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Considerazioni in tema di maternità surrogata, a partire dal primo parere della Corte europea dei diritti dell’uomo emesso a norma del Protocollo 16 annesso alla CEDU.

Giovanni Tarantino

Sommario: 1- Il Protocollo 16 allegato alla CEDU: un nuovo strumento per la tutela multilivello dei diritti fondamentali?; 2-   Il caso oggetto della richiesta di parere; 2a) Sulla correttezza delle valutazioni espresse dalla Corte riguardo al primo quesito postole: un precario equilibrio tra diritto alla vita privata del bambino, dignità della donna e responsabilità per la generazione; 2b)  Sul secondo quesito: il suggerimento dell’adozione come scelta di razionalità; 3 -Considerazioni conclusive.

 1. Il 1° agosto 2018, a seguito della ratifica della Francia, è entrato in vigore il Protocollo 16 allegato alla CEDU (1). Questo Protocollo, come specificato nel’art. 1, consente che: “Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente, designate conformemente all’art. 10, possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consuntivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli”.

 Quanto stabilito da questo Protocollo sembra costituire uno strumento nuovo all’interno di quello che di recente in dottrina è stato teorizzato come il “sistema multilivello di tutela dei diritti fondamentali”(2). Uno strumento che, però, a mio avviso, presenta contorni poco definiti. Ritengo, infatti, che siano poco definiti per diverse ragioni. Sia perché lo strumento del parere reso ai sensi del Protocollo 16 non ha effetto vincolante (neppure per il caso giudiziario dal quale è scaturita la richiesta di parere); sia perché esso non può essere equiparato, per valore giurisprudenziale, alle sentenze della Corte EDU; sia perché, infine, vi è la possibilità che esso possa in parte sovrapporsi alla portata dell’art. 47 CEDU (che dispone la possibilità per il Comitato dei ministri di chiedere alla Corte “pareri consultivi su questioni giuridiche relative all’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli”(3)

 Il Protocollo 16 potrebbe apparire, forse, come uno strumento pensato per garantire l’interpretazione autentica del contenuto della CEDU, ma, come detto prima, il suo art. 1 parla di parere su questioni di principio relative all’interpretazione dei diritti e delle libertà, ma anche alla loro applicazione, rendendo, ancora una volta ambigua la portata di questo strumento(4).

 Per completezza argomentativa, un’ulteriore considerazione si porrebbe all’attenzione con riferimento all’interpretazione assiologica in tema di diritti fondamentali ed alla possibilità che questo strumento possa di fatto sottrarre, in misura più o meno ampia, alle corti costituzionali statali il loro ruolo interpretativo su tali questioni. Il tema è certamente interessante e la riflessione su di esso, di conseguenza, necessiterebbe di un approfondimento sostenuto, che non può, però, trovare esaustivo spazio in queste pagine. Ricordo qui, soltanto, che l’Italia non ha ancora ratificato il Protocollo 16, e che sul testo di legge n. 2921 relativo alla sua ratifica, fermo in Commissione in Senato da lungo tempo, vi sono notevoli dubbi, riferibili anche dalle considerazioni che prima si sono poste.

2. La Francia, come ho ricordato all’inizio, è stata l’ultimo Stato a ratificare il Protocollo 16, rendendo così possibile la sua entrata in vigore, ed è stata anche il primo Stato a richiedere l’emissione di un parere ai sensi del medesimo protocollo. Con l’Arret n. 638 del 5 ottobre 2018, infatti, la Cour de cassation francese ha chiesto ai Giudici di Strasburgo di pronunciarsi con un parere consultivo(5), all’interno di una controversia che riguardava la trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero, conseguente ad una nascita da maternità surrogata(6). Si deve, qui, porre l’attenzione sul fatto che il caso sottoposto alla Corte EDU è particolarmente delicato, in quanto, com’è noto, in Francia la maternità surrogata non è giuridicamente permessa(7).

