Fine vita. Appunti per la riflessione
Salvatore Amato
1.Dimensione culturale. – 2. Eterogeneità delle situazioni terminali. – 3. Inquadramento bio-giuridico. – 4. La legge 2017/219. – 5. Le linee di tendenza della CEDU. – 6. Corte costituzionale (Ordinanza 207/2018). – 7. Rapporto con la dottrina della Chiesa.
1.Il morire è diventato ai nostri giorni un processo lungo, per la pressione psicologica esercitata sul paziente e sui suoi familiari, e molto spesso lento per le possibilità offerte da tecnologie sempre più invasive, cure sperimentali sempre più aggressive, assistenza palliativa sempre più intensa. La morte è stata in qualche modo “allungata”, perché è stata “anticipata” psicologicamente dalle possibilità diagnostiche che hanno creato la nuova figura del “pre-paziente” (Unpatient): il portatore di una suscettibilità genetica a contrarre una malattia, spesso letale. All’opposto, la morte viene “ritardata” da una tecnologia che non può garantire la guarigione, ma è in grado di mantenere tendenzialmente inalterata la funzionalità biologica del corpo. I rapporti con i macchinari possono essere sporadici o totali, ma la dipendenza è sempre assoluta: senza la macchina non si sopravvive.
In mezzo a queste due ipotesi estreme troviamo un’estrema varietà di possibili situazioni a tal punto difficilmente inquadrabili entro uno schema preciso che è stata coniata l’espressione “provvedimenti di fine vita”, per indicare genericamente tutte le questioni che riguardano una condizione di sofferenza che avvicina alla morte. Alla sofferenza e al decadimento del corpo si aggiunge spesso la solitudine: nel letto, nel reparto, nella corsia, nell’ospedale. Barriere fisiche, ma soprattutto esistenziali, che appaiono insuperabili a mano a mano che cresce la dipendenza dagli altri e, nello stesso, l’allontanamento dai propri cari.
Il morire ha, quindi, assunto una propria particolarità e specificità rispetto alla morte. Più che un avvicinamento alla fine, diventa un mondo a sé con i suoi tempi (pre-paziente, paziente terminale, morituro artificiale …), i suoi templi (ospedali, hospice, case di riposo) i suoi riti (consenso informato, disposizioni anticipate di trattamento, pianificazione delle cure) e suoi riflessi esistenziali (isolamento, alienazione, dipendenza). Rispecchia gran parte delle contraddizioni del nostro tempo: una tecnologia che ci aiuta e ci assoggetta.
2.La distinzione principale riguarda il rapporto tra eutanasia attiva e passiva (diretta e indiretta) a seconda che la morte sia determinata dalla somministrazione di una sostanza tossica o dalla mera sospensione delle terapie essenziali, e tra eutanasia volontaria e involontaria, a seconda che avvenga o meno con il consenso del paziente. All’interno di queste categorie generiche l’uso linguistico e la prassi hanno ulteriormente individuato e isolato:
- le cure palliative. la sedazione terminale.
- il suicidio assistito.l’accanimento terapeutico (ostinazione irragionevole, futility).
- il rifiuto preventivo di ogni cura.
- la rinuncia successiva all’inizio di un trattamento.
3.
a) Le cure palliative tendono a migliorare la vita del paziente e dei suoi familiari, prevenendo e alleviando le sofferenze, attraverso l’individuazione e valutazione di un’adeguata terapia del dolore e il sostegno per affrontare tutti gli altri problemi “fisici, psico-sociali e spirituali”.
b) La sedazione palliativa o terminale costituisce uno degli aspetti più delicati delle cure palliative, perché consiste nella somministrazione al paziente, che non risponde più alle normali terapie palliative, di una combinazione di barbiturici, oppioidi e benzodiazepine per ridurre il dolore, determinando un intontimento prolungato o addirittura la perdita della coscienza che potrebbe durerà fino alla morte (sedazione continua profonda). Questa situazione estrema è eticamente e deontologicamente doverosa in presenza di “sintomi refrattari” che variano in base alle condizioni del paziente e comprendono, oltre al dolore non eliminabile altrimenti, difficoltà respiratorie spesso accompagnate da senso di soffocamento, sanguinamenti massivi, delirio, vomito incoercibile, crisi epilettiche. Ha un carattere “terminale” solo quando è continua e profonda, quando la morte è attesa dopo poche ore o pochi giorni. In questo caso è, spesso, accompagnata dalla sospensione dell’idratazione e dall’alimentazione artificiale.
