collettiva di prossimità ai sensi dell’art. 8, o che possa essere oggetto di un autonomo intervento legislativo che vada in analoga direzione.
A questa soluzione (sia pure con i limiti che preciseremo nel prosieguo) non è d’ostacolo l’art. 36 Cost. Come si è già detto, infatti, questa norma non stabilisce quella debba essere la fonte di determinazione della retribuzione. La circostanza che questo compito sia stato svolto, almeno fino ad ora, dalla contrattazione collettiva nazionale, non preclude la possibilità che possa essere svolto in futuro da altra fonte, come, appunto, la contrattazione collettiva di secondo livello. In questo senso depone anche l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto lecite le decisioni dei giudici di merito che hanno preso come parametro di riferimento per la determinazione della giusta retribuzione, i contratti collettivi aziendali, anche se peggiorativi rispetto a quelli nazionali.
L’attribuzione alla contrattazione collettiva di secondo livello del compito di flessibilizzare la retribuzione limita, tuttavia, questa possibilità alle sole imprese che hanno due livelli di contrattazione, che costituiscono la parte meno consistente del sistema economico italiano, composto prevalentemente da piccole imprese (che hanno un solo livello di contrattazione collettiva).
Una soluzione che troverebbe applicazione sia alle grandi che alla piccole imprese è quella proposta da A. Vallebona in un suo scritto. Si tratta, in qualche misura, di uno sviluppo dello strumento della c.d. “volontà assistita”. La proposta di Vallebona prevede che le imprese, sia grandi che piccole, comunichino ogni anno ai propri dipendenti i loro risultati economici. I risultati saranno esaminati da un esperto, che ciascun lavoratore deve nominare obbligatoriamente al momento dell’assunzione. Se il risultato economico dell’impresa è negativo, sia il lavoratore, con la mediazione dell’esperto da lui nominato, che direttamente l’impresa, possono fare una proposta che preveda la riduzione di alcuni diritti, in cambio della salvezza del posto di lavoro. Secondo A. Vallebona possono essere oggetto di trattativa sia i diritti previsti da una legge ordinaria, come i permessi, che quelli previsti ma non quantificati dalla Costituzione, come, appunto, la retribuzione.
A mio avviso la proposta di Vallebona non presenta (sia pure con i limiti dei quali diremo nell’ultima parte) profili di incostituzionalità. Sostanzialmente si tratta di una soluzione analoga a quella prevista dal sesto comma dell’art. 2103 c.c., così come modificato dal d. lgs. n. 82 del 15 giugno 2015. Questa norma consente, infatti, alle parti di sottoscrivere un accordo di modifica delle mansioni, della categoria legale, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, a patto che questo sia finalizzato alla “conservazione del posto di lavoro”, “all’acquisizione di una diversa professionalità”, o, ancora, al “miglioramento delle condizioni di vita” e che abbia luogo in alcune sedi qualificate, che garantiscano al lavoratore di essere adeguatamente assistito. Mi pare, tuttavia, che si attagli alla piccole imprese meglio che a quelle grandi, per le quali l’intervento delle parti sociali, attraverso lo strumento della contrattazione collettiva, mi sembra sia da preferirsi perché garantisce maggiore uniformità di trattamento (in particolare, laddove, sia necessario ridurre le retribuzioni di molti lavoratori).
Un altro possibile intervento sulla retribuzione, di cui si è tornato a discutere con insistenza negli ultimi mesi, è la fissazione per legge della retribuzione oraria minima.
Si tratta di una soluzione che è stata già adottata in molti Paesi europei ma della quale non si è sentita, per lungo tempo, l’esigenza in Italia, proprio per il ruolo di garanzia qui svolto dalla contrattazione collettiva nazionale.
L’obiettivo che si vuole realizzare con un salario minimo legale, non è, tuttavia, quello di garantire alle aziende una maggiore flessibilità nella determinazione della retribuzione ma è, piuttosto, quello di fissare direttamente una soglia minima sotto la quale né gli individui né le parti sociali possono andare. Ciò può rappresentare una garanzia per i lavoratori cui oggi non si applica (almeno direttamente) la contrattazione collettiva ma anche per quei lavoratori a quali la contrattazione collettiva si applica, perché anche le parti sociali sarebbero comunque tenute a rispettare il minimo fissato dalla legge.