Nello specifico, alla Corte è stato richiesto di rendere il parere sui due seguenti quesiti:

 1) “Rifiutando di trascrivere sui registri dello stato civile l’atto di nascita di un bambino nato all’estero al termine di una gestazione per altri, in quanto indica come “madre legale” la “madre intenzionale”, mentre la trascrizione dell’atto è stata ammessa quando esso indica come “padre intenzionale” il padre biologico del bambino, uno Stato eccede il margine di apprezzamento di cui dispone riguardo all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali? A questo proposito, è opportuno distinguere a secondo che il bambino sia o meno concepito con i gameti della “madre intenzionale” “?; 

2) “Nell’ipotesi di una risposta affermativa a una delle due domande precedenti, la possibilità per la madre intenzionale di adottare il bambino del suo coniuge, padre biologico, il che costituisce un modo di accertamento della filiazione nei suoi riguardi, permette di rispettare le esigenze dell’articolo 8 della Convenzione?”.

Prima di soffermarmi sulle risposte date dalla Corte ai due quesiti oggetto del parere, è opportuno premettere che, considerando il contenuto delle valutazioni rese dai giudici di Strasburgo, traspare sullo sfondo un principio fondamentale di tutela dell’interesse superiore del minore.

2a. In sintesi, riguardo al primo dei due quesiti che compongono la richiesta di parere, la Corte EDU si è espressa sul rispetto del margine di apprezzamento concesso dall’art. 8 CEDU agli Stati, relativamente alla negata trascrizione dell’atto di nascita da maternità surrogata redatto all’estero, nel quale la madre intenzionale, indicata nell’atto de quo quale madre giuridica, non aveva un legame biologico con il nato. Il nascituro aveva, infatti, ricevuto i gameti di una donatrice terza. Lo stesso diniego non si era posto per il padre, essendo lo stesso anche padre biologico.

 Nel pronunciarsi, la Corte ha affermato che la mancata trascrizione ha conseguenze negative su numerosi aspetti della vita privata del nato, tra i quali la possibilità di individuare con chiarezza quali siano le persone che hanno i compiti, tra gli altri, di educarlo, proteggerlo ed assicurare il suo benessere. Di conseguenza la Corte ha suggerito (all’unanimità) che “il diritto al rispetto della vita privata del bambino, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, richiede che il diritto interno offra una possibilità di riconoscimento di un legame di filiazione tra il bambino e la madre intenzionale, indicata nell’atto di nascita regolarmente redatto all’estero come la “madre legale” “.

Rispetto alla risposta data dalla Corte al primo quesito, ritengo condivisibile la posizione di Gambino, per il quale la Corte di Strasburgo ha interpretato gli articoli della CEDU nell’ottica di un’assolutizzazione del presunto diritto alla vita privata, che poco si giustifica se relazionato con un minore, di fatto ancora incapace di esprimersi compiutamente a questo riguardo(8).

 A queste considerazioni Gambino ne ha fatte seguire altre, per le quali il parere in questione offende la dignità della donna ed oscura il principio di responsabilità per il fatto della generazione. Anche su questo aspetto del problema mi sento di condividere quanto egli ha affermato: 

1) Riguardo alla violazione della dignità della donna, infatti, (tutelata, per il contesto delle nostre riflessioni, come ricordato, dal divieto della maternità surrogata previsto dall’art. 12, comma 6, della legge 40/2004) parto dalla considerazione che una donna che concede i propri ovuli o che porta avanti una GPA (gestazione per altri) è nella quasi totalità dei casi spinta a farlo da una condizione di necessità economica e lo fa, quindi, in cambio di un corrispettivo in denaro. Ma, se pure vi è tra gli  studiosi chi, dando poco valore al concetto di dignità, tende a giustificare la scelta della gestante per altri, in virtù del rispetto del diritto di ciascuno di esprimere autonomamente le proprie scelte (9), non si può però dimenticare che la dignità resta, nel sistema valoriale e giuridico europeo, un principio fondamentale sul quale trova fondamento la tutela della fragilità e della vulnerabilità dell’individuo. Nel nostro caso, per quanto si voglia difendere il principio di autodeterminazione e l’autonomia delle scelte, non si può negare che una condizione di povertà economica rende maggiormente fragile e vulnerabile la donna che accetta di portare avanti la gestazione per altri. A questo proposito, ci si deve chiedere se, nella questione della quale ci stiamo interessando, non si giustifichi, invece, quanto afferma Busnelli e cioè la necessità di “recuperare, come necessaria premessa, il principio fondamentale della dignità umana: un principio riconosciuto come fondamentale dalle Carte costituzionali europee del secondo dopoguerra […] E’ un’idea che richiede, come necessario sviluppo della sua attuazione, l’operatività del principio di solidarietà. E più precisamente ‘l’adempimento -afferma solennemente la nostra Costituzione- dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’ (art. 2)”. All’individualismo della tradizione bioetica nordamericana si contrappone, dunque, il personalismo della tradizione costituzionale europea, e più specificamente italiana; al binomio privacy-happiness il binomio dignità-solidarietà (10)».