Esiste una netta differenza con la successiva ipotesi del suicidio medicalmente assistito per gli obiettivi (abolizione della percezione), le intenzioni (riduzione della sofferenza), e anche per i tipi, il dosaggio e la via di somministrazione dei farmaci.
c) Il suicidio assistito è la situazione in cui un soggetto, affetto da una grave sofferenza ma non necessariamente in fase terminale, chiede di ottenere, con la prescrizione e/o l’assistenza di un medico, i farmaci indispensabili a porre fine alla propria vita. Una malattia è considerata terminale perché appare grave e incurabile (Belgio, Olanda, Svizzera e Lussemburgo) o per l’imminenza della morte (sei mesi di vita Oregon, Washington, Vermont, stato australiano di Victoria).
d) L’accanimento terapeutico o clinico costituisce il caso estremo in cui l’interruzione del trattamento è giustificata dall’ inutilità, sproporzione, straordinarietà delle terapie. Più accumuliamo aggettivi e più ci rendiamo conto che è impossibile ridurre i margini discrezionali (come hanno mostrato i recenti casi inglesi dei piccoli Charlie e Alfie). Lo stesso concetto è espresso in inglese con futility e, nella legislazione francese con obstination déraisonnable.
e) e f) Le due ipotesi riguardano il nostro problema solo quando ci troviamo di fronte a terapie salva-vita. In questo caso emerge il tendenziale conflitto tra la salute come diritto del soggetto, che ne può disporre in base alle proprie convinzioni (art. 13 e 32 II comma Cost.) e la salute come bene in sé che va tutelato prolungando le terapie di sostegno tutte le volte in cui vi sia una speranza (art. 5 cc e 32 i comma Cost.). Il problema è emerso emblematicamente nel caso Welby e nel caso Englaro.
Nel caso Welby il giudice civile, dinanzi alla volontà di un soggetto capace e cosciente, aveva riconosciuto che non esistono strumento giuridici per imporre una terapia (a parte i casi estremi di TSO) e quindi è innegabile che esiste l’innegabile diritto a rifiutare qualsiasi cura. Questo diritto non è però, “attuabile” una volta iniziata la terapia, perché non si può imporre al medico di porre in esse comportamenti che causano la morte. Nel giudizio penale contro i Dr. Riccio, che aveva assistito Welby, si era invece applicata la scriminante dell’art. 51 cp.
Nel caso Englaro la Cassazione (sezione prima civile n. 21748/07) ha, innanzitutto, ridefinito l’inquadramento complessivo del diritto alla salute nel nostro ordinamento, affermando che “deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”. Questo è “…coerente coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Il Collegio afferma, quindi, che la salute dell’individuo non può “essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva”. Ne ha tratto le ulteriori conseguenze che è legittimo lasciare che la natura compia il suo corso, se questo è il desiderio presunto del paziente (decidere con e non per Eluana) e che idratazione e l’alimentazione artificiale sono trattamenti terapeutici e quindi rientrano nel diritto a rifiutare le cure di cui all’art. 32 Cost.
4.La legge definisce e normativizza una serie di principi e istituti che erano ormai divenuti parte integrante del nostro ordinamento giuridico per effetto della Convenzione di Oviedo, della giurisprudenza prevalente e della prassi terapeutica avallata dal codice di deontologia medica. Mi riferisco in particolare al consenso informato, al diritto a rifiutare le cure senza distinzioni tra inizio e proseguimento della terapia (il problema del caso Welby), alla natura terapeutica della nutrizione e dell’idratazione artificiale (il problema del caso Englaro), al divieto di ostinazione irragionevole (terminologia più corretta rispetto ad accanimento terapeutico), al ricorso alla sedazione palliativa continua e profonda nel quadro della terapia del dolore, all’obbligo di tener conto della volontà del minore in relazione al suo grado di maturità.
