Un’attenta analisi di quanto emerso dal vertice tenutosi tra il 21 e il 24 febbraio 2019, alla presenza del Santo Padre, per discutere della dolorosa piaga degli abusi su soggetti indifesi e del vademecum, indicato dallo stesso Papa Francesco, sulle procedure da attuare in presenza di possibili casi all’interno della Chiesa.
Delicta graviora contra mores. Alcune considerazioni prospettiche
Claudio Gentile
Negli ultimi mesi nuovi scandali, riguardanti sacerdoti che hanno abusato di minori e Vescovi loro superiori che li hanno protetti o comunque coperti, sono scoppiati in varie parti del mondo (Stati Uniti, Cile, Honduras, Australia, Olanda, Germania, Italia, etc.). Le notizie riportate da organi ecclesiastici[1], giudiziari[2] o di stampa, nonché alcune sentenze emesse da tribunali laici ed ecclesiastici[3], hanno fortemente colpito l’opinione pubblica e la comunità dei fedeli. Le polemiche generate hanno portato, per esempio, tutti i Vescovi del Cile, dopo essere stati convocati in Vaticano, a presentare al Papa le loro dimissioni e numerose Conferenze Episcopali a scrivere ai loro fedeli per chiedere scusa[4].
Il Papa stesso, addolorato per quanto veniva diffuso, ha più volte chiesto perdono per il male, diretto o indiretto, fatto da uomini di Chiesa alle persone più piccole e indifese[5], ha indirizzato una “Lettera al popolo di Dio”[6] ed ha convocato tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali sparse nel mondo per affrontare il tema della “protezione dei minori”[7].
Dal 21 al 24 febbraio 2019 oltre 190 tra Cardinali, Vescovi, Superiori di Congregazioni religiose maschili e femminili, laici e laiche qualificati ed anche vittime di abusi, alla presenza del Santo Padre, hanno discusso su quali ulteriori iniziative la Chiesa deve assumere per proteggere ancor più efficacemente i soggetti indifesi[8]. E’ la prima volta che in Vaticano si tiene un incontro di questo genere, sia per il tema trattato, sia per il numero e la qualificazione dei soggetti presenti.
In apertura del vertice, che ha avuto anche grande risalto sulla stampa internazionale, il Papa ha fatto distribuire ai presenti un documento contenente ventuno “punti di riflessione”[9], frutto dei suggerimenti pervenuti dalle stesse Conferenze Episcopali al Comitato Organizzatore dell’incontro, attraverso i quali avviare la discussione. Tra le indicazioni presenti vi era la richiesta di elaborare un vademecum sulle attività da compiere in presenza di un caso di abusi, stabilire protocolli specifici per la gestione della accuse contro i Vescovi, facilitare la partecipazione degli esperti laici nelle investigazioni e nei diversi gradi di giudizio dei processi canonici concernenti abuso sessuale e/o di potere, effettuare per i candidati al sacerdozio e alla vita consacrata una valutazione psicologica da parte di esperti qualificati e accreditati, accompagnare, proteggere e curare le vittime, offrendo loro tutto il necessario sostegno per una completa guarigione, etc.
L’Incontro è stato molto intenso, con forti assunzioni di responsabilità e richieste di perdono, anche drammatico e doloroso durante le testimonianze di alcune vittime.
Molto accurato ed a tratti duro è stato il discorso finale di Papa Francesco[10], il quale, dopo aver ricordato che la piaga delle violenze sui minori è diffusa in ogni parte del mondo e che «chi commette gli abusi sono soprattutto i genitori, i parenti, i mariti di spose bambine, gli allenatori e gli educatori», ha ribadito chiaramente che “se nella Chiesa si rivelasse anche un solo caso di abuso – che rappresenta già di per sé una mostruosità – tale caso sarà affrontato con la massima serietà“. Per il Papa “nella rabbia, giustificata, della gente, la Chiesa vede il riflesso dell’ira di Dio, tradito e schiaffeggiato da questi disonesti consacrati. L’eco del grido silenzioso dei piccoli, che invece di trovare in loro paternità e guide spirituali hanno trovato dei carnefici, farà tremare i cuori anestetizzati dall’ipocrisia e dal potere. Noi abbiamo il dovere di ascoltare attentamente questo soffocato grido silenzioso“.
Tra le indicazioni fornite dal Papa nel suo discorso la Chiesa, nel prossimo futuro, dovrà in particolare: 1) “cambiare mentalità per combattere l’atteggiamento difensivo-reattivo a salvaguardia dell’Istituzione, a beneficio di una ricerca sincera e decisa del bene della comunità“; 2) “consegnare alla giustizia chiunque abbia commesso tali delitti. La Chiesa non cercherà mai di insabbiare o sottovalutare nessun caso“; 3) formare diversamente i candidati al sacerdozio; 4) predisporre norme e non solo orientamenti; 5) accompagnare le persone abusate.