6. Nella parte che precede, ho sostenuto che una previsione legislativa che attribuisse alla contrattazione collettiva di secondo livello o alla volontà assistita la possibilità, sia pure a talune condizioni, di derogare ai minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva nazionale non sarebbe incostituzionale.
A questo punto bisogna, però, chiedersi se la contrattazione collettiva di secondo livello o la volontà assistita, nel momento in cui il legislatore attribuisse loro questo compito, sarebbero completamente libere nel determinare la retribuzione.
A mio avviso no. L’art. 36 Cost., pur non individuando direttamente la fonte di determinazione della retribuzione, fissa due parametri per la stessa – ovvero proporzionalità e sufficienza – che anche le parti sociali e, a maggior ragione, l’autonomia privata (sia pure assistita), devono rispettare.
Il fatto che sia la legge ordinaria ad attribuire alla contrattazione collettiva di secondo livello o alla volontà assistita questo compito, non modifica la situazione: i parametri di proporzionalità e sufficienza sono fissati da una fonte (la Costituzione) che prevale sulla legge ordinaria. Anche la finalità di incrementare (o di salvare) l’occupazione – che trova espressione nell’art. 4, 1° comma, Cost. –può contemperarsi con il diritto soggettivo inviolabile ad una giusta retribuzione (eventualmente giustificando una maggiore flessibilità nella determinazione della stessa) ma non può mai renderlo inoperante.
A mio avviso, quindi, anche se il legislatore autorizzasse espressamente la contrattazione collettiva di secondo livello e/o la volontà assistita a derogare, in talune circostanze, ai minimi fissati dai contratti collettivi nazionali, queste dovrebbero comunque rispettare i parametri costituzionali e, nel caso in cui ciò non avvenisse, la retribuzione dovrebbe essere considerata non conforme ai parametri costituzionali.
A questo punto spetterebbe al Giudice individuare la retribuzione sufficiente ma rischierebbe di trovarsi senza parametri certi cui fare riferimento.
In questa prospettiva, potrebbe essere importante un intervento legislativo che fissasse un salario minimo legale. Questo minimo potrebbe rappresentare, infatti, il tetto sotto il quale né le parti sociali né le parti possono andare e un parametro certo per la giurisprudenza.
In questa prospettiva mi sembrano lungimiranti le parole di Giovanni Paolo XXIII nella Mater e Magistra, laddove, dopo aver individuato i criteri atti a determinare la giusta retribuzione, affermava che tali criteri “valgono sempre e ovunque; però il grado secondo cui vanno applicati ai casi concreti non può essere stabilito che avendo riguardo alla ricchezza disponibile; ricchezza che, nella quantità e nella qualità, può variare, e di fatto varia, da Paese a Paese, e nello stesso paese da tempo a tempo”.
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Cfr. A. Vallebona, Fini e tecniche del diritto del lavoro, in Lavoro e spirito, Torino, 2011, p. 9.
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Riprendendo le parole di un Maestro del Diritto del Lavoro, il contratto di lavoro “riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere, il bene che è condizione dell’avere e di ogni altro bene” e “fra tutti i vincoli di contenuto patrimoniale, è il solo a porre, sia pure per necessità istituzionali, giuridicamente un soggetto alle dipendenze di un altro soggetto”. (così F. Santoro-Passarelli, Spirito del diritto del lavoro, in Saggi di Diritto civile, II, Napoli, 1961, p. 1071).
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Cfr. sempre A. Vallebona, op. ult. cit., p. 9 e ss.
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Nell’enciclica Laborem Exercens, la questione del giusto salario è centrale e diventa la chiave di volta per verificare non solo la giustizia del rapporto di lavoro ma anche quella di tutto il sistema economico sociale (cfr. par. 4, in particolare nota n. 28).
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“Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo”.
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“Ecco, la mercede degli operai… che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti” (Gc 5,4).
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“Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro”.
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“Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato”.
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“Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro”.
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“L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi”.
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V. nota n. 8.
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“Sono certamente in errore coloro i quali non dubitano di proclamare come principio, che tanto vale il lavoro ed altrettanto deve essere rimunerato, quanto valgono i frutti da esso prodotti, e perciò il prestatore del lavoro ha il diritto di esigere quanto si è ottenuto col suo lavoro”.
