Dialogo, persona e sinodalità nell’enciclica “Ecclesiam suam”di San Paolo VI
Francesco Coccopalmerio
Sommario: 1. Il pensiero del Pontefice, come ricavabile dal Capitolo III – 2. Gli elementi dell’ascoltare e del parlare. – 3. Il concetto di “persona” – 4. La sinodalità – 5. Conclusioni pastorali.
Nella occasione solenne della canonizzazione di Papa Paolo VI, mi è parso opportuno rileggere e rimeditare la enciclica “Ecclesiam suam”, datata 6 agosto 1964, per due motivi: da una parte, questa enciclica è la prima del Pontefice oggi santo, dall’altra, è un documento eccezionale, in quanto , quasi certamente, ha notevolmente influito sullo svolgimento del Vaticano II: infatti Paolo VI scrive questa enciclica proprio per indirizzarla ai Padri del Concilio all’inizio ormai della terza sessione, non con l’intento di condizionarne gli orientamenti dottrinali e pastorali, ma solo con il forte desiderio di far conoscere a loro il suo pensiero e la sua passione per la santa Chiesa.
L’enciclica si suddivide in tre parti: Capitolo I “La coscienza”; Capitolo II “Il rinnovamento”; Capitolo III “Il dialogo”.
Vorrei portare la nostra attenzione sul Capitolo III, perché ritengo che la tematica “il dialogo” sia tra quelle che più fortemente hanno determinato l’ermeneutica del Concilio e del post Concilio.
1.Vediamo dunque il pensiero del Pontefice, come ricavabile dal Capitolo III. Ricordata la differenza tra la Chiesa e il mondo e, al contempo, affermata con chiarezza la non separazione dell’una dall’altro (nn, 60-65), l’enciclica sottolinea la missione della Chiesa verso il mondo e così afferma: “Noi daremo a questo interiore impulso di carità […]Il nome, oggi diventato comune, di dialogo”(n. 66).
Che cosa, dunque, per Paolo VI è il dialogo? Possiamo dire che il dialogo è l’annuncio del Vangelo, in un modo, però, non astratto, ma concreto, cioè adattato alle persone concrete con i loro modi concreti di pensare di vivere, di sentire.
Paolo VI lo dice più volte, in vari luoghi e in diverse forme. Giova rileggere alcune espressioni:
“Noi vogliamo soltanto invitarvi, Venerabili Fratelli, ad alcune considerazioni affinchè siano più chiari i motivi che spingono la Chiesa al dialogo […]Né possiamo fare altrimenti, nella convinzione che il dialogo debba caratterizzare il Nostro ufficio Apostolico […]”(nn. 69-70);
“ Al Concilio stesso non si è voluto dare, e giustamente, uno scopo pastorale, tutto rivolto all’inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parola, di cultura, di costume, di tendenze dell’umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia della terra? Ancora prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli”(n. 70);
“Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco., ma adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo e altro con un adulto; altro con un credente e altro con un non credente)” ( n. 80);
“ La prudenza pedagogica […] la quale fa grande conto sulle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta (Mt 7,6): se bambino, se incolto, se impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità di lui, e di modificare , ragionevolmente, se stesso e le forme della propria presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile”( n. 84);
“[…]occorre […] immedesimarsi[….] nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo… Bisogna , ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio […] secondo l’esempio che Cristo ci lasciò( cf. Gv 13, 14-17)” (n. 90).
Dopo la carrellata di testi citati, vorrei riprendere, a modo di sintesi e di espressione emblematica, queste parole: “Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo […]” ( n.90) .
Ecco, dunque, quelli che riteniamo essere per Paolo VI gli elementi costitutivi del dialogo: ascoltare e parlare, prima ascoltare e poi parlare, prima ascoltare per conoscere la persona e poi parlare per annunciare il Vangelo in modo adattato alla persona concreta. E così, la persona che prima ascolta e poi parla, può competentemente rispondere a quanto ha ascoltato.
- Possiamo, allora, scomporre meglio, per quanto rapidamente, i due elementi dell’ascoltare e del parlare.
- a) Il primo elemento del dialogo è quello dell’ascoltare: una persona ascolta quello che le dice un’altra persona. Ora notiamo che la persona che ascolta può soltanto avere disponibilità ad ascoltare un’altra persona e per tale motivo può soltanto permettere che un’altra persona le parli oppure può anche avere interesse ad ascoltare un’altra persona per tale motivo può anche desiderare che un’altra persona le parli.