2) Riguardo alla responsabilità(11) per la generazione il discorso si fa più complesso. Preliminarmente, può essere utile ricordare che tale responsabilità riceve una valutazione differente a seconda del tipo di etica che gli studiosi assumono a fondamento delle loro valutazioni bioetiche(12). In breve, un conto è affrontare una questione bioetica nel contesto di un determinato modello etico, un’altra cosa è affrontarlo in un modello differente. Alcuni modelli bioetici, com’è noto, sono in contrasto tra loro, altri, invece, condividono alcuni dei loro momenti. Come ha scritto Fornero “nella letteratura internazionale le varie posizioni bioetiche vengono spesso classificate in base alle teorie etiche generali cui i singoli autori fanno riferimento(13)”. Egli sostiene ciò portando l’esempio di autori che hanno tracciato mappe di modelli bioetici. Egli ricorda: autori come R. Gillon, il quale in Philosophical Medical Ethics del 1985 distingue tra bioetiche utilitaristiche e bioetiche deontologiche; o come T. L. Beauchamp e J. F. Childress, che con Principles of Biomedical Ethics, del 1994 e R. Tong, con Feminist Approaches to Bioethics, del 1997, “offrono mappe ragionate delle teorie morali bioeticamente rilevanti (l’utilitarismo, le etiche deontologiche di matrice kantiana, le etiche di carattere o delle virtù, le etiche dei diritti di matrice liberale, le etiche comunitaristiche, le etiche della cura, le etiche casistiche, ecc.)(14) “; e, ancora, in Italia, studiosi, specialmente di matrice cattolica, come Sgreccia, che parla di modello sociobiologista, di modello pragmatico-utilitarista, di modello soggettivista, di modello personalista (15). Nello specifico, Sgreccia, com’è noto, ha posto alla base della sua teoria il personalismo ontologicamente fondato. 

Personalmente ritengo che per una mappatura corretta delle varie bioetiche possa essere utile assumere il criterio della libertà dell’individuo. Dicendo questo non dimentico che vi sono diversi concetti di libertà, e che ogni etica possiede una propria concezione della libertà. So anche, però, che se si lascia il rispetto della vita dell’individuo sin dalla sua generazione entro i confini della sola etica personalistica di tipo ontologico, si finisce per intraprendere una deriva che porta verso l’esclusione, ad esempio, delle etiche naturalistiche non materialistiche, ma teleologicamente orientate che mantengono, o che non considerano, un legame con un Dio trascendente, ma che comunque non lo manifestano nella loro visione etica. Considerando che etiche naturalistiche non materialistiche, ma teleologicamente orientate assumono il criterio del cognitivismo etico, come fa l’etica del personalismo ontologicamente fondato, tale esclusione, forse si potrebbe evitare.

 In sintesi, la scelta del criterio della libertà aiuta ad indicare tra i vari modelli di bioetica esistenti che quelli maggiormente rispettosi della vita sin dalla generazione non sono solo quelli religiosi, ma anche quelli delle bioetiche naturalistiche non materialistiche, ma aperte alla trascendenza. Partendo da questi cenni ai modelli bioetici, rimane da comprendere quale di questi comporti rischi minori per la responsabilità per generazione. Comporti, cioè, minori rischi di danno per il generato. Danno che può essere di diversa natura (sanitario [16], sociale, affettivo, culturale, ecc.), ma che comunque, quanto alla sua responsabilità, resta sempre e solo in capo ai genitori intenzionali e/o biologici che di quella nascita sono stati gli attori [17].  

Fatta questa premessa, non potendo affrontare in queste pagine il tema della responsabilità per la generazione con l’approfondimento che il tema meriterebbe, faccio solo poche ulteriori riflessioni.