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“In primo luogo, all’operaio si deve dare una mercede che basti al sostentamento di lui e della sua famiglia”.
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“È bensì giusto che anche il resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze, contribuisca al comune Sostentamento, come già si vede in pratica specialmente nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi dell’età dei fanciulli né della debolezza della donna…. Bisogna dunque fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una mercede tale che basti per provvedere convenientemente alle comuni necessità domestiche. Che se nelle presenti circostanze della società ciò non sempre si potrà fare, la giustizia sociale richiede che s’introducano quanto prima quelle mutazioni che assicurino ad ogni operaio adulto siffatti salari. Sono altresì meritevoli di lode tutti quelli che con saggio e utile divisamento hanno sperimentato e tentano diverse vie, onde la mercede del lavoro si retribuisca con tale corrispondenza ai pesi della famiglia, che, aumentando questi, anche quella si somministri più larga; e anzi, se occorra, si soddisfaccia alle necessità straordinarie”.
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“Nello stabilire la quantità della mercede si deve tener conto anche dello stato dell’azienda e dell’imprenditore di essa; perché è ingiusto chiedere esagerati salari, quando l’azienda non li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente calamità degli operai. È però vero che se il minor guadagno che essa fa è dovuto a indolenza, a inesattezza e a noncuranza del progresso tecnico ed economico, questa non sarebbe da stimarsi giusta causa per diminuire la mercede agli operai. Che se l’azienda medesima non ha tante entrate che bastino per dare un equo salario agli operai, o perché è oppressa da ingiusti gravami, o perché è costretta a vendere i suoi prodotti ad un prezzo minore del giusto, coloro che così la opprimono si fanno rei di grave colpa; perché costoro privano della giusta mercede gli operai; i quali, spinti dalla necessità, sono costretti a contentarsi di un salario inferiore al giusto”.
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“Nello stabilire la quantità della mercede si deve tener conto anche dello stato dell’azienda e dell’imprenditore di essa; perché è ingiusto chiedere esagerati salari, quando l’azienda non li può sopportare senza la rovina propria e la conseguente calamità degli operai. È però vero che se il minor guadagno che essa fa è dovuto a indolenza, a inesattezza e a noncuranza del progresso tecnico ed economico, questa non sarebbe da stimarsi giusta causa per diminuire la mercede agli operai. Che se l’azienda medesima non ha tante entrate che bastino per dare un equo salario agli operai, o perché è oppressa da ingiusti gravami, o perché è costretta a vendere i suoi prodotti ad un prezzo minore del giusto, coloro che così la opprimono si fanno rei di grave colpa; perché costoro privano della giusta mercede gli operai; i quali, spinti dalla necessità, sono costretti a contentarsi di un salario inferiore al giusto”.
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Il principio di proporzionalità alla quantità del lavoro spiega, ad esempio, perché la retribuzione aumenti con l’aumentare delle ore di lavoro e perché i lavoratori a tempo a parziale percepiscano una retribuzione inferiore rispetto a quelli a tempo pieno; il principio di proporzionalità alla qualità del lavoro giustifica perché, in linea di massima, la retribuzione sale quando aumenta la qualifica professionale o l’anzianità (in questo secondo caso, il presupposto è che la qualità del lavoro aumenti con l’esperienza del lavoratore). Sul principio di proporzionalità si consenta di rinviare a M.C. Cataudella, La retribuzione nel tempo della crisi. Tra principi costituzionali ed esigenze del mercato, Torino, 2013, p. 17 e ss.
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Il principio di sufficienza spiega perché, in alcune ipotesi – come in quelle di sospensione retribuita del rapporto di lavoro – venga meno il nesso di corrispettività tra le due prestazione: il lavoratore non svolge la sua prestazione ma il datore di lavoro è tenuto comunque a retribuirlo. Sul principio di sufficienza cfr. M. C. Cataudella, op. cit., p. 25 e ss.
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Criteri che saranno ripresi anche nelle encicliche successive alla Costituzione, in particolare nella Mater et Magistra (v. il paragrafo successivo).