Avere disponibilità ad ascoltare e per tale motivo permettere che un’altra persona parli è una condizione non sufficiente per instaurare un dialogo vero e proficuo: e, in effetti, una persona ascolta ciò che l’altra le sta dicendo, però non lo valuta , non lo ritiene importante, non si impegna a riflettervi, non cerca di capirlo e per tale motivo lo disattende. Così, del tutto logicamente, non può rispondere a quanto ha ascoltato o, più esattamente, nemmeno ha ascoltato. Oppure può rispondere, però per pura cortesia. Con tali presupposti, è evidente che un dialogo vero e proficuo non può instaurarsi.
Avere interesse ad ascoltare e per tale motivo desiderare che un’altra persona parli, è condizione necessaria per instaurare un dialogo autentico. E, in effetti, una persona ascolta ciò che l’altra le sta dicendo, lo ritiene importante, si impegna a riflettervi e cerca di capirlo. Così può rispondere a quanto ha ascoltato e pertanto il dialogo può instaurarsi e continuare proficuamente.
Ora notiamo che una persona ha interesse ad ascoltare e per tale motivo desidera che un’altra persona le parli, quando ritiene che il pensiero e il messaggio contenuto nelle parole di questa persona sia un bene, ricevendo il quale la persona che ascolta ha un vantaggio e perdendo il quale ha una mancanza o addirittura un danno.
Notiamo, comunque, che conoscere il messaggio dell’altra persona non significa in modo necessario approvarlo come buono e accoglierlo come utile: significa soltanto conoscerlo.
Tuttavia, la persona che ascolta reputa un bene anche solo il fatto di conoscere il pensiero e il messaggio contenuti nelle parole dell’altra persona.
In ogni modo la persona che ascolta dà al messaggio una sua valutazione o come conforme o come difforme da una visione veritativa della realtà. Può, per tale motivo, approvarlo o non approvarlo.
- b) Il secondo elemento del dialogo è quello del parlare: la persona che dapprima ha ascoltato par la ora all’altra persona. E a questo punto sono aperte due possibilità per continuare un dialogo vero e proficuo. E sono aperte in capo alla persona che ha ascoltato.
In primo luogo è aperta la possibilità di dare una risposta concreta alla persona che ha parlato, per esempio un annuncio del Vangelo in modo adattato alla persona. Ed è questo il pensiero espresso da Paolo VI nei testi sopra citati dell’enciclica “Ecclesiam suam”.
In secondo luogo, è aperta la possibilità di usufruire del pensiero e del messaggio comunicati dalla persona che ha parlato, sia semplicemente per arricchire il bagaglio della propria conoscenza sia più specificamente per prendere decisioni operative.
In ogni modo risulta chiaro ed è da mettersi in piena evidenza: se la persona che ascolta sente il bisogno e il desiderio di conoscere il pensiero dell’altra, ciò significa che mette al centro questa persona.
E la mette al centro nella sua singolarità, prendendo in considerazione la sua individualità, in altre parole ciò che la persona ha di peculiare, il suo pensiero, la sua sensibilità, la sua formazione, le sue capacità. Ed è proprio questo il nucleo incandescente del dialogo: mettere al centro la persona considerata nella sua singolarità. E considerare la persona nella sua singolarità è il modo vero, è il modo – diciamo – serio di considerare la persona.
- A questo punto, ci sia consentita una breve digressione su un certo aspetto del concetto di persona. Da una parte, tutte le persone umane e, quindi, tutte le persone nella Chiesa, cioè tutti i fedeli, possiedono elementi comuni che costituiscono la realtà della persona, sono la ontologia della persona, considerata , appunto, negli elementi comuni e, pertanto, nella sua generalità.
D’altra parte, ogni persona, mentre possiede gli elementi comuni di cui sopra, ha nel contempo elementi singolari, che costituiscono la realtà della persona, sono la ontologia della persona, considerata, invece, negli elementi peculiari e, pertanto, nella sua individualità.
L’ontologia della persona considerata nella sua generalità esiste certamente nel pensiero, non però nella realtà, esiste come astrazione, non però nella realtà. L’ontologia della persona considerata nella sua singolarità esiste invece nella realtà, precisamente nella realtà della persona singola.