 Come accennato prima, di responsabilità per generazione si può parlare in più sensi. Qui circoscrivo il discorso a due suoi aspetti: la responsabilità per procreazione prevista nella Costituzione; la responsabilità degli individui nei confronti della specie umana. Due forme di responsabilità di fatto integrate.

 Per il primo aspetto, ricordo solo che la Costituzione (artt. 30 e 31) sostanzia la responsabilità per procreazione nel dovere dei genitori di accogliere, educare, mantenere ed istruire i figli. Dovere giuridico di mantenere, educare, ecc. i figli che oggi ha avuto un’evoluzione e che attiene alla scelta del tipo di etica che conduce l’individuo verso la sua discendenza. Per chiarezza, intendo qui affermare che la responsabilità per la generazione, quando si rapporta al modello di etica che si sceglie di seguire nella procreazione, può fondarsi sul rispetto della natura dell’uomo in tutte le sue dimensioni (compresa quella metafisica), oppure può scegliere di non rispettare una o più dimensioni della natura umana, optando ad esempio per la possibilità eugenetica di incidere tecnologicamente sul genoma, manipolandolo allo scopo di avere i figli con le caratteristiche desiderate.

 Per la responsabilità degli individui nei confronti della specie umana, partendo proprio dalla manipolazione del genoma del singolo individuo, ricordo solo che, nel rispetto della giustizia intergenerazionale, appare un dovere in capo alle attuali generazioni di garantire la continuazione della vita della specie umana nelle generazioni successive, a cui si deve garantire la trasmissione di un genoma originario e non modificato.

2b. Per ciò che attiene al secondo quesito, la Corte ha ritenuto che il periodo di incertezza del nato riguardo al suo rapporto di filiazione rispetto alla madre intenzionale (al fine della tutela del suo superiore interesse, come prima ricordato) debba essere di breve durata. Per ottenere questo risultato, però, la Corte non impone agli Stati l’obbligo di trascrivere l’atto di nascita redatto all’estero. Essa sceglie, ambiguamente, un’altra strada, affermando, infatti, che rientra nel margine di apprezzamento riservato agli Stati la scelta dei mezzi più idonei per il riconoscimento del legame di filiazione. Si pronuncia, quindi, in favore del riconoscimento del legame di filiazione; lascia agli Stati solo la facoltà di scegliere la modalità con la quale riconoscerlo.

 La posizione netta della Corte in favore del riconoscimento del legame di filiazione tra il nato e la madre intenzionale non biologica (che sancirebbe l’accettazione morale piena della maternità surrogata) è mitigata, però, dal fatto che essa tra le modalità di scelta del riconoscimento di tale legame, lasciata al margine di apprezzamento degli Stati, suggerisce l’adozione. Leggendo il parere, troviamo detto, infatti, al riguardo che “il diritto al rispetto della vita privata del bambino non richiede che tale riconoscimento avvenga mediante la trascrizione sui registri dello stato civile dell’atto di nascita regolarmente redatto all’estero; il riconoscimento può avvenire in altro modo, ad esempio l’adozione del bambino da parte della madre intenzionale”.