Al termine delle intense giornate di lavoro, il Moderatore dell’Incontro, l’ex Direttore della Sala Stampa della Santa Sede Padre Federico Lombardi, ha annunciato che a breve, come primi frutti dell’iniziativa, Papa Francesco emanerà un Motu Proprio sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili, che accompagnerà una nuova legge dello Stato della Città del Vaticano in materia, e delle Linee guida per il Vicariato della Città del Vaticano, mentre la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicherà un vademecum che “aiuterà i vescovi del mondo a comprendere chiaramente i loro doveri e i loro compiti“. Infine verrà creata una task forces per aiutare le Conferenze Episcopali e le Diocesi in difficoltà[11].
E’ necessario ricordare che i più recenti scandali non colgono impreparata la Santa Sede, che ormai da oltre un ventennio combatte contro la triste realtà della pedofilia. E’ forse una delle poche istituzioni a livello mondiale ad aver affrontato così energicamente questo crimine.
Da San Giovanni Paolo II fino a Papa Francesco, passando per Benedetto XVI, si contano numerosi documenti, prese d’atto e richieste di perdono[12].
Anche da un punto di vista normativo sono state approntate nuove e più stringenti regole.
Nel 2001 Giovanni Paolo II ha emanato il Motu Proprio Sacramentorum sanctitatis tutela[13] con il quale è stata riorganizzata l’intera normativa, sia sotto l’aspetto sostanziale, sia sotto quello processuale, sui delicta reservata[14].
Con questa nuova normativa, novellata ed integrata nel 2010 da Papa Benedetto XVI[15], i delitti contro i minori sono stati esplicitamente considerati tra i delitti più gravi dell’ordinamento canonico e, di conseguenza, a causa della loro singolare gravità e dei particolari beni giuridici tutelati, sono stati espressamente confermati di esclusiva competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede. Fino all’emanazione della normativa del 2001 non erano del tutto chiari né tutti i delitti di competenza della Congregazione, né le procedure utilizzate per i relativi giudizi. Vigeva al riguardo un’assoluta segretezza ed una genericità di norme, che certamente non ha aiutato a gestire il fenomeno.
Anche Papa Francesco non si è sottratto a questa impari lotta ed ha emanato alcuni documenti volti, da un lato, a velocizzare i procedimenti canonici e, dall’altro, a normare il procedimento amministrativo per allontanare gli Ordinari diocesani rei di aver protetto i preti pedofili. Mi riferisco all’istituzione dello speciale Collegio per l’esame dei ricorsi presso la Sessione Ordinaria della Congregazione per la Dottrina della Fede[16] ed al Motu Proprio Come una madre amorevole[17].
Non solo, ma ha istituito la Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori [18]“con lo scopo di offrire proposte e iniziative orientate a migliorare le norme e le procedure per la protezione di tutti i minori e degli adulti vulnerabili“[19].
Inoltre, pur di non lasciare impuniti sacerdoti e Vescovi accusati di pedofilia o di pedopornografia in servizio presso la Curia Romana e le Nunziature sparse nel mondo durante munere, Papa Francesco, contestualmente all’emanazione della Legge n. VIII dello Stato Città del Vaticano[20], che ha dedicato un intero titolo, il II, ai delitti contro i minori, ha promulgato il Motu Proprio Ai nostri tempi[21]. Con il citato documento la Suprema Autorità della Chiesa ha attribuito al giudice secolare vaticano l’autorità per giudicare e condannare, secondo la normativa vigente nello Stato, i soggetti dell’ordinamento canonico (Capi Dicastero, Nunzi Apostolici, titolari di mandati amministrativi o giudiziari, etc.) che, nell’esercizio delle loro funzioni, si rendano colpevoli di uno dei reati previsti nelle leggi penali vaticane, ed in particolare nelle Leggi nn. VIII e IX del 2013.
Conseguenza dell’atto voluto dal Papa è che il giudice vaticano, altrimenti anch’esso carente di giurisdizione nei confronti di soggetti afferenti ad un ordinamento indipendente e sovrano qual è quello canonico, è legittimato ad intervenire[22]. Già una sentenza è stata emessa al riguardo, mentre un altro caso è perento per morte dell’accusato.
Non vanno, poi, dimenticati altri atti “minori”[23], come la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede per aiutare le Conferenze Episcopali nel preparare Linee Guida per il trattamento dei casi di abuso dei minori e, strettamente connesso con questi interventi, i documenti della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri[24] e per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio[25].
Certamente le cause di questo “disastro”, da alcuni definito “l’11 settembre della Chiesa Cattolica“[26], sono molteplici. Tra queste, come ha affermato Papa Francesco, devono essere indicate in primis l’elitismo ed il clericalismo e l’abuso di potere e di coscienza[27].