Per quanto detto, possiamo parlare, da una parte, di ontologia della persona considerata nella sua generalità e perciò nella sua astrattezza e, dall’altra, di ontologia della persona considerata nella sua singolarità e perciò nella sua concretezza.
Notiamo ora che ogni persona è, da una parte, a causa degli elementi comuni, perfettamente uguale a ogni altra persona, ma è, dall’altra, a causa degli elementi singolari, assolutamente diversa da ogni altra persona.
Per quanto detto, possiamo convenire che la ontologia della persona o, meglio, della persona singola, è costituita da due fattori: dall’ontologia della persona considerata nella sua generalità, cioè dal complesso degli elementi comuni a tutte le persone e, insieme, dall’ontologia della persona considerata nella sua singolarità, cioè dal complesso degli elementi peculiari a una persona singola.
Poniamoci a questo punto di fronte a una persona singola. Se ora consideriamo la ontologia di tale persona solo negli elementi comuni a tutte le altre persone e non anche negli elementi peculiari a questa persona, ci rendiamo facilmente conto che non conosciamo la persona, quella che ci sta davanti, o la conosciamo solo a metà.
Gli elementi singolari possono essere positivi o negativi. Gli elementi positivi sono qualità della persona, doti della persona, di intelligenza, sensibilità, preparazione, esperienza. Gli elementi negativi sono invece limitazioni della persona, carenze, impreparazioni, inesperienze, incapacità.
Il fatto che una persona singolare abbia nella sua ontologia elementi positivi e negativi è – diciamo così – la radice di due istanze presenti ai nostri giorni nella riflessione teologico-canonica e in particolare nel pensiero di Papa Francesco: intendo riferirmi, da una parte, alla sinodalità, e dall’altra alla legge della gradualità e del bene possibile. In questo particolare contesto posso però trattare – per semplice ragione di tempo – solo del primo argomento.
- L’istanza della sinodalità trova il fondamento negli elementi positivi della persona singola. Tutti sappiamo quanto la sinodalità si sia affermata nella Chiesa in questi ultimi tempi, anche come frutto delle intense relazioni ecumeniche con le altre Chiese cristiane. E tutti sappiamo quanto la sinodalità sia nel cuore e quindi nella pastorale di Papa Francesco.
Diamo qui della sinodalità un concetto molto elementare e quindi molto limitato, che però crediamo utile in vista della riflessione seguente. Intendiamo, dunque, per sinodalità, nel significato etimologico del termine, un cammino congiunto, un’attività congiunta tra pastori e fedeli, e tra pastori e pastori nel preciso senso, che, da una parte c’è chi è tenuto a prendere una decisione pastorale e, dall’altra, c’è chi è chiamato a dare un proprio apporto alla formulazione di tale decisione.
Tutto, nella sinodalità, si fonda sulla convinzione che ogni persona umana e quindi ogni fedele è una realtà singolare ed è una realtà unica, nel senso che ogni persona è di per se diversa da ogni altra persona, ha qualità singolari, ha doni peculiari, a volte unici e non ripetibili in altre persone. E per tale motivo può dare qualche cosa di singolare, un apporto a volte unico e perciò non ripetibile, qualcosa del suo pensiero, della sua spiritualità, della sua sensibilità. I beni che questa persona può dare agli altri, nessuna altra persona può di per sé darli.
E se così stanno le cose, allora la conclusione si presenta nella sua immediata evidenza: ascoltare e desiderare di ascoltare; o si ascolta questa persona, e così si ricevono i beni, cioè quei beni, di per sé non ripetibili di cui abbiamo parlato o si perde un’occasione che è di per sé unica e non potrà ripetersi. Di qui la necessità della sinodalità, anzi l’urgenza della sinodalità, insomma il desiderio della sinodalità.
Vorrei esprimermi così: il dialogo come ascolto, come necessità dell’ascolto, come urgenza dell’ascolto, come desiderio dell’ascolto, è la radice della sinodalità.
Dobbiamo con semplicità riconoscere che l’Enciclica “Ecclesiam suam” non sviluppa sufficientemente il predetto appello dell’ascolto.