    Con riferimento al suggerimento dell’adozione dato dalla Corte, quale istituto giuridico alternativo alla trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero, ritengo che- per lo meno- i Giudici di Strasburgo abbiano optato per una scelta di razionalità. Dico razionalità pensando ai limiti della libertà: ai suoi limiti razionali, che sono espressione della ragione intesa come recta ratio, e non ai limiti indicati dalla ragione come strumento delle ideologie o delle teorie etiche di tipo formalistico. Razionalità a cui, con riferimento al tema che ci occupa, fanno riferimento molti autori. Tra tutti, ricordo Piana, il quale in Io vi dichiaro marito e marito, con riflessioni, riferibili sia a coppie omosessuali che eterosessuali, dopo aver precisato che il desiderio di avere un figlio proprio (non di cui si voglia avere il possesso, ma che partecipando della vita della coppia possa attivare la funzione genitoriale) è un desiderio (pur legittimo), ma non un diritto assoluto, ricorda che la fecondità di una coppia può avere molte forme e non si esaurisce nella sola procreazione. Tra queste vi è l’adozione [18] che “non ha come obiettivo primario quello di dare un figlio a una coppia, ma piuttosto di dare una coppia (o, più correttamente, una famiglia) a un bambino o a un adolescente sfortunato che, per varie ragioni, non c’è l’ha [19]”. Il diritto che va primariamente tutelato è dunque quello del bambino e non quello della coppia (analogamente, come prima ricordato, nel parere della Corte EDU si stabilisce la prevalenza dell’interesse superiore del minore rispetto a quelli di tutti gli altri soggetti coinvolti). Ne deriva che per evitare “il rischio di un’autoreferenzialità che mette in primo piano i legittimi desideri (o le legittime esigenze) della coppia, scambiati per diritti (e addirittura per diritti che hanno il primato su tutto il resto) […] il ricorso all’adozione risulta qui non solo la strada più altruistica ma anche la più razionale [20]”. Razionalità che deve però impedire anche, come afferma D’Agostino, più avanti, nello stesso volume appena ricordato, di cadere in situazioni di assurdità (il riferimento dell’autore è al matrimonio e alla genitorialità omosessuale). Egli dice, infatti, che: “Poichè assurdità tende inevitabilmente ad aggiungersi ad assurdità, ecco l’avvento della trigenitorialità legale. Il caso più tipico e meno astruso è quello della dilatazione della struttura dell’omoparentalità, come avviene in una variante della cosiddetta step adoption. […] Rientra quindi nella pretesa di diventare step parent quella del partner omosessuale di una donna che abbia un suo personale figlio biologico (per diretto rapporto sessuale con un uomo o tramite fecondazione in vitro): adottando il figlio della propria compagna si può acquistare per via legale quel titolo genitoriale sul bambino, che non sarebbe possibile acquisire su di un fondamento naturalistico [21]”.

3. Da quanto sostenuto con le riflessioni prima svolte, deriva il rischio che da questo parere reso dalla Corte EDU possa dedursi un tacito assenso alla forzatura di tutti quegli ordinamenti giuridici UE che vietano la maternità surrogata. Ciò deriva dal fatto che nel parere non si ritrova un esplicito divieto di impedire alla madre “intenzionale” (che, ripeto, non ha nessun legame biologico con il nato) di divenire legalmente madre a tutti gli effetti, alla pari di una madre biologica. Vi si legge, al contrario che se pur, come accennato prima, non sussiste l’obbligo della trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero, il rapporto di filiazione con la madre intenzionale vada comunque riconosciuto con altro mezzo, e vada riconosciuto, per di più, nel più breve tempo possibile. Il parere in questione, fa quindi di fatto crollare, con riferimento alla giurisprudenza francese, quel baluardo dietro il quale i giudici avevano molte volte protetto le ragioni del divieto di surrogazione della maternità, ribadite anche di recente, nel 2017, dalla Cour de cassation con la riaffermazione del principio di “realtà del parto”.

Resta quindi, a mio avviso, tutta l’ambiguità di questo pronunciamento (e come dicevo all’inizio, anche dello stesso strumento del parere delineato dal Protocollo 16), dal sapore quasi politico. Pronunciamento che, guardando alle contingenze storico/sociali del momento e forse sotto le pressioni dei vari movimenti culturali ed ideologici, che sul tema della famiglia e della procreazione sposano le posizioni del non cognitivismo etico, può permettere l’oscuramento del fondamento valoriale della familiarità e della genitorialità. Fondamento valoriale che invece si ritrova nella concezione della famiglia come “società naturale” dell’art. 29 della nostra Costituzione [22]. E che si ritrova anche nella concezione che vede la famiglia finalizzata alla procreazione, intesa come “strumento” per la continuità della vita della specie.

Concezioni queste presenti nella storia del pensiero occidentale fin dall’età classica greca, dove, ad esempio, già Aristotele ha dato suggerimenti sul matrimonio, sulla nascita e sull’allevamento dei figli, considerando il matrimonio, nel rispetto del criterio dell’imitatio naturae, come finalizzato alla procreazione [23].


[1] L’art. 8, comma 1, dello stesso Protocollo ne aveva previsto l’entrata in vigore «il primo giorno del mese successivo alla scadenza di un periodo di tre mesi dalla data in cui dieci Alte Parti contraenti della Convenzione avranno espresso il loro consenso ad essere vincolate dal Protocollo, conformemente alle disposizioni dell’articolo 7».  La Francia è stata appunto la decima Alta Parte contraente a depositare la ratifica, seguendo: Albania, Armenia, Estonia, Finlandia, Georgia, Lituania, San Marino, Slovenia e Ucraina.