Come si intuisce da quanto finora riportato molto è stato fatto in questi anni ed i risultati si stanno iniziando a vedere. La strada da percorrere, però, è ancora molto lunga, soprattutto perché è necessario un forte cambio di mentalità su questi argomenti, che deve permeare in ogni ambito della Chiesa ed a ogni latitudine.
Compito dei giuristi è quello di aiutare il legislatore a migliorare sempre più la normativa e scopo del presente breve lavoro è proprio quello di indicare alcuni problemi dell’attuale legislazione sui delicta contra mores e qualche idea per perfezionarla, de iure condendo, ulteriormente.
Come abbiamo già anticipato, fino al 2001, ad eccezione di una ristretta cerchia di “addetti ai lavori”, vigeva un’assoluta segretezza sulla normativa riguardante i delicta contra mores[28]. Si deve attendere addirittura il 2010 per conoscere ufficialmente e per intero anche il contenuto della normativa emanata da San Giovanni Paolo II[29]. Molto probabilmente tutto ciò, sommato alle critiche all’ordinamento canonico in generale ed al sistema penale in particolare, infiammatesi in tutta la Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, ed a un atteggiamento paternalistico ed indulgente in molti Pastori, è stato una delle cause della non pronta risposta della Chiesa al fenomeno degli abusi, che non pochi problemi ha portato e sta portando alle varie comunità.
La pubblicazione della normativa non ha, tuttavia, eliminato completamente il problema della conoscibilità della legge. Infatti, se dal 2010 è chiara la lettera e la mens legislatoris e tutti possono avere accesso al testo normativo, tuttavia nessuno conosce la giurisprudenza del Tribunale Apostolico deputato a giudicare questi crimini. Tutte le azioni si svolgono e tutti gli atti sono emanati sub secreto pontificio e sono quindi inaccessibili[30].
La dottrina, che in questi anni ha lungamente discettato sull’argomento ed ha realizzato numerose pubblicazioni, non ha potuto commentare alcuna sentenza. Il “diritto vivente”, tuttavia, ben potrebbe chiarire determinati aspetti e fugare alcuni dubbi ancora oggi non del tutto scontati e chiari (p.es.: quel determinato comportamento è stato punito? Quell’atto è interruttivo della prescrizione? Quella documentazione è stata ritenuta sufficiente?). Solo pochissimi autori, che hanno avuto modo di consultare alcune sentenze per motivi di lavoro (p.es. officiali della Congregazione), hanno riferito su come il Tribunale ha risolto una determinata questione. I loro testi, seppur autorevolissimi ed importantissimi in quanto danno un buona informativa ed interpretazione degli argomenti, tuttavia sono solo sporadici e comunque personali commenti e non permettono un accesso libero e diretto alle fonti. Un altro autore, leggendo la sentenza, potrebbe magari non condividere l’interpretazione data dai giudici e offrirne una ulteriore.
Tutto ciò non rende certo facile agli Ordinari ed ai loro collaboratori (non dimentichiamo che la Chiesa opera in tutte le aree geografiche del mondo con migliaia di persone coinvolte), che devono effettuare le indagini previe ed eventualmente giudicare in primo grado conoscere l’interpretazione che viene data ad ogni singola norma, sostanziale o processuale che sia, con evidenti perdite di tempo ed errori in procedendo ed in judicando.
Ovviamente nessuno chiede di divulgare notizie ed informazioni riservate, ma, alla stregua delle sentenze rotali o dei decreti della Segnatura, nulla vieta di pubblicare i documenti ritenuti più importanti, privati di nomi, luoghi, date, etc.
Potrebbe essere questo un’utile strumento per il raggiungimento della giustizia e per un’appropriata punizione dei rei.
La mancata pubblicazione della giurisprudenza non risolve certamente il problema della pedofilia ecclesiastica, ma potrebbe essere anche indicato come segno di una mentalità di chiusura (o di difesa) che ancora oggi vige nella Chiesa in questa materia.