L’innovazione di maggior importanza, o almeno di maggior impatto mediatico, è costituita dalla disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento e della pianificazione condivisa delle cure. Anche in questo caso potremmo parlare del consolidamento di alcuni orientamenti giudiziali e di altrettante prassi amministrative. La legge cerca di evitare dei vuoti automatismi decisionali, lasciando al medico, nel rispetto delle richieste del paziente, un margine di rispetto per i propri valori etici e professionali. Il n. 5 dell’art. 4 afferma che può disattendere le DAT quando appaiano “palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della loro sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. Questa prescrizione va letta assieme all’ indicazione di carattere generale dell’art. 1 n. 6 secondo cui “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”.
5.Giudicando le modalità di applicazione della legge svizzera sul suicidio assistito, due decisioni (Haas v. Switzerland 20 January 2007 App. No. 31322/07 e Gross v. Switzerland 14 maggio 2013 App. No. 67810/10) hanno affermato che un individuo ha diritto di decidere con quali mezzi e quando la sua vita abbia fine e che gli Stati hanno l’obbligo positivo di garantire l’esercizio di questo diritto. Queste decisioni hanno influenzato, come vedremo, la nostra Corte costituzionale (Ordinanza 207/2018), chiamata a decidere nel caso Cappato, sulla legittimità costituzionale delle norme del nostro codice penale sull’aiuto e l’istigazione al suicidio.
In Lambert and others v France del 5 giugno 2015 (App no. 46043/14) I giudici hanno indicato alcuni principi importanti in ordine alle decisioni da prendere dinanzi a un soggetto in stato vegetativo persistente:
a) il solo fatto che una persona sia in una condizione irreversibile di incoscienza o, a fortiori, abbia perduto irrimediabilmente la propria autonomia e per questo dipenda dalla nutrizione e dall’idratazione artificiale, non costituisce in quanto tale un’irragionevole ostinazione che giustifica l’interruzione dei trattamenti.
b) se i desideri del paziente non sono noti, non si può assumere che consistano in un rifiuto a essere mantenuto in vita
c) il riconoscimento dell’importanza del decorso del tempo nella valutazione dell’accanimento terapeutico o dell’irragionevole ostinazione
6.La Corte muove da un’affermazione importante, anche se poi non sembra trarne coerentemente tutte le conseguenze: “dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”.
La Corte riconosce, infatti, che l’art. 580 del cp ha un fondamento morale che va ben al di là del contesto storico e culturale in cui è stato emanato, ma afferma che “occorre, tuttavia, considerare specificamente situazioni come quella oggetto del giudizio a quo: situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”.
Vi sono situazioni “nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.”.
La Corte prefigura, quindi, alcune specifiche situazioni in cui l’assistenza medica la suicidio dovrebbe essere consentita. Specificamente la persona da assistere sia “ (a) affetta da una patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
7.Il Catechismo nella redazione del 1992 afferma chiaramente che “Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone malate, handicappate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile” (2277). Chiarisce, nel successivo, che “un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte alla fine di porre fine al dolore costituisce un’ uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto di Dio, suo creatore”.
Il § 2278 descrive, invece, le situazioni in cui “non si vuole procurare la morte, ma si accetta di non poterla impedire” e, quindi, dichiara legittima l’interruzione delle procedure mediche “onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi” (accanimento terapeutico).
Il 2279 afferma che “anche se la morte è considerata imminente le cure che d’ordinario sono dovete a una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte”. Dichiara, poi, doverose (“una forma privilegiata di carità disinteressata”) le cure palliative destinate a ridurre la sofferenza, “anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni”, nella misura in cui “la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile”.
Sono, pertanto pienamente compatibili, a mio avviso, con il Magistero le ipotesi a), b), d) salvo la difficile valutazione caso per caso della sottile linea di demarcazione che esiste tra il dovere dell’insistenza terapeutica e la presa d’atto della necessità della desistenza.
E’ incompatibile con questi insegnamenti il suicidio medicalmente assistito c).