[2] Come ampiamente sostenuto in dottrina, negli ultimi decenni si è assistito sempre più ad un processo di “giurisdizionalizzazione” del diritto e della politica internazionale. In tale processo, fondamentale diviene il ruolo delle corti sovranazionali, previste come uno strumento giurisdizionale teleologicamente orientato alla protezione dei diritti umani. Tale strumento può però essere utilizzato dagli attori politici per scavalcare il momento legislativo (e quindi per evitare il dibattito delle aule del Parlamento), con differenze, però, fra le varie organizzazioni macroregionali riguardo alla capacità delle corti di incidere sulle human rights pratices degli Stati. Tale utilizzo politico/strumentale delle corti è particolarmente significativo in Europa perchè, da una parte, si è in presenza di costituzioni rigide, di indipendenza delle corti costituzionali, di liberaldemocrazie efficienti, ma, da un’altra parte, si ha un’organizzazione regionale ben strutturata, quale indubbiamente è l’Unione Europea, che ha adottato trattati in tema di salvaguardia dei diritti umani e correlati meccanismi di tutela giurisdizionale di tali diritti (come la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea). Ne deriva che: «Lo spazio giuridico europeo, pertanto, nello scenario cosmopolitico, è quello che ha dimostrato di essere il più fertile nell’attecchimento della rivoluzione copernicana che ha posto le corti al centro del sistema giuridico con l’affermazione del sistema costituzionale europeo cui corrisponde la definizione di meccanismi di tutela multilivello dei diritti fondamentali». Cfr. A Pisanò, Crisi della legge e litigation strategy. Corti, diritti e bioetica, Milano, Giuffrè, 2016, pp. 99 e ss. Queste riflessioni riportano, inoltre, in senso più ampio, ha quanto ha dettagliatamente descritto Pastore, il quale, considera che l’affermarsi di una pluralità di fonti normative (non  più ordinate in forma gerarchica, ma reticolare) costituisce una delle cause della crisi del modello legicentrico statale e dell’emersione dei diritti universali. Cfr. B. Pastore, Interpreti e fonti nell’esperienza giuridica contemporanea. Padova, CEDAM, 2014. 

[3]E’ opportuno precisare, però, che su questo punto, nel “Documento di riflessione” della Corte del 2012 sull’estensione della competenza consultiva (Doc. #3853040, del 20 febbraio 2012), si prospetta una diversa competenza ed operatività dei pareri consuntivi previsti dal Protocollo 16 rispetto a quanto indicato nell’art. 47 CEDU.

[4]Per la differenza tra interpretazione e applicazione dei diritti e delle libertà tutelati dalla CEDU, tra tutti, vedi B. Randazzo, Articolo 32. Competenza della Corte, in Commentario breve alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, a cura di S. Bartole – P. De Sena – V.. Zagrebelsky, Padova, CEDAM, 2012. In questo commento all’art. 32 della CEDU l’autore, dopo aver ricordato che l’originario meccanismo di controllo e di garanzia dei diritti riconosciuti dalla CEDU è stato riformato dal Protocollo 11 del 1º novembre 1998, pone l’attenzione sul fatto che: “Mentre nell’originario articolo 45 il riferimento all’attività di ‘interpretazione e applicazione’ era sostanzialmente un’endiadi, considerato che la Corte era chiamata a pronunciarsi su casi concreti (nei quali ogni applicazione della Convenzione ne presuppone evidentemente l’interpretazione), nell’attuale articolo 32 si possono distinguere invece questioni di applicazione in concreto da questioni di pura interpretazione, analogamente a quanto accade nell’ipotesi del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea”, p. 607.

[5] Il primo parere emesso dalla Corte europea diritti dell’uomo a cui si fa riferimento in queste pagine è l’: Opinion 10 aprile 2019 (n. 28932/14).

[6]La  Cour de cassation francese ha potuto richiedere il parere nel corso del giudizio di riesame del caso Menesson c. Francia (n. 65192/11, 26 giugno 2014). Il riesame era stato accolto ai sensi di una legge francese che stabilisce la facoltà di richiedere la revisione di giudizi nel caso in cui vi sia stata una condanna dello Stato ad opera della Corte di Strasburgo. Nel caso della sentenza Menesson testè richiamata la Francia era stata condannata per violazione del diritto dei bambini Menesson, nati da GPA in California, al rispetto della vita privata, tutelato dall’art. 8 CEDU.