Il problema della conoscibilità della legge e della giurisprudenza è strettamente legato alla questione del segreto pontificio che incombe su tutta la materia. Tutti gli operatori, infatti, sono vincolati a tale segreto, pena la scomunica, e nulla può conoscersi in merito. Anche durante l’ultimo Incontro in Vaticano è stato fatto cenno ad una revisione normativa in tal senso. Ritengo che un tale livello di segretezza non occorra, considerato che generalmente la comunità dei fedeli oggi vive in società che vedono la trasparenza e la conoscibilità delle azioni pubbliche come principi fondamentali dell’agire e dello stare in comunità[31]. Il popolo ritiene generalmente che l’unico motivo per non essere trasparenti è il desiderio di occultare qualcosa di negativo o di corrotto. Se, in genere, il segreto pontificio è una garanzia per la libertà della Chiesa (p.es. in merito alla nomina dei Vescovi), nel caso specifico dei procedimenti in materia di abusi (o nei confronti dei Vescovi che li coprono) una eccessiva riservatezza, una mancanza di conoscenza sulle iniziative intraprese dall’Autorità e, soprattutto, sugli esiti dei procedimenti può rendere vano lo sforzo della Chiesa ed essere controproducente, in quanto può far pensare che si stia occultando il fatto denunciato o proteggendo i sacerdoti abusatori. La vittima di un abuso e chi gli sta vicino (famiglia, amici, comunità) hanno il diritto di sapere se un procedimento è iniziato, come si sta svolgendo e come si è concluso, cosa che oggi non sempre avviene. Veder pubblicata una condanna può dar fiducia ad altre vittime e migliorare l’immagine della Chiesa. Credo che la Chiesa non debba aver timore di far ciò. D’altronde il suo Fondatore non ha forse detto che la verità rende liberi?
Un primo intervento che faciliterebbe i processi, come già indicato da alcuni autori, potrebbe riguardare la “strana” formulazione del delitto di pedopornografia. Il delitto in questione, seppur già punito grazie ad interpretazioni estensive del delitto di abuso[32], è stato introdotto ufficialmente nel 2010 e punisce «l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i quattordici anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento» (art. 6, § 1, n. 2).
L’età individuata dal Legislatore (quattordici anni) è differente rispetto a quanto indicato sia nel can. 1395, § 2, del Codice di Diritto Canonico (CIC) (sedici anni), sia nell’altro delitto gravius e nella normativa internazionale (diciotto anni).
Il motivo per cui il Legislatore ha scelto di abbassare il limite di età del minore da diciotto a quattordici anni non è stato specificato. Secondo alcuni autori il Legislatore ha previsto un’età più bassa perché ritiene che la pedopornografia sia un crimine con un’idoneità a ledere l’integrità psicofisica del minore inferiore rispetto al delitto di abuso nel quale avviene un contatto diretto ed immeditato tra vittima e reo[33]; altri ritengono, invece, che l’abbassamento dell’età sia stata decisa perché non è sempre semplice capire, dalle sole immagini, l’esatta età del minore: diminuendo l’età i rischi di errore si riducono sensibilmente. Ma questa spiegazione non è del tutto condivisibile perché la stessa difficoltà che c’è tra il capire se un ragazzo ha diciassette anni o diciannove c’è, e forse a maggior ragione, nel capire se ne ha quattordici o quindici anni.
Caso per caso si dovrà, quindi, prima valutare, basandosi su argomentazioni oggettive fondate sull’esperienza, se si era in presenza di un minore di anni quattordici e poi se il chierico accusato sapeva di trovarsi dinanzi ad immagini di minori infraquattordicenni. In assenza di tali indicazioni vi è l’assenza dell’elemento soggettivo o comunque l’ignoranza su uno degli elementi costitutivi del delitto e quindi deve seguirne l’assoluzione dell’accusato.
E’ facilmente intuibile che, tranne i casi in cui sono ritratti neonati o bambini (statisticamente esigui), siamo di fronte a situazioni difficilissime da capire o provare. Inoltre, se la ratio della norma è quella di non ledere i minori ed il loro sviluppo psico-fisico, perché escludere la fascia tra i quattordici ed i diciotto anni? Forse un diciassettenne subisce un danno inferiore rispetto ad un quattordicenne nel posare in particolari immagini? Se così fosse si dovrebbe ripensare all’intero impianto della normativa canonica ed internazionale in materia di abusi.
Quindi, anche per evitare discriminazioni ingiustificate, il limite d’età potrebbe essere innalzato da quattordici a diciotto anni, equiparandolo all’altro delitto contra mores[34].
Restando nella parte sostanziale della normativa un intervento potrebbe riguardare i soggetti attivi dei delitti.
Da sempre, tutte le norme canoniche, per tutelare la dignità e la santità del sacramento dell’Ordine (con i connessi obblighi speciali assunti dai chierici con l’ordinazione), puniscono solo ed esclusivamente i chierici, quei fedeli, cioè, che hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine in uno dei suoi tre gradi (diaconato, presbiterato, episcopato).