Certo, presuppone l’importanza nell’ascolto (“ascoltare il cuore dell’uomo”), ma questo è riconosciuto come importante e necessario soprattutto quale presupposto per potere annunciare il Vangelo in modo adattato alla persona. Ascoltare, però, è necessario anche per ricevere un apporto dalla persona che si sta ascoltando.
A questo punto qualcuno spontaneamente potrebbe obiettare che allora sarebbe necessario ascoltare ogni persona, perché solo così sarebbe possibile ricevere tutti i beni che ogni persona può dare, non perdendo nessuno degli stessi. Obiezione, in astratto, pienamente condivisibile, ma, in concreto, difficilmente attuabile, semplicemente per la numerosità delle persone che sarebbe necessario ascoltare.
Certo, non escludiamo che ciò sia possibile almeno in comunità locali a dimensioni particolarmente limitate, dove i pastori possono intrattenere frequenti colloqui con i singoli fedeli o possono riunire tutti i fedeli in una unica assemblea.
Se, però, ciò non risulta possibile, abbiamo le apposite strutture, da qualche tempo ampiamente previste dalla normativa canonica e cioè i consigli ecclesiali a livello di Chiesa universale o di singole Chiese particolari.
A questo punto si dovrebbero svolgere due riflessioni. La prima sullo specifico valore di offrire consigli ai pastori non come singoli, bensì nell’ambito di consigli ecclesiali e la seconda sul significato vero da attribuire ai difficili concetti di consultivo e di deliberativo nella struttura della Chiesa. Tuttavia è impossibile svolgere tali riflessioni in questo particolare contesto. E, comunque, ne ho trattato altrove.
- Interessa, piuttosto, presentare relativamente al tema della sinodalità, alcune conclusioni pastorali che valgano come propositi, spirituali e operativi, sia per i pastori sia per i fedeli. E ciò vogliamo fare anche a devota memoria del Santo Papa Paolo VI e nel fedele impegno di applicazione della Enciclica “Ecclesiam suam”.
Tali propositi – giova ripeterlo – trovano origine – diciamo così – dalla conversione della mente e del cuore al presupposto dottrinale e spirituale dell’ontologia della persona, considerata, però, nella sua singolarità e pertanto dalla convinzione che ogni persona può dare qualcosa di proprio, a volte di unico.
Un proposito per i pastori, in quattro punti: a) credere convintamente che ogni fedele, dal semplice battezzato e cresimato fino al più elevato nella gerarchia, ha da conferire agli altri qualche bene personale, qualche dono peculiare; b) sentire veramente il bisogno di ascoltare ogni fedele per recepire il dono peculiare che ciascuno può apportare ; c) promuovere efficacemente tutti gli ambiti di consigli ecclesiali, a partire dal Concilio ecumenico o dal Sinodo dei Vescovi per arrivare fino agli innumerevoli consigli pastorali parrocchiali: d) superare intelligentemente la divaricazione concettuale tra voto consultivo e voto deliberativo, nella piena convinzione del valore dei consigli offerti dagli altri fedeli o dagli altri pastori e accogliendoli come un valore, pur nella libertà di un giudizio conclusivo.
Un proposito per i fedeli. Credo che possiamo prendere lo spunto dalle parole del can. 212 §3, eco fedele di “Lumen gentium” 37,1: “In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi (i fedeli) hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa […]”.
Dunque i fedeli (laici e clerici) hanno non solo il diritto, ma a volte anche il dovere, di manifestare ai pastori il loro pensiero nel bene della Chiesa. E, allora, il proposito per i fedeli, in questo senso soprattutto per i laici, è quello di essere consapevoli di questo dovere. Per tale motivo, ognuno dica a se stesso: io ho dei doni particolari che possono giovare alla Chiesa, che possono aiutare i pastori e quindi ho il dovere di comunicare il mio dono, per esempio il mio consiglio. Non posso tenerlo dentro di me, devo manifestarlo, devo comunicarlo. Di qui l’importanza e il proposito di impegnarsi nella comunità ecclesiale, di interessarsi delle sue problematiche, di formarsi un proprio giudizio e poi con il giusto discernimento e con una adeguata parresia comunicarlo ai propri pastori.
In modo particolare i fedeli dovrebbero dare la loro generosa disponibilità a far parte degli appositi consigli ecclesiali nei quali portare il proprio pensiero.