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V. le considerazioni dell’On. Gronchi, contrario alla proposta dell’On. Bibilotti di introdurre un emendamento che delegasse alla legge la fissazione del salario individuale e familiare: “Mi pare che praticamente si miri, in tal modo, a disciplinare una materia estremamente varia e diversa a seconda dei settori produttivi. E’ un compito contrattuale questo, che è difficile ricondurre a compito legislativo” (v. La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Roma, 1970, vol. II, p. 1561).
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In origine, il carattere immediatamente precettivo dell’art. 36 Cost. era messo in discussione dalla dottrina. Ne sostenevano il carattere programmatico: M. Scorza, Il diritto al salario minimo e l’art. 36 Cost., in Dir. lav., 1951, p. 450 e ss.; A. Sermonti, L’adeguatezza della retribuzione di fronte ai contratti collettivi e al primo comma dell’art. 36 Cost., in Mass. giur. lav., 1952, p. 128.
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La prima decisione in tal senso della Cassazione è n. 461 del 21 febbraio 1952,.
In dottrina sull’applicazione del combinato disposto dell’art. 36, 1° comma, Cost. e dell’art. 2099 c.c. v., ex plurimis, S. Pugliatti, La retribuzione sufficiente e le norme della Costituzione, in Riv. giur. lav., 1949-1950, p. 189 e ss.; R. Scognamiglio, Sull’applicabilità dell’art. 36 Cost. in tema di retribuzione del lavoratore, in Foro. Civ., 1951, p. 352 e ss.; F. Santoro Passarelli, Nuove prospettive della giurisprudenza sulla retribuzione sufficiente, in Mass. Giur. Lav., 1960, p. 146 e ss.; T. Treu, Onerosità e corrispettività del rapporto di lavoro, Milano, 1968, p. 159 e ss.; M. De Cristofaro, La giusta retribuzione, Bologna, 1971. Si sono occupati in tempi più recenti del tema: S. Bellomo, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, 2002 e A. Vallebona, Sul c.d. salario minimo garantito, in Mass. giur. lav., 2008, p. 326 e ss.
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Che, in vero, si riferisce alla sola ipotesi in cui le parti abbiano omesso proprio di fissare la retribuzione e non a quella in cui una retribuzione sia stata fissata ma sia illegittima, perché contraria ai principi di proporzionalità e sufficienza.
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“Riteniamo perciò nostro dovere riaffermare ancora una volta che la retribuzione del lavoro, come non può essere interamente abbandonata alle leggi di mercato, cosi non può essere fissata arbitrariamente; va invece determinata secondo giustizia ed equità”.
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“Il che esige che ai lavoratori venga corrisposta una retribuzione che loro consenta un tenore di vita veramente umano e di far fronte dignitosamente alle loro responsabilità familiari”.
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“…ma esige pure che nella determinazione della retribuzione si abbia riguardo al loro effettivo apporto nella produzione e alle condizioni economiche delle imprese”.
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“…alle esigenze del bene comune delle rispettive comunità politiche, specialmente per quanto riguarda le ripercussioni sull’impiego complessivo delle forze di lavoro dell’intero paese, come pure alle esigenze del bene comune universale e cioè delle comunità internazionali di diversa natura ed ampiezza”.
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“Celebriamo il 90° anniversario dell’enciclica Rerum Novarum alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di portata generale: l’introduzione generalizzata dell’automazione in molti campi della produzione; l’aumento del prezzo dell’energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l’emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell’economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati, la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di un riassestamento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati; ma potranno anche dare sollievo e speranza ai milioni di uomini che oggi vivono in condizioni di vergognosa e indegna miseria”.
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“Il problema chiave dell’etica sociale, in questo caso, è quello della giusta remunerazione per il lavoro che viene eseguito. Non c’è nel contesto attuale un altro modo più importante per realizzare la giustizia nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, di quello costituito appunto dalla remunerazione del lavoro…. Occorre anche rilevare come la giustizia di un sistema socio-economico e, in ogni caso, il suo giusto funzionamento meritino, in definitiva, di essere valutati secondo il modo in cui il lavoro umano è in quel sistema equamente remunerato….. Di qui, proprio il giusto salario diventa in ogni caso concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socioeconomico e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento. Non è questa l’unica verifica, ma è particolarmente importante ed è, in un certo senso, la verifica-chiave”.