Poiché, tuttavia, numerosi scandali che hanno leso la comunità ecclesiale hanno coinvolto anche non chierici, da anni in dottrina si sta discutendo[35] di inserire tra i destinatari delle norme sui delitti contra mores anche i religiosi (non chierici), di ambo i sessi[36]. Infatti, nonostante non abbiano ricevuto il sacramento dell’Ordine, tuttavia anche loro hanno liberamente professato i voti solenni e perpetui di osservare i consigli evangelici, consacrandosi a Dio. I loro voti ed il loro servizio ai giovani ed alle persone disagiate (p.es. catechismo in parrocchia, attività negli oratori, etc.) li accomuna fortemente, a maggior ragione agli occhi dei fedeli e dell’opinione pubblica, ai chierici ed espone l’immagine della Chiesa tutta. Seppur già oggi il can. 695 CIC preveda la loro dimissione dalle Congregazioni di appartenenza, tuttavia sarebbe più appropriato che una tale decisione venisse presa da un Tribunale terzo e imparziale, per di più accentrato a Roma presso la Santa Sede, e non dai Superiori o dai Consigli delle rispettive Case religiose.
Un tale intervento, mutatis mutandis, sarebbe opportuno anche per quei laici che assumono, volontariamente o a titolo oneroso, particolari incarichi (p.es. insegnante, catechista, etc.) o uffici ecclesiastici (p.e. giudice di Tribunale, ministro istituito, etc.) e per i seminaristi.
Passando ad altre questioni, soprattutto processuali, che potrebbero migliorare l’operatività dei testi già in vigore, credo che un ruolo importante debba essere assegnato al problema della prescrizione.
In assenza di una chiara normativa, alcuni commentatori[37] consideravano i delicta reservata imprescrittibili. Deducevano questo assunto dal fatto che il can. 1362 CIC esclude per i delitti riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede, senza specificare altro, la prescrizione ordinaria di tre anni. Nel 2001 il Motu Proprio Sacramentorum sanctitatis tutela ha previsto esplicitamente anche per i delitti riservati un tempo di prescrizione, fissandolo in dieci anni. Un periodo sufficientemente lungo, che diventa ancor più rilevante se si considera che per il delitto contro i minori il documento papale fissa il decorso del tempo al compimento dei diciotto anni della vittima[38] e, dal 2010, lo ha allungato addirittura a vent’anni.
Lo stesso Motu Proprio, però, concede alla Congregazione per la Dottrina della Fede la facoltà di derogare ai termini della prescrizione.
Con questa possibilità concessa alla Congregazione e da decidersi caso per caso – sarebbe interessante poter leggere le motivazioni ed i criteri usati per utilizzarla – il Legislatore ha cercato di evitare che gravissimi ed acclarati delitti sfuggissero alla punizione. Tuttavia, questa possibilità è stata commentata[39] come un vulnus alla certezza del diritto a danno dell’imputato e, anche, in palese contraddizione con il can. 1313, § 1, relativo all’applicazione della norma più favorevole all’imputato, nonché con il principio della irretroattività della legge penale ex can. 9.
Secondo alcuni autori[40] la deroga alla prescrizione può essere esercitata solamente fin quando i termini della prescrizione non sono interamente decorsi. Tuttavia la questione non è assodata ed andrebbe chiarita.
Come ha autorevolmente affermato Cito la possibilità di derogare alla prescrizione “rimane problematica e non facilmente conciliabile con il principio del favor rei”, pertanto “sarebbe quasi preferibile un regime di imprescrittibilità valevole per tutti piuttosto che un regime di venti anni ma derogabile e quindi imprescrittibile solo per alcuni casi ritenuti meritevoli della deroga, in quanto parrebbe insinuare un possibile esercizio arbitrario della potestà giudiziaria“[41].
La ratio della prescrizione generalmente risiede nel fatto che, a distanza di molto tempo, viene meno l’interesse dell’autorità sia a punire un comportamento penalmente rilevante, sia a tentare il reinserimento sociale del reo. Tuttavia non è questo il caso della Chiesa dove in ballo c’è la salvezza delle anime (delle vittime, dei loro parenti e amici ed anche del sacerdote), la buona fama dell’Istituzione e la dignità del sacerdozio.
Pertanto per quanto detto finora sarebbe meglio rendere imprescrittibili tali delitti.
In assenza di un tale intervento, come lo stesso Cito suggerisce, sarebbe importante un provvedimento del Legislatore per chiarire termini e modalità di sospensione e interruzione della prescrizione[42].
Un limite all’imparzialità del giudizio, così come alla sua celerità, potrebbe essere causato dalle disposizioni che prevedono la possibilità di assumere le funzioni di giudici, promotori di giustizia, notai, cancellieri e patroni in capo solamente a sacerdoti.
In una diocesi medio-piccola, per esempio, i sacerdoti, ormai sempre in minor numero e con più incarichi a testa, si conoscono tra di loro, magari fin dal tempo del Seminario, si incontrano periodicamente o quasi, condividono iniziative, etc. ed è quindi naturale che ci siano tra loro le umane simpatie ed antipatie (per non parlare di eventuali interessi economici). A ciò si possono aggiungere possibili problemi inerenti il foro interno. Perché allora limitare queste attività solo ai sacerdoti, alimentando all’esterno, tra l’altro, la sensazione di autotutela della propria casta e di aiuto tra pari, e non permettere anche a laici preparati e di integra fama di partecipare alla vita della Chiesa anche in queste pur spiacevoli situazioni?