[7]É noto anche che la maternità surrogata non è permessa neppure in Italia. E’ significativo, quindi, ricordare al proposito che, a distanza di pochi giorni dall’emanazione del parere di Strasburgo, in Italia si è avuta una pronuncia delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione sullo stesso tema (Cass. civ Sez. Unite, Sent. n. 12193, dell’8 maggio 2019), che riprende di fatto le medesime motivazioni espresse nel parere a cui ci stiamo riferendo. In questa sentenza i giudici italiani hanno stabilito, infatti, che la trascrizione dell’atto di nascita redatto all’estero si pone in contrasto con il divieto di maternità surrogata sancito dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004. Essi hanno ribadito, inoltre, che nel divieto di surrogazione della maternità vi è un principio di ordine pubblico che mira alla tutela della dignità della gestante ed anche alla protezione dell’istituto dell’adozione. Il ricorso all’adozione è, infatti, suggerito anche in questa sentenza.

[8]Le riflessioni di A. Gambino sono state pubblicate su www.scienzaevita.org,  l’11 aprile 2019.

[9]Il riferimento qui è al Principialismo americano ed ai suoi Four Principles (Autonomy, Beneficence, Non maleficence, Justice), all’interno dei quali non trova posto la dignità dell’uomo. Per l’approfondimento, si veda F. D. Busnelli, La dimensione della fragilità della persona umana fra principi e regole, in Dignità e fragilità della persona umana, a cura di F. Fontana e A. Tarantino, Napoli, ESI, 2017. Il volume qui ricordato raccoglie gli Atti di un Seminario di studio, sui temi della dignità e della fragilità della persona umana, che si è tenuto a Roma il 12 novembre 2014 presso l’Aula Magna della LUMSA,  i cui lavori sono stati presieduti da G. Dalla Torre.

[10]F. D. Busnelli, La dimensione della fragilità… cit, pp 27 e ss.

[11]La responsabilità a cui qui si fa riferimento è quella nei confronti del nascituro. Più ampiamente, però, il discorso può rivolgersi alla responsabilità delle generazioni presenti nei confronti di quelle future. Sul tema la bibliografia è molto vasta. Qui ricordo solo alcuni autori: P. Becchi, Introduzione, in H. Jonas, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, (1993), trad.it., Einaudi, Torino 2000; R. Bifulco, Diritto e generazioni future, FrancoAngeli, Milano 2008; F. Ciaramelli – F. Menga (a cura), Responsabilità verso le generazioni future. Una sfida al diritto, all’etica e alla politica, Editoriale Scientifica, Napoli 2017; H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979), trad. it. di P. Rinaudo, a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990; Id., Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità (1985), trad. it. di P. Becchi e A. Venussi, Einaudi, Torino,1997; G. Palombella, Ragioni di giustizia, diritti e generazioni future, in “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, (84), 3/2007, pp. 399-436; F. Viola, Le trasformazioni della responsabilità. Verso un’etica ecologica?, in “Studi cattolici”, n. 388, 1993, pp. 340-344. 

[12]Non è errato affermare che nell’ambito bioetico vi sono diverse bioetiche: tante quanto sono le etiche. Su questo punto, tra tutti, si veda E. Agazzi (a cura di), Quale etica per la bioetica?, Milano Franco Angeli, 1990, con i contributi di E. Agazzi, P. Cattorini, P. Kemp, M. Mori, R. Prodromo, E. Soricelli, S. Spinsanti, B. Yudin. 

[13] G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Milano, Mondadori, 2009², p. 14.

[14] Ibidem.

[15]E. Sgreccia traccia la differenza fra i vari modelli bioetici nel suo Manuale di bioetica. Fondamenti ed etica biomedica, Vol. I, Milano, Vita e Pensiero, 2000³; ma le differenze fra i vari modelli di bioetica sono state puntualmente indicate anche F. D’Agostino- L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, Brescia, 2013, pp. 37-82. e da A. Tarantino, Natura dell’uomo e modelli di bioetica, Milano, Giuffrè, 2016, ai quali si rimanda per l’approfondimento.