Meritano un’attenta valutazione le ipotesi e) e f), anche alla luce della recente legge 217/219 e di uno dei loro strumenti di attuazione, le DAT, nei limiti in cui consentono il rifiuto di trattamenti salvavita e di cure che “d’ordinario sono dovute” (ad es. idratazione e alimentazione artificiale). Questa valutazione va fatta attentamente senza pregiudizi e vuoti schematismi, muovendo dall’accorata esortazione di Papa Francesco “Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona” (Messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della “world medical association” sulle questioni del “fine-vita, 16-17 novembre 2017)”. Sembra poi che il S.P. si rivolga proprio a noi, giuristi cattolici, quando afferma che “in seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise”.
E’ anche sempre presente il potente messaggio dell’Evangelium vitae con cui Giovanni Paolo II denuncia la tentazione del nostro tempo di “impadronirsi della morte, procurandola in anticipo”.
Io penso che vi sia una linea di demarcazione che, in una società pluralista, il credente non può rifiutare. La linea tracciata dalla giurisprudenza e dalla stessa L. 219 nel distinguere tra lasciar morire e far morire. Di fronte a tecnologie sempre più complesse ed invasive, il rifiuto o la rinuncia alle cure costituiscono una comprensibile accettazione della morte e non il superbo tentativo di impadronirsene. Non è possibile impedire a un soggetto, cosciente e responsabile, di esercitare il diritto di scegliere fino a che punto sottoporsi a una terapia. Anche il Catechismo afferma che “le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità”. E quale decisione è più fondamentale di quella che riguarda la fine della propria esistenza? Del resto nel nostro ordinamento giuridico l’art. 13 e 32 della Cost. impediscono che un soggetto possa essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà. Il rispetto dell’integrità personale è uno degli elementi essenziali della tutela della libertà.
Non credo che questa interpretazione, di ragionevole equilibrio in una società pluralistica, sia incompatibile con lo spirito e con la lettera del Catechismo che parla di “mettere fine”, “provocare la morte” e quindi muove dall’ipotesi di un atto indipendente dalla volontà del soggetto. Teniamo presente che, sarebbe contro il senso dell’insegnamento cristiano e di quella prossimità responsabile di cui parla Papa Francesco, considerare i “mezzi straordinari” solo alla luce delle risultanze tecniche. Anche l’ospedalizzazione prolungata, la dipendenza integrale da una macchina, il ripetersi degli interventi chirurgici possono rendere straordinario quello che nell’immediato è ordinario. Quando il Catechismo parla delle cure che “d’ordinario sono dovute” indica, a mio avviso, una dimensione esistenziale che va, caso per caso, rimessa alla coscienza di chi soffre. La morte per pietà va combattuta con la pietà per la morte, con la capacità di offrire tutti gli strumenti medici e sociali per aiutare chi soffre. E tra questi rientra anche la sicurezza che non si resterà prigionieri di una macchina, che non si sarà “condannnati” a vivere
In questa prospettiva le DAT sono uno strumento legittimo per consentire al soggetto incapace di chiedere quelle stesse cose che potrebbe ottenere se fosse capace. E’ un modo per dare voce a chi non può parlare.
Proprio per questi motivi credo sia inaccettabile, nei casi di stato vegetativo persistente, il ricorso al consenso presunto elaborato nel caso Englaro dalla Cassazione.
Mi pare sia accettabile, invece, la linea tracciata dalla CEDU nella decisione sul caso Lambert, quando afferma che “il solo fatto che una persona sia in una condizione irreversibile di incoscienza o, a fortiori, abbia perduto irrimediabilmente la propria autonomia e per questo dipenda dalla nutrizione e dall’idratazione artificiale, non costituisce in quanto tale un’irragionevole ostinazione che giustifica l’interruzione dei trattamenti”. Altrettanto significativa è un’affermazione del Comitato Nazionale per la Bioetica di qualche anno fa (2008) sul problema dei grandi prematuri: è “da ritenersi alla stregua di un principio che un trattamento che prolunghi la sopravvivenza di un disabile non possa mai essere definito futile, per il solo fatto che si rivela capace di prolungare la sua vita, anche se qualificabile da alcuni come di qualità bassa”.
Nel quadro di un ragionevole compromesso con le tendenze del nostro tempo potrebbe essere accettabile prendere in esame il decorso del tempo nella valutazione dell’accanimento terapeutico o dell’irragionevole ostinazione.