A maggior ragione tale discorso vale per gli incarichi più “tecnici” quali quelli di notaio e cancelliere.
Se è vero che le stesse Normae prevedono che la Congregazione per la Dottrina della Fede possa concedere la dispensa dal requisito del sacerdozio, tuttavia tale possibilità deve essere richiesta, motivata e valutata e comunque viene accordata una tantum.
Una annotazione è necessaria, inoltre, riguardo agli avvocati e procuratori.
Il testo normativo prevede che, oltre ad essere sacerdoti, gli avvocati ed i procuratori debbano essere approvati dal Presidente del collegio.
A mio sommesso parere la preventiva approvazione degli avvocati da parte del giudice fa sorgere una lesione del diritto di difesa dell’imputato, in quanto questi ha diritto ad una difesa tecnica adeguata e con persone di sua totale fiducia, sacerdote o laico che sia.
Un intervento censorio da parte del Presidente del collegio, in assenza tra l’altro di criteri predeterminati, limita la scelta del proprio difensore.
Inoltre, oltre a quanto detto sopra, l’obbligatorietà del sacerdozio limita il diritto di difesa dell’imputato anche perché non è detto che siano sempre disponibili presbiteri periti ed idonei in tale materia.
In generale, senza scomodare la teologia sulla missione e sulla pari dignità dei laici nella Chiesa sviluppatasi soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, se la difesa – così come ogni altro incarico giudiziario – fosse assunta liberamente anche dai laici non intravedo né un possibile problema di conoscenza delle norme canoniche, in quanto vi è comunque l’obbligo di aver conseguito la laurea in diritto canonico e magari di essere iscritti in un particolare albo, né di segretezza del procedimento e di tutela della privacy dell’accusato, in quanto anche il laico, a maggior ragione se avvocato anche nel foro civile, sottostà alla disciplina sul segreto professionale.
Esulando da ogni questione normativa, tutto sarebbe vano se ad un’ottima legislazione non seguisse una conseguente buona organizzazione dei Tribunali diocesani e della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ovviamente non mi riferisco alla scelta – di per sé ovvia – di personale tecnicamente preparato e moralmente irreprensibile, ma alla terzietà degli operatori a livello locale e, soprattutto, alla numerosità degli officiali a livello “centrale”. A ciò si deve aggiungere una conveniente disponibilità di risorse e mezzi.
Nelle diocesi, soprattutto quelle più piccole, molto spesso, come già detto, indagato e personale addetto all’indagine o al giudizio (Vescovo in primis) possono conoscersi tra loro e può innescarsi una serie di simpatie o lotte che possono inquinare l’esito dei procedimenti. Per ovviare a ciò, anche se ciò non è di facile organizzazione, si potrebbe pensare a far svolgere le indagini e – ancor più – trattare i giudizi di primo grado a personale esterno alla diocesi (di un’altra diocesi o congregazione religiosa). Anche per avere una maggiore specializzazione nel personale, sarebbe opportuno istituire Tribunali metropolitani o regionali come avvenuto e avviene per la materia matrimoniale.
Inoltre, avendo accentrato tutti i procedimenti contra mores a Roma (anche se spesso l’indagine è istruita nelle diocesi e lì si tiene pure il primo grado del procedimento), è indispensabile che la Congregazione abbia un personale adeguato al numero di casi che annualmente giungono da ogni parte del mondo.
E’ impensabile che tra la denuncia e la fine del processo passino anni. E’ fondamentale che i procedimenti siano celeri. Una giustizia lenta è una mancata giustizia, sia per le vittime che hanno diritto a vedere giungere in porto le loro denunce ed avere soddisfazione e ristoro, sia per gli accusati che hanno l’altrettanto diritto di vedere la loro situazione giudicata prontamente.
Dalle polemiche sorte negli anni scorsi, sembra non ciò non sempre avvenga. Addirittura sembra che molte denunce non ricevano alcuna risposta sostanziale. Tutto ciò fa perdere il coraggio della denuncia e soprattutto la fiducia nell’Istituzione. Va sempre ricordato che la Chiesa è madre di tutti i fedeli e deve dare pronte risposte ai suoi figli più indifesi e cioè i minori abusati.
Uno dei problemi e delle polemiche maggiori riguardanti la pedofilia nel clero è la “protezione” che i Vescovi diocesani hanno dato ai loro sacerdoti.