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“Una giusta remunerazione per il lavoro della persona adulta, che ha responsabilità di famiglia, è quella che sarà sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro. Tale remunerazione può realizzarsi sia per il tramite del cosiddetto salario familiare…., sia per il tramite di altri provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia…”.
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“L’esperienza conferma che bisogna adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni, della fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di cura, di amore e di affetto per potersi sviluppare come persone responsabili, moralmente e religiosamente mature e psicologicamente equilibrate. Tornerà ad onore della società rendere possibile alla madre – senza ostacolarne la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti delle sue compagne – di dedicarsi alla cura e all’educazione dei figli secondo i bisogni differenziati della loro età. L’abbandono forzato di tali impegni, per un guadagno retributivo fuori della casa, è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali scopi primari della missione materna”.
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“In tale contesto si deve sottolineare che, in via più generale, occorre organizzare e adattare tutto il processo lavorativo in modo che vengano rispettate le esigenze della persona e le sue forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, tenendo conto dell’età e del sesso di ciascuno”.
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V. le analisi economiche e gli studi citati da E. Menegatti, Il salario minimo legale. Aspettative e prospettive, Torino, 2017, p. 3 e ss.
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Il riferimento è, ovviamente all’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, che ha cercato di istituzionalizzare il modello Pomigliano e Mirafiori, autorizzando, in determinate e specifiche ipotesi, la contrattazione collettiva aziendale a derogare quanto previsto dalla contrattazione collettiva nazionale in materia di prestazione lavorativa, orari ed organizzazione.
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Da qui la denominazione della contrattazione collettiva aziendale e territoriale come “Contrattazione collettiva di prossimità” (v. art. 8, l. n. 148 del 14 settembre 2011).
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Nel senso della tassatività dell’elenco depone la terminologia utilizzata dal legislatore: l’elencazione è infatti preceduta dalla locuzione “con riferimento” (la tesi della tassatività dell’elenco è sostenuta, tra gli altri, da A. Perulli – V. Speziale, L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di agosto” del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 132 del 2011, p. 43 e da F. Carinci, Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato e il legislatore, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 133 del 2011, p. 39).
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A mio avviso, un intervento autonomo sarebbe da preferirsi. Ritengo, infatti, che la retribuzione dei lavoratori dovrebbe essere toccata solo quando l’alternativa è la perdita del posto di lavoro. L’art. 8 consente, invece, interventi sui diritti dei lavoratori anche per ragioni diverse rispetto ad una crisi dell’impresa (come, ad esempio, per aumentare la produttività del lavoro).
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V., recentemente, Cass. 31 gennaio 2012, n. 1415, in Dir. prat. lav., 20122, p. 1409, con nota di M. Bellina, ove si giustifica la scelta del contratto collettivo aziendale peggiorativo rispetto a quello nazionale “in quanto rispondente al principio di prossimità all’interesse oggetto di tutela”.
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A. Vallebona, La rifondazione del diritto del lavoro italiano: dal conflitto alla partecipazione, in Riv. it. dir. lav., 2016, in particolare p. 507 e ss.
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Sulla volontà assistita sono fondamentali i contributi di A. Vallebona: v., ex plurimis, Norme inderogabili e certezza del diritto: prospettive per la volontà assistita, in Dir. lav., 1992, p. 480 e ss.; L’incertezza del diritto e i necessari rimedi, in Riv. It. dir. lav., 2004, p. 3 e ss.
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A. Vallebona, op. ult. cit., p. 509.
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Esperto che può essere un avvocato, un commercialista oppure un consulente del lavoro. Vallebona prevede, poi, la possibilità che gli esperti, nelle realtà più grandi, siano due e che possano anche essere comuni a più lavoratori (A.Vallebona, op. loc. ult. cit.).
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In caso di risultato positivo, invece, i lavoratori (eventualmente, nelle imprese di maggiori dimensioni, avvalendosi dello strumento della contrattazione collettiva aziendale) possono chiedere all’impresa un miglioramento delle condizioni lavorative (ad es. un premio di produzione). V. A. Vallebona, op. loc. ult. cit.