[16]Come ha fatto notare giustamente Chieppa, tra i profili di maggior pericolo che possono nascere dalla fecondazione eterologa vi sono anche quelli delle possibili anomalie genetiche che potrebbero derivare dalla mancanza o dalla superficialità dei controlli su ovuli o su spermatozoi estranei e non conosciuti alla coppia. Spesso, infatti si è in presenza della mancanza di direttive uniformi che garantiscano la conoscibilità e la tracciabilità delle caratteristiche genetiche e dello stato di salute dei donatori. Questo stato delle cose comporta ineludibilmente «una serie di problemi di responsabilità verso il neonato, che risulti poi affetto da difetti o mal conformazioni permanenti: si apre uno scenario, significativo della improvvisazione nel recepire la possibilità di fecondazione eterologa. […] Questi aspetti, evidenziati già da tempo (non è un problema nuovo e quindi non poteva essere ignorato), si manifestano aggravati sulla base di spinte prevalentemente lucrative e di interessi economici, attraverso offerte o iniziative provenienti dall’estero, talune anche basate da disponibilità di cataloghi, con tanto di foto degli offerenti e, talora, insieme a quelle dei figli già procreati». Cfr. R. Chieppa, Le attuali varie tipologie di genitorialità tra biologica, legale e adottiva: finzioni, contraddizioni e responsabilità, con riguardo anche alla genitorialità da fecondazione eterologa, in Iustitia, 2/2015, p. 133.

[17]Per ulteriori riflessioni sul tema della responsabilità per la generazione mi permetto di rinviare al mio G. Tarantino, Continuità della vita e responsabilità per procreazione, Milano, Giuffrè, 2011.

[18]Rimando alla Nota di F. Macioce per un corretto inquadramento dell’istituto dell’adozione alla prova «delle spinte e tensioni che stanno, ormai da decenni, investendo la famiglia e i rapporti fra i sessi, e che già da tempo hanno cominciato a fare presa e a modificare gli ordinamenti giuridici». Nota che riflette sui temi del 64° Convegno nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, dal titolo Adozione. Passato e futuro di un concetto giuridico, e che si legge in Iustitia, 3/14, pp. 338 e s. Tra le relazioni tenute in quel Convegno Nazionale UGCI, particolarmente significativo per il discorso che si porta avanti in queste pagine è il contributo di I. Trujillo, Il problema dell’adozione e del matrimonio omosessuale nell’attuale pratica dei diritti umani, in Iustitia, 4/15, pp. 485-500. Nello specifico l’autrice svolge le sue riflessioni su due piani principali: quello che riguarda La non discriminazione nella grammatica dei diritti umani, nella prima parte del contributo, e quello che rilegge Il matrimonio omosessuale dal punto di vista (appunto) del matrimonio, nella seconda parte.

[19]F. D’Agostino, G. Piana, Io vi dichiaro marito e marito. Il dibattito sui diritti delle coppie omosessuali, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2013, p. 66.

[20]Idem, p. 69

[21]Idem, pp. 130 e s.

[22]Come opportunamente rilevato da Tondi della Mura, il modello di famiglia sancito nella Costituzione «presenta una precisa caratterizzazione contenutistica, espressiva di una concezione di famiglia dalle chiare implicazioni sul piano relazionale, antropologico e della trasmissione della soggettività; perciò, in netta discontinuità con le concezioni avvicendatesi in precedenza e con tutti i possibili modelli da queste derivabili. Non essendo culturalmente neutro, residuale, o –più ancora– meramente “tradizionale” [esso non può] consentire la commutazione in matrimonio d’ogni forma di convivenza; né tantomeno sembra poter lasciare spazio ad operazioni ermeneutiche, volte ad aggiornare (se non proprio a ridefinire) con legge ordinaria il relativo disegno costituzionale, al fine di favorire le recenti esigenze sociali», V. Tondi della Mura, Istituzioni, famiglia e convivenze: verso una fungibilità dei “modelli familiari”?, in Vita, libertà e sicurezza della persona nella Costituzione italiana e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a cura di G. Tarantino, ESI, Napoli, 2011, p. 86.

[23] Aristotele, Politica, VII, 16, 1334 b, 30-40; 1335 a, 1-40.