“La tendenza, dettata da retta intenzione, ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari[43]“ e la osservazione che il Vescovo diocesano è da considerarsi per i suoi sacerdoti più come un padre che un giudice hanno causato notevolissimi danni alla Chiesa e ad altri minori. Numerosi Vescovi, ricevute le segnalazioni e conosciuti i fatti, invece di indagare ed eventualmente allontanare dal sacerdozio i colpevoli, si preoccupavano di evitare gli scandali e non ledere il buon nome della Chiesa “solo” trasferendoli ad altra sede. Qui, però, erano “liberi” di continuare le loro nefaste azioni.
Per sanzionare queste situazioni Papa Francesco ha emanato, nel 2016, il Motu Proprio Come una madre amorevole, con il quale ha istituito una specifica procedura, di tipo amministrativo, per giudicare ed allontanare i Vescovi ritenuti negligenti nella cura dei più piccoli e indifesi.
E’ da notare, però, che il testo emanato è totalmente diverso da quanto è stato discusso e proposto dalla Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori ed approvato poi dal Consiglio dei Cardinali per aiutare il Santo Padre nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor Bonus sulla Curia Romana[44], giornalisticamente chiamato “il C9”. Il Consiglio dei Cardinali, nella riunione tenutasi dall’8 al 10 giugno 2015, aveva infatti discusso ed aveva avanzato al Papa una specifica proposta riguardo alle “denunce di abuso d’ufficio episcopale” per fatti inerenti i delitti sui minori. In particolare venne chiesto: “1. che la competenza a ricevere ed esaminare le denunce di abuso d’ufficio episcopale appartenga alle Congregazioni per i Vescovi, per l’Evangelizzazione dei Popoli, o per le Chiese Orientali e tutte le denunce debbano essere presentate alla Congregazione appropriata. 2. che il Santo Padre dia un mandato alla Congregazione per la Dottrina della Fede per giudicare i Vescovi in relazione ai delitti di abuso d’ufficio. 3. che il Santo Padre autorizzi l’istituzione di una nuova Sezione Giudiziaria all’interno della Congregazione per la Dottrina della Fede e la nomina di personale stabile che presterà servizio nel Tribunale Apostolico. … 4. che il Santo Padre nomini un Segretario per assistere il Prefetto riguardo al Tribunale. Il Segretario avrebbe la responsabilità della nuova Sezione Giudiziaria e il personale della Sezione sarà utilizzabile anche per i processi penali per l’abuso dei minori e degli adulti vulnerabili da parte del Clero.[…] 5. che il Santo Padre stabilisca un periodo di cinque anni in vista di ulteriori sviluppi delle presenti proposte e per il completamento di una valutazione formale della loro efficacia“[45].
Il comunicato della Sala Stampa della Santa Sede successivo all’incontro specificava che «il Santo Padre ha approvato le proposte e ha concesso l’autorizzazione affinché siano fornite risorse adeguate per conseguire questi fini».
Le differenze tra i due testi sono evidenti: in quello della Pontificia Commissione si prevede un nuovo, specifico, delitto canonico, ulteriore rispetto a quello regolamentato dal can. 1389 CIC (abuso d’ufficio), si dà la competenza di indagine alle varie Congregazioni e quella di giudizio, ex delegazione, alla Congregazione per la Dottrina della Fede, già competente in tutti i casi di delitti contro la fede e di delitti più gravi; nel testo del Motu Proprio, invece, non si istituisce alcun delitto, ma si specifica la giusta causa per la rimozione (amministrativa) dall’ufficio – prevedendo la relativa procedura – e si lascia la competenza di indagine e giudizio alle varie Congregazioni competenti (estendendo il tutto anche ai Superiori Religiosi ed alla rispettiva Congregazione).
Al di là delle scelte effettuate dal Legislatore, non è dato sapere se e come sia stata eseguita finora questa nuova procedura (anche questa si svolge sub secreto pontificio), tuttavia non pochi dubbi ha sollevato nei commentatori, soprattutto in merito all’assenza delle tipiche garanzie legate allo svolgimento di un procedimento penale[46].
Non legato alle norme sui delicta contra mores, ma comunque strettamente connesso è il tema dell’impedimento ad esercitare l’ordine sacro per i sacerdoti pedofili.
Una parte della dottrina ritiene, infatti, possibile che il Vescovo diocesano, per allontanare sin da subito e senza aspettare l’esito dei procedimenti, il chierico accusato di abusi contro i minori, ben potrebbe, in presenza delle condizioni previste dal Codice, emettere un decreto in cui si dichiara l’impedimento ad esercitare l’ordine sacro[47].
Il can. 1044, § 2, n. 2°, CIC prescrive che sono impediti ad esercitare l’Ordine coloro i quali sono affetti da pazzia o da altre infermità psichiche, per le quali, ai sensi del can. 1041, n. 1°, «viene giudicato inabile a svolgere nel modo appropriato il ministero».