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A. Vallebona, op. cit., p. 511.
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V. A. Vallebona, op. loc. ult. cit., per il quale la norma che attribuisce efficacia derogativa alla volontà assistita dei lavoratori non potrebbe essere incostituzionale perché dà attuazione all’art. 46 Cost.
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Sul salario minimo legale vi sono state originariamente due proposte – una del Movimento 5 Stelle e l’altra del Partito Democratico – che si differenziavano solo per quanto riguarda l’importo della retribuzione minima (9 euro lordi e 9 euro netti). Entrambe le proposte prevedevano, infatti, l’introduzione di un salario orario minimo legale – come esiste già in diversi Paesi europei – derogabile dalla contrattazione collettiva solo in senso più favorevole al lavoratore. La proposta del Movimento 5 Stelle, pur presentata già nel luglio 2018 (da Nunzia Catalfo), si era arenata per l’opposizione delle Lega.Nel maggio 2019, il PD ha presentato una nuova proposta (a firma di Tommaso Nannicini), di contenuto diverso, rispetto a quella precedente. Questa proposta vuole dare valore legale ai minimi retributivi fissati dai contratti collettivi e chiedere alle parti sociale di fissare i minimi legali per i settori che non sono contrattualizzati (ad es. i riders). La proposta di intervenire sulla retribuzione, fissando per legge un salario minimo rientrava anche tra le proposte di intervento sul mercato del lavoro del Governo Renzi: l’art. 1, comma 7, lett. g), della l. n. 183 del 2014, conteneva una delega al Governo affinché introducesse un salario minimo legale nei “settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. La proposta del Governo era una proposta minimale: secondo la formulazione della legge delega, il salario minimo legale avrebbe dovuto trovare applicazione esclusivamente nei settori non regolati dalla contrattazione collettiva (questa sembra essere, infatti, l’interpretazione più corretta della norma che non parla di rapporti di lavoro non regolati dalla contrattazione collettiva ma di “settori”).
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Sull’introduzione di un salario minimo legale in Italia cfr.: M. Roccella, I salari, Bologna, 1986, in part. Cap. I; G. Perone, Retribuzione minima, retribuzione sufficiente e limiti alla determinazione giudiziale, in Giur. cost., 1971, p. 1964 e ss. Più recentemente sono tornati sulla questione del salario minimo legale: M. Magnani, Il salario minimo legale, in Riv. it. dir. lav., 2010, p. 769 e ss.; E. Menegatti, Il salario minimo legale…, cit.
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Anche in questo caso si deve osservare che non vi sono ostacoli normativi che impediscano l’adozione di una soluzione del genere, non essendosi tradotta la preferenza dei Padri costituenti per la contrattazione collettiva in una espressa deroga alla stessa.
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Va in questa direziona la proposta di E. Menegatti, op. cit., in particolare p. 99 e ss. e p. 131 e ss., che attribuisce al salario minimo legale la funzione di realizzare il requisito della sufficienza e alla contrattazione collettiva la funzione di realizzare il requisito della proporzionalità. In questa prospettiva, che a me sembra convincente, le due fonti (legge e contratto collettivo) coesisterebbero, completandosi vicendevolmente.
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Il riferimento non è solo ai lavoratori subordinati ai quali non si applica direttamente il contratto collettivo ma può essere anche a quei lavoratori autonomi che si trovano in una situazione di dipendenza economica, che li avvicina, in qualche misura, ai lavoratori subordinati (si pensi ai lavoratori parasubordinati ma anche ai lavoratori occasionali…). Cfr. , sul punto, E Menegatti, op. cit., p. 135 e ss.
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Sulle ragioni della prevalenza dell’art. 36 Cost. sull’art. 4 Cost. si consenta di rinviare a M.C. Cataudella, La retribuzione nel tempo della crisi. Tra principi costituzionali ed esigenze del mercato, Torino, 2013, p. 119 e s.
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Se la contrattazione collettiva di secondo livello o l’autonomia privata assistita fossero autorizzate a derogare alla contrattazione collettiva nazionale anche in senso peggiorativo, riducendo i minimi salariali ivi previsti, la contrattazione collettiva nazionale non rappresenterebbe più, evidentemente, l’unico parametro cui fare riferimento.