Orbene, i cann. 1041 e 1044 prendono in considerazione le anomalie psichiche tout court, senza alcuna specificazione.
Il comportamento pedofilo, definito dalle scienze psichiatriche come un disturbo della fantasia e dei comportamenti sessuali, osterebbe di per sé al legittimo conferimento ed esercizio dell’Ordine.
Di conseguenza, la constatazione delle tendenze pedofile del sacerdote, indipendentemente dall’accertamento giudiziale della responsabilità penale, potrebbe già di per sé causare l’emanazione di un provvedimento che dichiari l’impedimento ad esercitare l’ordine sacro[48].
Una tale dichiarazione permetterebbe di impedire ai chierici pedofili di esercitare il ministero anche in assenza di una pena per un qualsiasi motivo (p. es., perché non ritenuto imputabile o perché anziano e malato o perché il delitto è prescritto, etc.) o dopo averla scontata (se non dimesso dallo stato clericale) o comunque senza attendere l’esito di un giudizio civile[49].
Parte della dottrina ritiene, però, questa via poco rispettosa dei diritti del chierico in quanto gli verrebbe impedito di esercitare il sacro ministero non in virtù di una norma esplicita, ma di una interpretazione estensiva della stessa.
Per ovviare in parte alle critiche della dottrina[50] e per facilitare l’attività dei Vescovi sembra che in anni passati ci sia stato allo studio della Santa Sede la possibilità di introduzione esplicitamente, similmente a quanto viene disposto ai nn. 2-6 del can. 1041 CIC, il delitto di pedofilia come irregolarità a ricevere il sacramento dell’Ordine (e impedimento per chi l’avesse già ricevuto)[51].
Dall’analisi delle indagini contro i chierici abusatori è emerso che nella quasi totalità (90%) dei circa quattrocento procedimenti annuali che giungono a Roma le vittime non siano bambini, ma adolescenti (efebofilia) dello stesso sesso. Ciò ha fatto ritenere a molti che il problema fondamentale che affligge attualmente il sacerdozio sia, oltre ad una non ben sviluppata affettività[52], l’omosessualità. Ebbene, anche al fine di evitare ciò, la Congregazione per l’Educazione Cattolica, con l’approvazione di Papa Benedetto XVI, nel 2005 ha confermato ed esplicitamente escluso dall’ammissione al sacerdozio coloro i quali «praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta ‘cultura gay’ “[53]. Tale concetto è stato ulteriormente rafforzato dalla stessa Congregazione nel 2008, autorizzando i Vescovi ed i formatori a servirsi dell’opera di psicologi professionisti[54]. Con questi interventi la Congregazione ha ricordato che per poter essere ordinati in sacris è necessario una sufficiente maturità affettiva e sessuale in coerenza con la propria identità sessuale maschile[55] e che è dovere dei Pastori della Chiesa verificare le qualità psichiche e morali dei candidati al sacerdozio[56].
Si potrebbe ben dire, quindi, che sia stata inserita, ancorché non esplicitamente nel CIC, una nuova forma di irregolarità (e quindi impedimento) alla ricezione dell’Ordine sacro, indipendente dalla presenza di eventuali patologie psichiche. Ciò renderebbe ancor più “semplice” l’emanazione di un decreto dichiarativo dell’impedimento ad esercitare l’ordine sacro da parte del Vescovo.
Considerato che sono sorti in dottrina dei dubbi sulla forza normativa dell’intervento della Congregazione per l’Educazione Cattolica, avvenuta per di più per mezzo di una Istruzione seppur approvata dal Sommo Pontefice, è ormai quanto più urgente un provvedimento legislativo che riordini complessivamente la materia.
I problemi segnalati e le possibili soluzioni indicate ovviamente non coprono tutti i possibili interventi che l’Autorità può mettere in campo per risolvere la dolorosissima piaga degli abusi dei chierici sui minori.
Tali interventi dovranno essere sì di tipo normativo – seppur tantissimo è già stato fatto rispetto al passato -, ma soprattutto di tipo formativo, ecclesiale e culturale[57].
E’ necessario che tutti, ad ogni livello, si ricordino sempre che compito supremo della Chiesa è la salus animarum di ogni singolo fedele e che un abuso perpetrato da un chierico è causa di infiniti danni per la vittima, per i suoi familiari ed amici e per la comunità tutta dei fedeli. L’azione criminosa del sacerdote abusatore è una ferita mortale per le loro anime.
Senza una adeguata formazione, sin dagli anni del Seminario, e senza una forte presa di coscienza da parte dei Pastori, la Chiesa, che negli ultimi tre pontificati ha affrontato la questione con crescente consapevolezza e fermezza, difficilmente riuscirà a superare questa terribile piaga che infiniti dolori sta provocando in ogni parte del mondo.